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I social media e la divulgazione psicologica

In che modo il tema delle informazioni inesatte, non supportate da fonti autorevoli, può essere legato alla divulgazione di contenuti sulla salute mentale?

Di Omar Bellanova, Carlo Romano, Nicola Zingaro

Pubblicato il 23 Set. 2022

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui un qualsiasi tipo di divulgazione  dovrebbe basarsi su letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche, ma sui social network il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

 

I social media per la diffusione di notizie

 L’avvento dei social media e la loro diffusione a macchia d’olio, verificatasi a partire dagli ultimi due decenni, ha sensibilmente rivoluzionato le vite di gran parte degli abitanti del nostro pianeta, in particolar modo quelli dei paesi occidentali.

L’utilizzo in larga scala delle varie comunità digitali, di pari passo con la diffusione e l’avanzamento della rete internet nel mondo, ha accorciato le distanze tra le persone. Questo, di conseguenza, ha permesso a ogni individuo di poter accedere a una quantità e ad una varietà di informazioni come mai si era potuto fare prima.

I vari ambiti professionali, tra cui quello della psicologia, ne hanno avuto giovamento attraverso la creazione di canali di scambio tra colleghi, che hanno dato vita con più facilità a incontri, progetti, canali scientifici e di divulgazione, favorendo sempre più una rete di comunicazione. Tutto questo attraverso lo sviluppo di interessanti strategie comunicative che hanno coinvolto un pubblico sempre più interessato, preparato e consapevole. Anche società scientifiche hanno aperto pagine istituzionali nei vari social. Insomma, discipline come psicologia, psicoterapia e affini hanno aperto le porte al pubblico mostrando aspetti della professione sui quali vigevano false credenze, stereotipi e fantasie ispirate a contesti come quello di una distratta cinematografia o un semplice passaparola, restituendo un’immagine di umanità ai professionisti e sdoganando l’accesso alle cure e ai processi di crescita personale agli utenti.

La maggior presenza dei temi riguardanti la salute mentale sui social media ha portato e sta portando con sé sia aspetti positivi sia aspetti negativi, la gran parte dei quali, tuttavia, non potrà trovare spazio in questo articolo.

La salute mentale sui social media: gli aspetti positivi e i rischi

Cercando di affrontare sinteticamente gli aspetti positivi che hanno riguardato i temi relativi alla salute mentale, c’è stata in primo luogo la possibilità di poter affrontare temi culturalmente considerati tabù in diverse società e culture. A supporto di questo, hanno avuto un ruolo importante anche i numerosi coming out che personaggi dello sport e dello spettacolo hanno fatto proprio attraverso questi canali dove hanno condiviso le proprie esperienze di difficoltà e di sofferenza e il loro affrontarle in percorsi con professionisti. Non è infrequente che tali personaggi abbiano reso pubbliche, nel modo che loro ritenevano migliore, le proprie esperienze di difficoltà e psicoterapia. Ad esempio, in Italia abbiamo l’emblematico caso dei coniugi Chiara Ferragni (imprenditrice e influencer) e Fedez (cantante e influencer), che non hanno mai fatto segreto del proprio percorso di psicoterapia di coppia, arrivando a mostrare questa intimità in una serie dal nome The Ferragnez. Questo a dimostrazione di come una delle caratteristiche dei social media sia proprio quella di ridurre sensibilmente la distanza tra le persone, in tal modo diventa possibile per i personaggi famosi, fino a quel momento distanti, patinati e inarrivabili, entrare più in intimità con i loro seguaci, i loro follower, mostrando che la fragilità è una cosa di cui si può parlare.

Una conseguenza di questo fenomeno è stata quella di portare le persone che utilizzano maggiormente queste piattaforme, ragazzi e ragazze appartenenti alla generazione Millennial (nati tra il 1981 e il 1996) e alla generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), a una grande esposizione di questo genere di contenuti su queste piattaforme. Non dovrebbe meravigliare, dunque, che proprio gli appartenenti a queste generazioni siano coloro i quali si mostrano più sensibili ai temi riguardanti la salute mentale e, di conseguenza, meno restii a chiedere aiuto (si veda ad esempio, Bethune, 2019; O’Reilly et al., 2018).

Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Come sappiamo, i social e il mondo digitale più in generale, non sempre ci mostrano un lato esclusivamente positivo (Ceron et al., 2014). Così come oggi, in modo semplice e accessibile, la buona pratica usufruisce di questo potente strumento, allo stesso modo può avere accesso anche la cattiva pratica. Per cattiva pratica intendiamo tutto ciò che, applicato o divulgato, può creare cattiva informazione o addirittura compromettere in diversi modi la salute del prossimo, promuovendo interventi dannosi, confondendo sull’accesso alle giuste cure di cui si potrebbe necessitare, o addirittura stigmatizzare il malessere che rischierebbe di non essere portato alla luce.

Uno dei fenomeni di cattiva pratica in grado di portare a conseguenze negative, spesso anche gravi, è dato dalla possibilità che informazioni non opportunamente verificate si diffondano: le cosiddette fake news. Può facilmente balzare all’occhio di chiunque la pericolosità della circolazione di tali notizie, tanto che anche il sito del Ministero della Salute ci ha tenuto a sottolineare quanto “Bufale e disinformazione sono molto pericolose quando riguardano la salute e spesso non è facile distinguerle tra milioni di informazioni” (Fake News, n.d.). In che modo il tema delle informazioni inesatte, non supportate da fonti autorevoli, può essere legato alla divulgazione e alla condivisione di contenuti riguardanti la salute mentale?

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui una qualsiasi informazione dovrebbe essere passata in rassegna dalla letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche. In un mondo, come quello dei social media, in cui qualsiasi informazione non ha la necessità di essere riconducibile a una fonte attendibile, il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

Un caso specifico

Un esempio riguarda uno dei temi caldi dei social media, quello relativo al costrutto di narcisismo, che è proprio quello di cui abbiamo voluto occuparci in questo articolo, la cui idea nasce da un gruppo di professionisti presenti sui social che ritiene sempre più urgente una promozione di specifici principi volti alla tutela della professione e dell’utenza. L’episodio scatenante è il seguente: sulla pagina del CNOP è stato condiviso un articolo pubblicato su un sito di divulgazione psicologica.

La problematica che viene presentata, sicuramente sempre attuale e interessante, tratta il tema delle relazioni vissute con sofferenza e i possibili malesseri che ne derivano. Fin qui nulla di strano. Non è infrequente, infatti per un clinico ricevere richieste legate a momenti di vita in cui una persona è da poco uscita o fa fatica ad uscire da una relazione che la mette a dura prova. Queste sono quelle che la folk psychology, la psicologia pop o ingenua, definisce “relazioni tossiche”. Un clinico, invece, in base alle circostanze, potrebbe definire tali dinamiche di relazione in diversi modi, ad esempio dipendenza affettiva. La dinamica in linea di massima nasce dalla persona che, nella speranza di vivere un idillio amoroso, è divenuta partecipante di una relazione che l’ha esposta a vivere e ad affrontare delle condizioni tutt’altro che piacevoli, spesso con un individuo che non ha corrisposto alle sue aspettative o quanto meno l’ha fatto solo in una fase iniziale della relazione.

Proseguendo, l’articolo in questione descrive questa dinamica in termini nefasti. Una persona rappresentata come una persona disponibile, comprensiva, aperta al dialogo, insomma una persona “buona”, incontra sulla sua strada una persona “predatrice”, cieca ai bisogni altrui, estremamente egocentrica, insomma una persona “cattiva”, definita impropriamente “narcisista”. Lo scopo di quest’ultima è quello di “vampirizzare” le risorse energetiche dell’altro attraverso una serie di capacità manipolative che terranno il/la malcapitato/a in una relazione dalla quale uscire sarà quasi impossibile. Inoltre, nel suddetto articolo vengono fornite una serie di indicazioni da seguire per permettere alla persona di allontanarsi da questa situazione spiacevole.

Questo articolo solleva diverse questioni, sulle quali troviamo giusto, proprio a fede del rigore scientifico di cui parlavamo, condividere alcune delle nostre riflessioni.

L’autore del suddetto articolo inquadra questa situazione definendola con il nome di “abuso narcisistico”.

La letteratura è praticamente piena di questi studi. Insomma, chi non desidererebbe vivere una relazione sana e appagante? Tutti tranne quelli che stanno bene da soli anche senza una relazione sana e appagante.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Punto primo, nessuno ha mai negato che la relazione con una persona affetta da disturbo narcisistico non possa essere dannosa per il proprio benessere e la propria qualità di vita. Difatti, il termine stesso di Disturbo di Personalità sottoscrive anche la descrizione di come gli aspetti funzionali di una persona, le sue capacità relazionali, il suo potenziale di maturazione nella vita e la capacità di perseguire obiettivi sani e realistici, sono elementi compromessi, in gradi più o meno diversi. L’incapacità di poter vivere relazioni appaganti e sane purtroppo rientra tra le problematiche. Questo però non è una prerogativa solo del disturbo narcisistico di personalità. Purtroppo le relazioni, per le persone affette da disturbo di personalità, sono circostanze dove l’intimità e la vicinanza richiamano con molta facilità, dinamiche legate ad aspetti della propria sofferenza personale. Avviene quindi che il soggetto si trova a dover fronteggiare contenuti legati alla sua storia personale e ai processi evolutivi, per i quali spesso egli non ha né la giusta consapevolezza né tantomeno i giusti strumenti che gli permetterebbero di avere buone dinamiche relazionali.

Nel leggere l’articolo in questione, invece, le cose sembrano presentate da un punto di vista differente che inquadra sostanzialmente due protagonisti. Da una parte i narcisisti, visti come persone che hanno ben pensato di sviluppare un simile disturbo con lo scopo ultimo di andare a rendere difficile la vita altrui per nutrirsi della sofferenza distillata dal malessere che sono in grado di generare; dall’altra una vittima, la cui unica colpa è quella di essere “empatica” che, braccata dal narcisista, viene ingannata, manipolata e annullata all’interno di una relazione dalla quale ne uscirà con un disturbo post traumatico da stress (Post-Traumatic Stress Disorder; PTSD).

Il tutto veniva racchiuso sotto la definizione di “Sindrome da abuso narcisistico”.

Ma dove risiede l’errore? Intanto iniziamo a chiederci per chi la fine di una storia non è collegata a una sofferenza? Per nessuno. Siamo mammiferi e quando le nostre relazioni significative si interrompono per qualche motivo noi soffriamo, anche se chiudiamo la relazione per stare meglio. È innegabile che, se all’interno di tale relazione ci sono state delle dinamiche di svalutazione e di violenza, se ne esce con delle ferite. Premesso questo, tuttavia, è importante, alla conclusione di una relazione così devastante, farsi una domanda molto semplice, ma fondamentale: “Come ci sono finito/a?”. Qui forse l’ipotesi di essere semplicemente “empatici” potrebbe essere un po’ debole, oltre che poco utile da un punto di vista clinico.

In effetti, essere vittime di maltrattamento e di svalutazione in una relazione è una tematica sicuramente importante, ma affermare che il problema reale sia la diagnosi di una terza persona è molto lontano da un piano terapeutico utile e reale. Infatti, quello che si rischia di perdere di vista innanzitutto è il reale obiettivo del trattamento terapeutico, ovvero aiutare la persona non solo a superare il momento attuale di sofferenza, ma soprattutto a sviluppare un’adeguata conoscenza e capacità di padroneggiare dei propri pattern relazionali, con l’obiettivo di non trovarsi più in situazioni del genere.

Da qui ci colleghiamo ad un altro aspetto centrale sollevato dall’articolo in questione. Non viene considerato minimamente il ruolo della persona descritta come “vittima” nella costruzione e nel mantenimento di una dinamica relazionale di sofferenza. Come abbiamo visto, questo rischia di essere dannoso poiché non aiuta la persona a comprendere di essere parte attiva del proprio cambiamento e, di conseguenza, della propria evoluzione.

 Un altro aspetto molto importante è quello della “diagnosi per procura”. Ovvero il fatto che l’autore dell’articolo, utilizzando i racconti della “vittima”, formulava impropriamente un termine diagnostico. È importante sottolineare che non è possibile dare una definizione diagnostica a una persona con la quale non si ha interagito in prima persona. A tal proposito, vogliamo citare la regola Goldwater, dell’American Psychiatric Association (APA), in cui si afferma che gli psichiatri non dovrebbero esprimere un’opinione professionale su personaggi pubblici che non hanno esaminato di persona e dai quali non hanno ottenuto il consenso per discutere della loro salute mentale in dichiarazioni pubbliche. Lo stesso codice deontologico degli psicologi italiani, nell’articolo 25, afferma che “lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone”.

Per giunta, impostare un trattamento basandosi sulla diagnosi di una terza persona che non è il paziente, potrebbe portare a un percorso infruttuoso, se non dannoso.

Ultima osservazione sulla diagnosi per procura, ma non meno importante, è che la descrizione del disturbo narcisistico viene estrapolata dai criteri presenti sul Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorder; DSM), ma il tutto viene infarcito da una serie di descrizioni e attribuzioni che non sono proprie della diagnosi del disturbo. Queste, infatti, appartengono a ben altra problematica conosciuta in letteratura, tutt’ora oggetto di studio e sotto dibattito scientifico, che prende il nome di “triade oscura”, in cui una somma di aspetti sotto il nome di machiavellismo, psicoticismo e narcisismo si combinano delineando qualcosa che è ben diversa da quello che potremmo definire disturbo di Personalità Narcisistica.

Oltre agli aspetti che abbiamo illustrato finora, è interessante notare che i diversi colleghi che hanno provato a commentare l’a-scientificità dell’articolo condiviso dal CNOP, sono stati assaliti da insulti, commenti svalutanti e addirittura minacce. Molti di questi erano legati al fatto di sentirsi delegittimati dal proprio ruolo di vittima, come se mettere in dubbio l’affermazione “abuso narcisistico” togliesse credibilità alla sofferenza che queste persone avevano vissuto.

Questo episodio pone il CNOP in una posizione scomoda. Difatti, una folta comunità di colleghi ha manifestato sui social il proprio dissenso in quanto non si è sentita rappresentata da una comunicazione che non rispetta la natura scientifica della psicologia stessa. La risposta ufficiale del CNOP a tale critica è stata quella di voler prediligere una posizione neutrale volta a mantenere un dibattito.

Ciò che poi vogliamo dire avviandoci alla conclusione, è che noi psicologi possiamo dibattere, ma su idee scientifiche. Difatti, molti di noi sono iscritti a società scientifiche proprio per questo motivo. È possibile in tal senso discutere su una procedura di ricerca, su un modo diverso di interpretare i dati alla luce di altri dati di letteratura ecc., ma non è possibile discutere di argomenti presentati sotto forma di opinioni, anche ispirate a vissuti personali, che non rispettano i dovuti criteri scientifici necessari.

Conclusioni

In conclusione, lo scopo di questo articolo non è quello di fare sterile polemica, ma sollevare problematiche importanti e cercare di aprire dibattiti che possano portare a confronti produttivi.

Per tale motivo vorremmo chiudere con delle proposte che hanno lo scopo di salvaguardare, all’interno dei social media, i principi etici e professionali della psicologia in quanto scienza, via di cura e di benessere per l’individuo.

Una prima proposta è quella di creare in Italia delle linee guida per un corretto utilizzo dei social media per gli psicologi. Di riferimento possono essere quelle stilate dall’American Psychological Association (American Psychological Association, 2021) per l’uso ottimale dei social media nella pratica psicologica professionale.

In aggiunta, pensiamo che la creazione di un comitato etico e scientifico che possa ricoprire la funzione di supervisione e salvaguardia costituirebbe sicuramente una grande tutela dell’immagine professionale e della qualità dell’informazione.

Nella realizzazione di queste proposte si potrebbero creare dei tavoli di dibattito presso i quali le società scientifiche presenti sul territorio nazionale potrebbero partecipare con i propri rappresentanti offrendo un contributo di non poco valore.

Restando realisti, comprendiamo che l’oceano della divulgazione digitale è assai vasto e complesso, ma proprio per tale motivo, è necessario che l’imprescindibile presenza di una categoria professionale che si occupa di salute e benessere, si ispiri ai principi professionali che la rappresentano e che quindi sono necessari degli interventi tempestivi a tal merito.

Insomma, se è una cosa che deve portare del bene allora, va fatta bene.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bethune S., (2019). Gen Z more likely to report mental health concerns. Monitor on Psychology, 50(1).
  • O'Reilly M, Dogra N, Hughes J, Reilly P, George R, Whiteman N. (2019). Potential of social media in promoting mental health in adolescents. Health Promot Int. 2019 Oct 1;34(5):981-991. doi: 10.1093/heapro/day056 DOI. PMID: 30060043 ID Pubmed; PMCID: PMC6904320.
  • Ceron, A., Iacus, S. M., & Curini, L. (2014). Social media e sentiment analysis: L'evoluzione dei fenomeni sociali attraverso la rete. Springer.
  • Fake News. (n.d.). Ministero Della Salute. Retrieved on September 19, 2022 here.
  • American Psychological Association, APA Committee on Professional Practice and Standards. (2021). Guidelines for the Optimal Use of Social Media in Professional Psychological Practice. Retrieved here.
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