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Death Education

La Death Education costituisce un percorso rivolto a tutte le età, volto a dare informazioni realistiche sulla morte, trattando temi che valorizzano la vita

La Death Education, letteralmente “educazione alla morte”, ha come intento quello di scardinare tutte le difese che l’uomo ha nel tempo eretto contro la morte e che gli impediscono di giungere alla reale comprensione di quest’ultima.

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La Death Education costituisce un percorso rivolto a tutte le età, dalla prima infanzia alla senilità, volto a dare informazioni realistiche sulla morte, liberandola dalle forme spettacolari con cui viene rappresentata dai media, trattando temi che valorizzano la vita.

Se in passato la morte era tradizionalmente gestita in ambiente domestico e il supporto della comunità era parte integrante del processo di elaborazione, ora vi è una evidente incapacità a trattare tale argomento e la tendenza a occultare la morte per poter vivere serenamente (Testoni, 2015).

Da una parte si assiste ad una spettacolarizzazione mediatica della morte rendendola più rappresentabile e riconoscibile, dall’altra vi è una privatizzazione di essa: il fine-vita viene delegato alla medicina e gestito in contesti di cura appositi, allontanandolo dal luogo dei vivi (Brown, 2009).

Tale occultamento ha portato a conseguenze sociali e psicologiche quali la solitudine del morente e un terrore unanime verso l’ignoto.

Ansia per la morte

L’ansia per la morte, o death anxiety, è la paura rispetto all’anticipazione della morte, nonché della consapevolezza della morte e della non-esistenza, di cui la persona può essere cosciente o meno (Barrett, 2013). Quando particolarmente marcata, la death anxiety, può manifestarsi anche attraverso forte ansia e/o ricorrenti pensieri ossessivi. Secondo alcuni studi, la paura della morte ha il suo apice tra i 40-60 anni per poi diminuire in età più avanzata (Fortner & Neimeyer, 1999). Contrariamente, altri autori suggeriscono che essa sarebbe maggiore verso i 20 anni per poi presentarsi nuovamente verso i 50 anni ma soltanto nelle donne (Russac, Gatliff, Reece & Diahann, 2007).

Nonostante i diversi risultati presenti in letteratura, il pensiero della morte, e più generalmente della nostra e dell’altrui mortalità, è costantemente presente nella nostra vita già dall’infanzia (Nagy, 1948). Tale pensiero può essere più o meno costante ed essere riportato all’attenzione da eventi o situazioni della vita quotidiana, innescando stati emotivi spesso spiacevoli e poco approfonditi dall’individuo.

Come gestiamo la morte: la Terror Management Theory (TMT)

Come anticipato, oggigiorno il fine-vita viene delegato alla medicina e a contesti di cura appositi, allontanandolo dal luogo dei vivi (Brown, 2009). Ciò ha portato a conseguenze sociali e psicologiche quali la solitudine del morente e un terrore unanime verso l’ignoto.

Questo grande rimosso collettivo può essere letto come un anxiety buffer per contrastare l’angoscia esistenziale.

Secondo la Terror Management Theory (Greenberg, Pyszczynski & Solomon, 1986), infatti, l’essere umano, predisposto biologicamente alla sopravvivenza, si differenzia dalle altre specie per la consapevolezza della propria finitudine, causa di uno stato di ansia opprimente.

Per lenire questa angoscia di morte la maggior parte degli individui si serve di difese distali, quali i miti, la religione e la filosofia, e prossimali, quali la costruzione di una identità sociale che dia senso e valore a noi stessi e all’esistenza in generale (Testoni, 2015). Appare dunque quasi paradossale come si giunga così poco preparati a quella che forse è una delle poche condizioni a cui certamente andremo tutti incontro. Come se la morte fosse, sin dalla nascita, di default, qualcosa con cui ci si confronterà solo in un altro momento. Come se la paura suggerisse che è sempre troppo presto, senza accorgersi che il più delle volte è già troppo tardi.

In realtà, è emerso che meno chiaramente è compresa l’idea di morte, maggiori sono la paura e lo stato d’ansia ad essa associati (Cotton & Range, 1990; Ollendick, 1983; Slaughter & Griffiths, 2007).

L’importanza della Death Education

Secondo il padre della tanatologia Feifel (1959), infatti, è possibile vivere un’esistenza consapevole e genuina solo incorporando in essa il concetto di morte, dunque un percorso educativo che si prefigga tale obiettivo è quantomeno auspicabile.

La Death Education, letteralmente “educazione alla morte”, ha come intento quello di scardinare tutte le difese che l’uomo ha nel tempo eretto contro la morte e che gli impediscono di giungere alla reale comprensione di quest’ultima. La Death Education vede le sue origini nel mondo anglosassone a partire dal 1970 (in Gran Bretagna, già a partire da questi anni, e successivamente negli Stati Uniti, la Death Education è stata inserita all’interno dei normali percorsi curricolari, quale attività educativa finalizzata a rendere gli individui più consapevoli e competenti nella gestione della propria e altrui morte).

La Death Education si configura, inoltre, come un intervento che coinvolge i tre livelli di prevenzione: primaria (quando le problematiche inerenti alla morte non sono presenti o vicine nel tempo), secondaria (quando la morte è in prossimità) e terziaria (quando la perdita è già avvenuta). Appare rilevante sottolineare come l’intento di impartire un’educazione alla morte può essere meglio raggiunto se si interviene sin dalla tenera età, in quanto un intervento precoce può essere quello con maggiori probabilità di successo.

Death Education primaria

Un esempio di Death Education primaria consiste in un percorso educativo atto a fornire delle informazioni realistiche sulla morte, svincolando quest’ultima dalle spettacolarizzazioni offerte dai media.

Secondo la Death Education risulta necessario avvicinare gli individui fin dalla tenera età al concetto di finitudine, rendendoli partecipi ai rituali e spiegando loro l’accaduto, con un linguaggio idoneo all’età e con la giusta vicinanza fisica ed emotiva.

Inoltre, la Death Education ha l’obiettivo di fornire un alfabeto emotivo con cui poter dar voce ai propri vissuti rispetto al tema trattato (Testoni, 2015). Questa tipologia di iniziativa ha luogo spesso all’interno della scuola, visto che essa risulta essere la seconda agenzia educativa subito dopo la famiglia. Lo scopo è quello di coadiuvare i più piccoli ad elaborare eventuali vissuti spiacevoli correlati a perdite passate e per fare ciò è necessario, anzi indispensabile, che gli insegnanti per primi abbiano grande consapevolezza dei propri trascorsi (Edgar & Howard-Hamilton, 1994): dal momento che i bambini riescono a cogliere gli stati emotivi dell’adulto, è bene che chi si prende la responsabilità di orientare i più piccoli circa queste tematiche abbia adeguatamente elaborato i propri lutti e sia il grado di supportare chi ha di fronte. Il fine ultimo è quello di sviluppare resilienza, accompagnata da strategie di coping che, all’occorrenza, potranno fare la differenza, disincentivando così la probabilità di crescere fino a ritrovarsi adulti con una censura verso la morte e le sue implicazioni. Un buon livello di consapevolezza relativa alla perdita consente all’individuo di “non temere l’impossibile, imparando a gestire l’inevitabile” (Testoni, 2015).

Difficoltà e reticenza dell’adulto nell’affrontare il tema della morte ostacolano la comprensione nei più piccoli confondendoli e portando loro maggiori livelli di ansia. L’evidenza scientifica dimostra come tanto peggio è compreso il concetto di morte tanto più questo si associ ad un livello maggiore di paura; al contrario, più viene maturata un’idea completa di morte e meno essa sarà accompagnata da sentimenti di ansia (Slaughter, 2005; Slaughter & Griffiths, 2007).

Dall’analisi della letteratura in merito agli effetti della Death Education su ansia e paura della morte emergono numerose evidenze circa gli effetti positivi della prima sulla death anxiety e sulla più generale paura della morte.

Risulta quindi fondamentale affrontare la morte da più prospettive: biologica, culturale, religiosa, etica e non inculcare una sua rappresentazione univoca, come ad esempio quella religiosa. La percezione dell’adulto, di una propria o altrui (es. dei bambini) incompetenza nel dialogare di morte, non è mai una buona ragione per lasciare i bambini da soli perché niente potrà impedirgli di porsi delle domande sulla morte atteso che, come si è visto, i pensieri sulla morte iniziano a comparire molto presto, e lasciare che si rispondano da soli senza alcun tipo di sostegno potrebbe essere deleterio. Se i percorsi di Death Education primaria venissero introdotti nel curriculum formativo scolastico si aumenterebbero di certo le probabilità di ottenere delle generazioni più accoglienti e meno reticenti rispetto al tema.

Emerge, dunque, la necessità di affrontare l’argomento e affrontarlo fin dalla tenera età, normalizzarlo, tenendo presente sia dello stadio evolutivo di chi cerca risposte sia della elaborazione avvenuta da parte di chi si prende la responsabilità di rispondere a tali interrogativi.

Death Education e prevenzione secondaria

Un percorso di Death Education, nel caso di morte annunciata o prossima, può essere rivolto a caregiver formali e informali.

Nel primo caso si tratta di professionisti sanitari quali operatori, infermieri, psicologi e medici che si trovano in contatto costante con chi è destinato a morire e con i loro cari. Un intervento di educazione alla morte permette, in questo caso, di apprendere communication skills e abilità di gestione delle conseguenze psicologiche legate al fine-vita.

Per quanto riguarda i caregiver informali, ovvero i familiari, è fondamentale un percorso di empowerment affinché imparino a condurre le cure domiciliari e la relazione col caro, evitino il caregiver burden e affrontino adeguatamente il lutto anticipatorio.

Death Education e prevenzione terziaria

Nel caso di un lutto conclamato, un intervento di Death Education ha lo scopo di favorire la resilienza e il sostegno sociale, differenziandosi a seconda del momento e del tipo di perdita.

In età evolutiva è consigliato un sostegno individualizzato da parte di un adulto fidato capace di supportare con competenza il sofferente, comunicando in maniera accorta e onesta la morte e le sue modalità, normalizzando la vita quotidiana, permettendo il riconoscimento delle emozioni e la loro gestione. In parallelo, è opportuno proporre sedute di grief-counselling ai genitori in modo tale che acquisiscano le competenze necessarie per tornare a relazionarsi efficacemente con il figlio.

Infine, può risultare utile coinvolgere anche la rete di socializzazione secondaria, per esempio tramite un intervento psicoeducativo rivolto al gruppo-classe per incrementare le strategie di coping o nel contesto lavorativo tramite empowerment delle abilità di ascolto empatico da parte dei colleghi nei confronti del dolente, contrastando la tipica ‘congiura del silenzio’.

Un ostacolo alla death education: la congiura del silenzio attorno alla morte ed al morire

Venir meno a questa responsabilità nei confronti dei più piccoli significa perpetuare la cultura della cosiddetta “congiura del silenzio” – definita quasi come una patologia relazionale – attorno a questo tema, non rinforzando ma anzi mettendo più a rischio le impalcature emotive a fronte di una perdita, in quanto il soggetto non si troverà equipaggiato per affrontare la tempesta emotiva (Testoni, 2015). Questo atteggiamento è incentivato dalla cultura che negli ultimi decenni è andata sempre più perdendo quella dimensione collettiva della morte, vissuta sempre più in solitudine. Infatti, fino a qualche decennio fa il processo di elaborazione di una perdita veniva affiancato da un sostegno comunitario testimoniato da una fitta rete di supporto e da consuetudini ben radicate e tramandate nel tempo. Ad oggi, il confronto che spesso si tramuta in uno scontro con la morte è sempre più relegato alle mura domestiche. Se, come precedentemente argomentato, il singolo spesso risulta sprovvisto di un equipaggiamento emotivo per far fronte ad una perdita, appare evidente quanto il ritorno alla condivisione e all’incontro con l’altro risulti necessario. E’ noto come i riti funebri, ad esempio, aiutino l’elaborazione della perdita, consentendo di porgere l’ultimo saluto con modalità e tempi che favoriscano il distacco dalla persona defunta.

Una buona Death Education svolge un ruolo cruciale anche per tutte quelle figure mediche e/o professionali che si interfacciano quotidianamente con la morte e che hanno un’influenza anche sul paziente e le sue figure di riferimento. I percorsi formativi di tali figure includono una preparazione procedurale che troppo spesso non è affiancata da un sostegno psicologico che li supporti nel loro dialogo quotidiano con la morte. Sono troppi i casi in cui una buona capacità comunicativa del personale sanitario potrebbe fare la differenza ed invece il dialogo è spesso ostacolato quando è necessario affrontare temi così delicati.

Conclusioni

La Death Education si pone come uno strumento che, se diffuso ed incentivato a tutti i livelli, può fare la differenza, formando e informando le persone, consentendo loro di acquisire una consapevolezza e una comprensione della morte e più in generale della mortalità, riducendo i livelli di ansia.

In una società che lascia così poco spazio alla reale comprensione della morte e del morire, la Death Education sembrerebbe essere un utile strumento non solo per gli operatori sanitari, ma bensì per tutti, a partire dall’infanzia. È soltanto attraverso un’adeguata formazione ed un dialogo il più possibile aperto rispetto alla morte e il morire che sarà possibile abbattere la congiura del silenzio.

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