La Death Education costituisce un percorso rivolto a tutte le età, dalla prima infanzia alla senilità, volto a dare informazioni realistiche sulla morte, liberandola dalle forme spettacolari con cui viene rappresentata dai media, trattando temi che valorizzano la vita.
La morte è diventata un tabù. […] La morte e il morire sono stati medicalizzati e professionalizzati. Appena qualcuno dà segni di morte imminente viene spedito in ospedale, il che significa che i riti di morte domestici non possono più essere eseguiti e che la gente non può più acquisire conoscenza diretta sulla morte e il morire […]. La morte è stata negata, si è diffuso il timore di dire alle persone che sarebbero morte. I medici, i parenti, gli amici e persino il morente non vogliono parlarne, la paura della morte è diventata endemica (Brown, 2009).
Se in passato la morte era tradizionalmente gestita in ambiente domestico e il supporto della comunità era parte integrante del processo di elaborazione, ora vi è una evidente incapacità a trattare tale argomento e la tendenza a occultare la morte per poter vivere serenamente (Testoni, 2015).
Da una parte si assiste ad una spettacolarizzazione mediatica della morte rendendola più rappresentabile e riconoscibile, dall’altra vi è una privatizzazione di essa: il fine-vita viene delegato alla medicina e gestito in contesti di cura appositi, allontanandolo dal luogo dei vivi (Brown, 2009).
Tale occultamento ha portato a conseguenze sociali e psicologiche quali la solitudine del morente e un terrore unanime verso l’ignoto.
Terror Management Theory
Questo grande rimosso collettivo può essere letto come un anxiety buffer per contrastare l’angoscia esistenziale.
Secondo la Terror Management Theory (Greenberg, Pyszczynski & Solomon, 1986), infatti, l’essere umano, predisposto biologicamente alla sopravvivenza, si differenzia dalle altre specie per la consapevolezza della propria finitudine, causa di uno stato di ansia opprimente.
Per lenire questa angoscia di morte la maggior parte degli individui si serve di difese distali, quali i miti, la religione e la filosofia, e prossimali, quali la costruzione di una identità sociale che dia senso e valore a noi stessi e all’esistenza in generale (Testoni, 2015).
In realtà, è emerso che meno chiaramente è compresa l’idea di morte maggiori sono la paura e lo stato d’ansia ad essa associati (Cotton & Range, 1990; Ollendick, 1983; Slaughter & Griffiths, 2007).
Risulta, dunque, necessario affrontare l’argomento fin dalla tenera età, normalizzarlo, tenendo presente sia dello stadio evolutivo di chi cerca risposte sia della elaborazione avvenuta da parte di chi si prende la responsabilità di rispondere a tali interrogativi.
Secondo il padre della tanatologia Feifel (1959), infatti, è possibile vivere un’esistenza consapevole e genuina solo incorporando in essa il concetto di morte, dunque un percorso educativo che si prefigga tale obiettivo è quantomeno auspicabile.
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, già a partire dagli anni Settanta, è prevista all’interno dei normali percorsi curricolari la Death Education, attività educativa finalizzata a rendere gli individui più consapevoli e competenti nella gestione della propria e altrui morte. La Death Education si configura, inoltre, come un intervento che coinvolge i tre livelli di prevenzione.
Death Education e prevenzione primaria
Nel caso in cui non sia presente un lutto in corso, un intervento di prevenzione primaria tramite Death Education costituisce un percorso rivolto a tutte le età, dalla prima infanzia alla senilità, volto a dare informazioni realistiche sulla morte, liberandola dalle forme spettacolari con cui viene rappresentata dai media, trattando temi che valorizzano la vita.
È, dunque, l’antico memento mori, si focalizza sulla comprensione della morte, sugli atteggiamenti e i modi di affrontare il tema della finitudine.
In età evolutiva sicuramente è fondamentale coinvolgere il contesto scolastico, luogo di formazione attiva volta a gestire difficoltà emozionali relative alla perdita.
Interessante è l’intervento proposto in una scuola dell’infanzia italiana che ha visto protagonisti bambini di 5 anni: grazie al coinvolgimento dei genitori, si è discusso coi più piccoli su cosa significhi morire, raccontando la vita di persone care defunte per mezzo di fotografie che li ritraevano ottenendo effetti positivi, senza alcun sentimento di terrore (Testoni, Abrami, Matanza & Marchetti, 2003; Testoni, Ancona & Ronconi, 2015).
Death Education e prevenzione secondaria
Un percorso di Death Education, nel caso di morte annunciata o prossima, può essere rivolto a caregiver formali e informali.
Nel primo caso si tratta di professionisti sanitari quali operatori, infermieri, psicologi e medici che si trovano in contatto costante con chi è destinato a morire e con i loro cari. Un intervento di educazione alla morte permette, in questo caso, di apprendere communication skills e abilità di gestione delle conseguenze psicologiche legate al fine-vita.
Per quanto riguarda i caregiver informali, ovvero i familiari, è fondamentale un percorso di empowerment affinché imparino a condurre le cure domiciliari e la relazione col caro, evitino il caregiver burden e affrontino adeguatamente il lutto anticipatorio.
Death Education e prevenzione terziaria
Nel caso di un lutto conclamato, un intervento di Death Education ha lo scopo di favorire la resilienza e il sostegno sociale, differenziandosi a seconda del momento e del tipo di perdita.
In età evolutiva è consigliato un sostegno individualizzato da parte di un adulto fidato capace di supportare con competenza il sofferente, comunicando in maniera accorta e onesta la morte e le sue modalità, normalizzando la vita quotidiana, permettendo il riconoscimento delle emozioni e la loro gestione. In parallelo, è opportuno proporre sedute di grief-counselling ai genitori in modo tale che acquisiscano le competenze necessarie per tornare a relazionarsi efficacemente con il figlio.
Infine, può risultare utile coinvolgere anche la rete di socializzazione secondaria, per esempio tramite un intervento psicoeducativo rivolto al gruppo-classe per incrementare le strategie di coping o nel contesto lavorativo tramite empowerment delle abilità di ascolto empatico da parte dei colleghi nei confronti del dolente, contrastando la tipica ‘congiura del silenzio’.