La Death Education, letteralmente “educazione alla morte”, ha come intento quello di scardinare tutte le difese che l’uomo ha nel tempo eretto contro la morte e che gli impediscono di giungere alla reale comprensione di quest’ultima.
Introduzione: Terror Management Theory (TMT)
La TMT (Terror Management Theory) spiega come la conoscenza della propria mortalità rappresenti una minaccia esistenziale per l’uomo in quanto la morte è in contrasto con l’innato istinto di sopravvivenza che contraddistingue tutti gli esseri viventi (Pyszczynski, Lockett, Greenberg & Solomon, 2020). La TMT descrive infatti come l’essere umano tenga a distanza l’ansia per la morte attraverso una serie di difese come ad esempio la fede religiosa, che funge da scudo protettivo per la persona. Assieme alla naturale tendenza dell’uomo ad allontanare la morte, la cultura di appartenenza spesso rinforza questo fenomeno, come nel nostro caso. Appare dunque quasi paradossale come si giunga così poco preparati a quella che forse è una delle poche condizioni a cui certamente andremo tutti incontro. Come se la morte fosse, sin dalla nascita, di default, qualcosa con cui ci si confronterà solo in un altro momento. Come se la paura suggerisse che è sempre troppo presto, senza accorgersi che il più delle volte è già troppo tardi.
L’ansia per la morte, o death anxiety, è la paura rispetto all’anticipazione della morte, nonché della consapevolezza della morte e della non-esistenza, di cui la persona può essere cosciente o meno (Barrett, 2013). Quando particolarmente marcata, la death anxiety, può manifestarsi anche attraverso forte ansia e/o ricorrenti pensieri ossessivi. Secondo alcuni studi, la paura della morte ha il suo apice tra i 40-60 anni per poi diminuire in età più avanzata (Fortner & Neimeyer, 1999). Contrariamente, altri autori suggeriscono che essa sarebbe maggiore verso i 20 anni per poi presentarsi nuovamente verso i 50 anni ma soltanto nelle donne (Russac, Gatliff, Reece & Diahann, 2007). Nonostante i diversi risultati presenti in letteratura, il pensiero della morte, e più generalmente della nostra e dell’altrui mortalità, è costantemente presente nella nostra vita già dall’infanzia (Nagy, 1948). Tale pensiero può essere più o meno costante ed essere riportato all’attenzione da eventi o situazioni della vita quotidiana, innescando stati emotivi spesso spiacevoli e poco approfonditi dall’individuo.
Lo studio della morte dal punto di vista psicologico e culturale prende il nome di tanatologia. Herman Feifel, uno degli autori fondamentali del movimento per la consapevolezza sulla morte, ha per primo suscitato l’interesse verso lo studio di questa da un punto di vista multidisciplinare e più umanistico (Wass, 2004). Più specificamente, la psicotanatologia, si occupa del sostegno psicologico diretto alle persone che si trovano in situazioni di prossimità alla morte, propria o di uno dei loro cari (es. pazienti terminali). Il modello psicotanatologico deve la propria nascita alla psichiatra svizzera E. Kubler Ross; il suo modello (1970) a cinque fasi descrive infatti le principali tappe di elaborazione psicologica della morte: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione.
Grazie al contributo dei pionieri nello studio psicologico del concetto di mortalità e di morte è possibile oggigiorno comprendere come l’individuo, e più ampiamente la società moderna, si rapporti al fenomeno, in particolare alla luce dei più recenti avvenimenti. Nell’ultimo anno la rapida diffusione del virus Covid-19 ha reso sempre più evidente l’inevitabilità della morte e quanto noi siamo impotenti di fronte ad essa. Come anticipato, la TMT postula che le persone cerchino di far fronte, come possono, all’ansia che risiede nei pensieri inerenti la morte, per esempio attraverso la religione o le relazioni interpersonali. Questi espedienti hanno infatti la precisa funzione di tamponare l’ansia di morte (Solomon et al., 2015). Ma per quanto l’uomo tenda a tener lontana la morte e tutto ciò che la riguardi, l’emergenza Covid-19 e la copertura mediatica che essa ha ottenuto a livello mondiale si è tramutata in un considerevole promemoria; inoltre, le conseguenze socio-economiche della pandemia, sommate all’isolamento che ne deriva, hanno messo a repentaglio le difese dell’uomo per fronteggiare l’ansia scaturita dai pensieri di morte (Pyszczynski, Lockett, Greenberg & Solomon, 2020). La distanza relazionale attorno alla morte che, come verrà approfondito, già si poneva come una piaga, in questa condizione non ha potuto che peggiorare. È diventato molto più difficile gestire il terrore della morte in tempi in cui essa fa da padrone. Come spiegano Pyszczynski e colleghi (2020) una maggiore consapevolezza della morte associata alla minaccia del Covid-19 è difficile da gestire con successo perché il Covid-19 ha minato l’accesso a molti aspetti dei buffer di ansia delle persone; buffer di ansia che se compromessi lasciano le persone vulnerabili a sperimentare livelli di ansia da morte più elevati del solito.
Death Education: alcune evidenze circa la DeEd primaria.
La Death Education, letteralmente “educazione alla morte” ha come intento quello di scardinare tutte le difese che l’uomo ha nel tempo eretto contro la morte e che gli impediscono di giungere alla reale comprensione di quest’ultima. La DeEd vede le sue origini nel mondo anglosassone a partire dal 1970. Negli anni a venire questi percorsi, così come altre iniziative inerenti al tema, si sono ampiamente diffusi anche negli Stati Uniti (Clifton, 2003). L’Europa, dal canto suo, per lungo tempo è rimasta arretrata fino all’istituzione di centri di ricerca appositi in tempi più recenti.
La Death Education può essere effettuata a tre livelli: primaria (quando le problematiche inerenti alla morte non sono presenti o vicine nel tempo), secondaria (quando la morte è in prossimità) e terziaria (quando la perdita è già avvenuta). Appare rilevante sottolineare come l’intento di impartire un’educazione alla morte può essere meglio raggiunto se si interviene sin dalla tenera età, in quanto un intervento precoce può essere quello con maggiori probabilità di successo.
Un esempio di DeEd primaria consiste in un percorso educativo atto a fornire delle informazioni realistiche sulla morte, svincolando quest’ultima dalle spettacolarizzazioni offerte dai media. Inoltre, ha l’obiettivo di fornire un alfabeto emotivo con cui poter dar voce ai propri vissuti rispetto al tema trattato (Testoni, 2015). Questa tipologia di iniziativa ha luogo spesso all’interno della scuola visto che essa risulta essere la seconda agenzia educativa subito dopo la famiglia. Lo scopo è quello di coadiuvare i più piccoli ad elaborare eventuali vissuti spiacevoli correlati a perdite passate e per far ciò è necessario, anzi indispensabile, che gli insegnanti per primi abbiano grande consapevolezza dei propri trascorsi (Edgar & Howard-Hamilton, 1994). Il fine ultimo è quello di sviluppare resilienza accompagnata da strategie di coping che, all’occorrenza, potranno fare la differenza, disincentivando così la probabilità di crescere fino a ritrovarsi adulti con una censura verso la morte e le sue implicazioni. Un buon livello di consapevolezza relativa alla perdita consente all’individuo di “non temere l’impossibile, imparando a gestire l’inevitabile” (Testoni, 2015). Il miglior tramite per ottenere questa maggiore consapevolezza sono i percorsi di Death Education. Un esempio proveniente da una scuola elementare italiana spiega come un percorso di educazione alla morte possa essere sviluppato in occasione della festa dei morti (2 novembre): è stato chiesto ai genitori di bambini di una classe di cinque anni di portare la foto di persone care defunte e di raccontarne la biografia. Un progetto del genere presuppone sia che i genitori ed insegnanti abbiano elaborato con successo i propri vissuti rispetto alla perdita, sia che vi sia una collaborazione tra la scuola e la famiglia, perché quanto esperito in un ambiente possa trovare sostegno anche nell’altro, in una sorta di continuum esperienziale ed emotivo in cui si acquisiscono delle skills per elaborare vissuti di perdita (Testoni, Tranquilli, Salghetti, Marini & Legrenzi, 2005).
Dal momento che il concetto di morte si sviluppa fin dalla tenera età, risulta chiaro quanto sia importante intervenire precocemente. Le prime ricerche eseguite in merito hanno abbracciato una visione stadiale. Ad esempio, Nagy (1948) identifica tre fasi temporali di sviluppo attraverso le quali si inizia a definire la morte, inizialmente vedendola come una “partenza temporanea” fino a giungere alla consapevolezza che essa sia un evento inevitabile ed invincibile. Intervenire in questi momenti cruciali consentirà di offrire un supporto grazie al quale apprendere come relazionarsi con tali pensieri.
Difficoltà e reticenza dell’adulto nell’affrontare il tema della morte ostacolano la comprensione nei più piccoli confondendoli e portando loro maggiori livelli di ansia. L’evidenza scientifica dimostra come tanto peggio è compreso il concetto di morte tanto più questo si associ ad un livello maggiore di paura; al contrario, più viene maturata un’idea completa di morte e meno essa sarà accompagnata da sentimenti di ansia (Slaughter, 2005; Slaughter & Griffiths, 2007).
Dall’analisi della letteratura in merito agli effetti della DeEd su ansia e paura della morte emergono numerose evidenze circa gli effetti positivi della prima sulla death anxiety e sulla più generale paura della morte. Numerosi sono gli studi che indagano questa relazione in gruppi di studenti, e, in particolare, in studenti iscritti a facoltà sanitarie (es. infermieristica). McClatchey e King (2015) hanno indagato l’impatto della Death Education sulla paura della morte e death anxiety in un gruppo di studenti iscritti ad un corso di laurea in Servizi Sociali (Human Services). Un gruppo di studenti ha partecipato a delle classi tenute da docenti e ospiti provenienti da contesti diversi, es. centri di oncologia, hospice, ospedali e studi legali, i quali hanno discusso vari temi legati alla morte quali lutto, eutanasia e suicidio. Dai risultati emerge come gli studenti che hanno partecipato alle classi di DeEd riportano livelli di death anxiety e sintomi ansiosi significativamente minori rispetto agli studenti che non hanno partecipato alle classi.
Altri studi mostrano invece come gli interventi di educazione alla morte possano invece, alcune volte, portare ad un aumento dell’ansia legata alla morte. Da uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari è emerso che i partecipanti coinvolti in un programma di Death Education della durata di un semestre, rispetto agli studenti nel gruppo di controllo, mostravano livelli di ansia per la morte maggiori (Knight & Elfenbein, 1993). Secondo gli autori, i diversi risultati che emergono dagli studi presenti in letteratura mostrerebbero come, al di là dei possibili interventi, molto dipenda proprio dal significato che ciascuno dei partecipanti, e dunque ciascuno di noi, attribuisce alla morte. Infatti, all’interno del gruppo di controllo – studenti partecipanti alla classe di death education – il 41% (12 studenti) – ha riportato indici di death anxiety minori rispetto all’inizio del programma in quanto avevano iniziato ad associare alla morte un significato più positivo.
Risulta quindi fondamentale affrontare la morte da più prospettive: biologica, culturale, religiosa, etica e non inculcare una sua rappresentazione univoca, come ad esempio quella religiosa. La percezione dell’adulto, di una propria o altrui (es. dei bambini) incompetenza nel dialogare di morte, non è mai una buona ragione per lasciare i bambini da soli perché niente potrà impedirgli di porsi delle domande sulla morte atteso che, come si è visto, i pensieri sulla morte iniziano a comparire molto presto, e lasciare che si rispondano da soli senza alcun tipo di sostegno potrebbe essere deleterio. Se i percorsi di DeEd primaria venissero introdotti nel curriculum formativo scolastico si aumenterebbero di certo le probabilità di ottenere delle generazioni più accoglienti e meno reticenti rispetto al tema.
Congiura del silenzio attorno alla morte ed al morire
Venir meno a questa responsabilità nei confronti dei più piccoli significa perpetuare la cultura della cosiddetta “congiura del silenzio” – definita quasi come una patologia relazionale – attorno a questo tema, non rinforzando ma anzi mettendo più a rischio le impalcature emotive a fronte di una perdita, in quanto il soggetto non si troverà equipaggiato per affrontare la tempesta emotiva (Testoni, 2015). Questo atteggiamento è incentivato dalla cultura che negli ultimi decenni è andata sempre più perdendo quella dimensione collettiva della morte, vissuta sempre più in solitudine. Infatti, fino a qualche decennio fa il processo di elaborazione di una perdita veniva affiancato da un sostegno comunitario testimoniato da una fitta rete di supporto e da consuetudini ben radicate e tramandate nel tempo. Ad oggi, il confronto che spesso si tramuta in uno scontro con la morte è sempre più relegato alle mura domestiche. Se, come precedentemente argomentato, il singolo spesso risulta sprovvisto di un equipaggiamento emotivo per far fronte ad una perdita, appare evidente quanto il ritorno alla condivisione e all’incontro con l’altro risulti necessario. Se pensiamo alla situazione pandemica che ci troviamo a vivere, essa ha portato ancor più alla luce la sofferenza dell’isolamento. E’ noto come i riti funebri, ad esempio, aiutino l’elaborazione della perdita, consentendo di porgere l’ultimo saluto con modalità e tempi che favoriscano il distacco dalla persona defunta. La diffusione del Covid-19 ha fatto sì che anche questa possibilità venisse meno andando ad esacerbare tale dolore. La Testoni (2015) afferma che l’occultamento della morte abbia condotto a quelle che definisce generazioni di famiglie death-free, prodotto dell’aver relegato la morte dietro le quinte della vita sociale, illudendosi di potersene così in qualche modo liberare. Già Vovelle (1983) in merito asserì come la morte dovrebbe condurre ad una sensibilità collettiva perché solo così potrà aver luogo una presa di coscienza sociale.
Una buona Death Education svolge un ruolo cruciale anche per tutte quelle figure mediche e/o professionali che si interfacciano quotidianamente con la morte e che hanno un’influenza anche sul paziente e le sue figure di riferimento. I percorsi formativi di tali figure includono una preparazione procedurale che troppo spesso non è affiancata da un sostegno psicologico che li supporti nel loro dialogo quotidiano con la morte. Sono troppi i casi in cui una buona capacità comunicativa del personale sanitario potrebbe fare la differenza ed invece il dialogo è spesso ostacolato quando è necessario affrontare temi così delicati.
A tal proposito, con l’espressione Breaking bad news si indica una comunicazione di una brutta notizia il cui impatto risulta essere proporzionale a quanto il soggetto giunge “pronto” alla sua recezione. Partendo dal presupposto che difficilmente si possa giungere “pronti” ad un confronto diretto o indiretto con la morte, di certo molto si può fare per giungerci quanto meno attrezzati. Comunicare una bad news indica il riferire un’informazione che comporta la presa di coscienza di un punto di non ritorno, come ad esempio una prognosi infausta o traumi che colpiscono persone care (Testoni, 2015). A tal proposito risulta utile, per una più ampia comprensione, esplicitare i due modelli culturali di riferimento: il neo latino/mediterraneo (in cui si colloca/inserisce il contesto italiano) che occulta le reali condizioni al malato, e l’anglosassone che applica lo stretto principio del truth telling ovvero dire tutta la verità. Esistono numerosi protocolli (es. le linee guida dell’OMS) che si pongono come strumento atto a coadiuvare il clinico nella comunicazione delle bad news al paziente e alla famiglia. Nell’eventualità in cui si ha a che fare con la condivisione di una prognosi infausta, la comunicazione di essa non si esaurisce in un solo colloquio. Di contro, ci sono molteplici occasioni in cui non si dispone di un tempo utile per costruire una base solida, come nel caso delle morti improvvise. Ad oggi, siamo nel mezzo di una pandemia che ha causato innumerevoli decessi e molto spesso ciò che riesce ad alleviare il vuoto dell’isolamento ospedaliero e che ha fatto la differenza è la vicinanza mostrata dal personale medico. Come abbiamo visto, numerosi studi confermano che percorsi di DeEd giovino principalmente il personale sanitario, come per esempio quello infermieristico, riuscendo a diminuirne i livelli di ansia a seguito di percorsi educativi incentrati sulla morte (Lockard, 1989). Questo ci ha insegnato come dei percorsi di DeEd debbano trovare maggior spazio nell’iter formativo.
Si è già ampiamente argomentato come la propria consapevolezza sia la conditio sine qua non per poter essere veicolo di una buona DeEd nelle interazioni con il prossimo, sia egli un paziente o un familiare. La rilevanza di una sviluppata sensibilità a questi temi non può e non deve essere qualcosa a cui porre attenzione solo in situazioni di estrema sofferenza come quella che ci troviamo a vivere. Soprattutto, il sostegno emotivo e/o psicologico non deve essere affidato solo e soltanto al ménage familiare ma è necessario un sostegno reciproco grazie al quale sentirsi più forti nel confronto con la morte.
Conclusioni
L’intento del presente elaborato era quello di fornire al lettore una definizione quanto più esaustiva possibile della Death Education con il fine di creare uno spazio di riflessione sul tema della morte, alla luce, soprattutto, degli eventi più recenti. Consapevoli che un argomento di tale rilevanza offra svariati spunti, la scelta è stata quella di contestualizzare la morte, e le sue implicazioni, nel difficile panorama odierno, illustrando alcuni strumenti di intervento grazie ai quali è possibile ridurre tutte quelle paure ed ansie ad essa legate. Si è visto come la potenzialità insita nei percorsi di DeEd si ponga come uno strumento che, se diffuso ed incentivato a tutti i livelli, può fare la differenza, formando ed informando le persone, consentendo loro di acquisire una consapevolezza e una comprensione della morte e più in generale della mortalità, riducendo i livelli di ansia. In un momento storico controverso e complesso come quello attuale, che ci vede circondati ogni giorno da notizie di morte, numeri di decessi e avvertimenti circa i pericoli per la propria e l’altrui vita, appare necessario educarsi ed educare il più possibile alla morte. La salienza che il Covid-19 ha dato alla morte ci ha forse colti impreparati a fronteggiarla e ha sottolineato l’importanza di progettare interventi di sensibilizzazione alla morte. Se si riuscisse a svincolare tale argomento da tutte quelle rappresentazioni irrealistiche che spesso lo accompagnano si riuscirebbe ad avere certamente un confronto più realistico. Infatti, in una società che lascia così poco spazio alla reale comprensione della morte e del morire, la Death Education sembrerebbe essere un utile strumento non solo per gli operatori sanitari, ma bensì per tutti, a partire dall’infanzia. È soltanto attraverso un’adeguata formazione ed un dialogo il più possibile aperto rispetto alla morte e il morire che sarà possibile abbattere la congiura del silenzio.