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Eutanasia, lutto ed empatia

Quanto il tabù della morte, nella riflessione su eutanasia e dignità della vita, fa leva più sul giudizio che sull'empatia?

Di Stefano Borioni

Pubblicato il 20 Apr. 2022

Aggiornato il 22 Apr. 2022 12:04

Il tema dell’eutanasia – letteralmente “buona morte” – è da sempre divisivo: se da una parte c’è chi sostiene che porre fine alle proprie sofferenze irreversibili sia il diritto di ogni essere umano, altri ritengono che la vita vada comunque tutelata e che il confine tra sostegno al suicidio ed istigazione, seppur implicita, a quest’ultimo sia molto sottile.

 

Negli scorsi giorni la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum sull’eutanasia attiva, richiesto dall’associazione “Luca Coscioni” tramite una raccolta di firme.

Il tema dell’eutanasia – letteralmente “buona morte” – è da sempre divisivo: se da una parte c’è chi sostiene che porre fine alle proprie sofferenze irreversibili sia il diritto di ogni essere umano, altri ritengono che la vita vada comunque tutelata e che il confine tra sostegno al suicidio ed istigazione, seppur implicita, a quest’ultimo sia molto sottile. Ciò si collega con il dato di realtà, fotografato dall’ultimo rapporto Istat, che evidenzia come chi decide di porre fine alla propria vita lo faccia anche senza il benestare dello stato, molto spesso attraverso pratiche violente e dolorose.

Eutanasia, morte e perdita

Facendo un passo indietro – azione che talvolta corrisponde a farne uno in avanti, come per apprezzare meglio certi quadri impressionisti – emerge che a fronte di confronti specifici legati al fine vita, all’eutanasia ed al suicidio assistito, c’è un tema più profondo che rimane in ombra: la morte, e con essa la perdita.

Nonostante sia un’esperienza che tutti conosciamo – nel corso della nostra vita sperimentiamo molte perdite, concrete o simboliche che siano – quello della morte è un aspetto che rimane solitamente al di fuori delle dinamiche collettive, restando confinato nella sfera privata. Proprio questo termine, privato, nella sua duplice lettura di sostantivo e di verbo, è particolarmente esplicativo: chi subisce una perdita, quindi un profondo dolore privato, rischia di essere privato del sostegno di cui ha bisogno.

Fatta eccezione per chi ha la forza di affrontare questo momento di grande difficoltà con il sostegno di uno psicoterapeuta, le altre persone si trovano a gestire da sole – o se si è fortunati con il supporto della propria rete familiare, anch’essa però provata dalla perdita – un momento di profonda crisi, rischiando non solo di non riuscire ad elaborare il lutto, ma anche di non aver consapevolezza di questa mancata elaborazione.

In quest’ottica da alcuni anni le pubblicazioni sull’argomento tendono a definire “lutto complicato” quei quadri caratterizzati dalla mancata risoluzione spontanea delle manifestazioni psicologiche associate alla perdita. Anche il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) ha inserito nell’ultima edizione il “disturbo da lutto persistente complicato” come una delle “condizioni che necessitano di ulteriori studi”, evidenziando somiglianze e differenze cliniche che intercorrono tra esso, la depressione ed il disturbo da stress post-traumatico.

Rispetto ad altre culture o ad epoche passate, la società contemporanea pur raccontando mediaticamente episodi legati alla morte – si pensi alla cronaca giornalistica e televisiva della scomparsa d’importanti personaggi della cultura, dello sport o della politica tramite speciali e dirette tv – tende a non dare altrettanta importanza alla dimensione emotiva e relazionale di tale evento.

Dalla “pornografia della morte” alla morte come tabù

Nell’ articolo “La pornografia della morte” l’antropologo Geoffrey Gorer è stato uno dei primi ad analizzare come nel ‘900 fosse socialmente accetabile parlare di morte ma del tutto sconveniente fare riferimento alla sessualità, basti pensare alle resistenze ed alle aspre critiche che hanno suscitato i lavori di Sigmund Freud, oggi considerato padre della psicoanalisi ma al tempo profondamente osteggiato.

Con il passare degli anni la situazione è progressivamente cambiata: se prima si faceva della morte quotidiana un’esperienza condivisa, come nel caso delle cerimonie funebri pubbliche e partecipate, con il superamento dei valori e della morale imposti nel ‘900 il fenomeno si è progressivamente ridotto e parlare di morte è diventato sconveniente, se non un vero e proprio tabù.

Da quando questo saggio è stato pubblicato la società è inoltre cambiata ulteriormente: il consumismo e la rivoluzione tecnologica (e con essa internet, i social network, i like, l’esposizione costante della propria vita agli amici virtuali) ha sollecitato le persone a mettere in risalto successi e presunta felicità, ponendo sempre più in ombra – non solo agli occhi del mondo ma anche ai propri – tutto quel che provoca dolore, spavento o vergogna. Si mostra il proprio lato patinato, impreziosito dall’ultimo status symbol, e si nascondono quegli aspetti di noi stessi che riteniamo essere più brutti o fragili.

Come tutti ricordano lo shock per l’attacco in diretta alle torri gemelle nel 2001, in pochi sono rimasti impassibili alla triste processione delle bare dei morti per Covid trasportate dai camion militari a Bergamo nel 2020. L’esposizione ad un evento così doloroso, più del funerale di stato di qualunque personalità pubblica, ha infranto un tabù collettivo molto profondo e delicato: in quelle bare non c’era Steve Jobs o Diana Spencer, c’eravamo noi. Noi che siamo abituati alla morte raccontata in tv come narrazione dell’altro – del famoso o del delitto di cronaca – non associata a quella normalità che ci contiene, attraversa e rappresenta.

Il tabù della morte e la riflessione sull’eutanasia: quale il ruolo dell’empatia?

Ed è in questo contesto, con l’aumento dei disturbi legati ad ansia e depressione certificato da numerosi studi (si pensi a quello pubblicato su The Lancet nel 2021), che le persone sono state sollecitate ad una riflessione legata all’eutanasia, cioè ad esseri umani che scelgono consapevolmente di morire. Quanto tutto ciò si presta a narrazioni che, invece di sollecitare una riflessione sulla dignità della vita, fanno leva su di un più generico valore assoluto di quest’ultima, favorendo il giudizio più dell’empatia?

Ultimamente di empatia si parla spesso ed è un bene perché può rappresentare una chiave fondamentale per entrare in relazione con l’altro. Quel che però non si dice altrettanto spesso è che l’empatia non è una chiave che si compra bella e pronta dal ferramenta, ma uno strumento che limiamo noi stessi, giorno dopo giorno, magari alla luce di tutte le altre chiavi che abbiamo costruito nel tempo. La vera empatia passa tramite un modo nuovo, autentico e talvolta difficile, di partecipare all’esperienza del prossimo attraverso la propria esperienza personale, cercando nel proprio vissuto quanto più di simile a quel che l’altro sta provando. Citando lo psicoanalista Stephen Mitchell “c’è una differenza enorme tra la falsa empatia, superficiale ed artefatta, e l’empatia autentica, a cui si arriva attraverso falsi indizi, incomprensioni, ed un profondo lavoro personale da parte di entrambi” i soggetti che partecipano alla relazione.

Lo psicoanalista Heinz Kohut ha definito l’empatia “introspezione vicariante”, se non è possibile entrare direttamente nel mondo interiore dell’altro per sperimentale i suoi stati mentali – positivi o negativi che siano – visto che ognuno ha accesso solamente al proprio mondo interno, è possibile prestare agli altri la propria capacità introspettiva.

In tal senso prestare attenzione in modo empatico alla sofferenza altrui non significa solo dire “mi dispiace”, quanto cercare di ricordare esperienze proprie analoghe a quelle che l’altro sta provando, che suscitino in noi una risposta emotiva in cui possa risuonare l’esperienza altrui.

Esprimere un parere o prendere posizione – qualunque essa sia – su di un tema che riguarda una dimensione talmente profonda come quella del fine vita o del lutto senza aver prima fatto questo lavoro intersoggettivo, significa non entrare in quella giusta risonanza empatica che può illuminare il nostro sentire, soprattutto in una società che – non parlando di morte – può implicitamente suggerire che si tratti di una questione di cui vergognarsi.

La realtà, le relazioni, non ci arrivano solo attraverso i nostri sensi, ma anche tramite quest’introspezione che caratterizza il lavoro del professionista ma può rappresentare un modello utile a chiunque voglia empatizzare con il prossimo. Citando nuovamente Mitchell “il ponte che mette in relazione con gli altri non è fatto di una razionalità che prende il posto della fantasia e dell’immaginazione, ma di sentimenti vissuti come reali, autentici, generati dall’interno, piuttosto che imposti dall’esterno, in stretta relazione con la fantasia e l’immaginazione“.

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Association. Diagnostic and statistical manual of mental disorders. 5th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association; 2013.
  • Carmassi, C., Conversano, C., Pinori, M., Bertelloni, C.A., Dalle Luche, R., Gesi, C. (2016). Il lutto complicato nell’era del DSM-5, Rivista di Psichiatria, 51(6), 231-237.
  • Gorer, G. (1955, Ottobre). The Pornography of Death. Encounter, pp. 49-52.
  • Kohut, H. (1982). La ricerca del Sè. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Mitchell, S. A. (1999). Influenza e Autonomia in Psicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Santomauro, D. F., Mantilla Herrera A., Shadid, J. (2021). Global prevalence and burden of depressive and anxiety disorders in 204 countries and territories in 2020 due to the COVID-19 pandemic, The Lancet, 398, pp. 1700-1712.
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