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Covid-19 e gravidanza: come lo stress prenatale legato alla pandemia influenza lo sviluppo comportamentale dei neonati – Intervista al Dott. Livio Provenzi

Lo stress in la gravidanza può influenzare lo sviluppo del bambino, qual è stato quindi l'impatto del periodo pandemico? - Intervista al Dr. Livio Provenzi

Di Gaia De Giuli, Giuliana Capolongo, Gloria Angelini

Pubblicato il 03 Mar. 2022

Aggiornato il 13 Mag. 2022 15:07

Gli esperti del CIPee (Cliniche Italiane di Psicoterapia – Età Evolutiva) intervistano per State of Mind il Dott. Livio Provenzi per approfondire gli aspetti relativi allo stress da pandemia durante la gravidanza.

 

Per comprendere gli effetti della pandemia sulle madri in gravidanza e sui neonati, abbiamo intervistato il Dott. Livio Provenzi, coordinatore del progetto ConfiNATI (MOM-COPE), in modo da capire come i fattori dello stress legati al Covid-19 possano avere un’influenza sul temperamento dei neonati.

Diversi studi hanno dimostrato come lo stress materno durante la gravidanza possa influenzare lo sviluppo comportamentale, affettivo e socio-cognitivo del bambino (Buitelaar et al., 2003; Graignic-Philippe et al., 2014; Hartman et al., 2018). La pandemia da Covid-19 ha rappresentato un evento traumatico collettivo che potrebbe avere effetti duraturi in individui fragili o in periodi sensibili, come la gravidanza (Provenzi et al., 2021b). Perciò, il progetto ConfiNATI (Measuring the Outcomes of Maternal COVID—related Prenatal Exposure, MOM-COPE) si è posto l’obiettivo di comprendere in che modo lo stress prenatale dovuto alla pandemia possa influenzare lo sviluppo temperamentale del neonato. È stato osservato che lo stress prenatale vissuto dalle madri può essere trasmesso al neonato attraverso meccanismi epigenetici, come la metilazione del DNA (Provenzi et al., 2021b). Infatti, i fattori ambientali a cui siamo esposti hanno un’influenza sulla capacità del nostro DNA di attivare o modulare la disponibilità di specifiche proteine o neurotrasmettitori (Provenzi et al., 2021b). I risultati ottenuti dal progetto ConfiNATI suggeriscono che i figli, le cui madri hanno sperimentato un maggiore stress prenatale legato al Covid-19, presentano livelli più elevati di metilazione in corrispondenza di uno specifico gene (SLC6A4) deputato alla regolazione della serotonina e disregolazione emotiva e attentiva a tre mesi (Provenzi et al., 2021b).

Per avere maggiori approfondimenti, abbiamo intervistato il coordinatore del progetto ConfiNATI, il Dott. Livio Provenzi.

State of Mind (SoM): Quali sono state le principali difficoltà riscontrate nel condurre uno studio sperimentale in piena pandemia da Covid-19?

Dottor Livio Provenzi: Condurre un progetto di ricerca in una condizione emergenziale senza precedenti ha certamente presentato numerose sfide, alcune del tutto inedite. Per prima cosa, bisogna considerare che il progetto MOM-COPE è partito durante la prima fase di lockdown, tra marzo e maggio 2020, un periodo in cui era possibile comunicare tra ricercatori solo online e viaggiare non era possibile. Oggi sembra scontato, perché come esseri umani ci adattiamo abbastanza velocemente ad utilizzare nuove strumentazioni per comunicare via web, ma solo ad inizio 2020 l’uso di piattaforme di videoconferenza era limitato ai contatti con colleghi stranieri. Per di più, il progetto confiNATI è uno studio multi-centrico; coinvolge infatti dieci neonatologie del Nord Italia – da Pavia a Monza, dal Buzzi (Milano) a Brescia, da Lodi a Piacenza. Molte delle persone coinvolte non si erano mai incontrate prima. Ancora oggi, in qualità di coordinatore del progetto, ho potuto incontrare di persona solo pochi collaboratori in occasione di convegni o conferenze. Ancora: il progetto confiNATI prevede la raccolta di materiale biologico – saliva – alla nascita da mamma e neonato. Questo materiale ci è utile per poter misurare lo stato di metilazione di specifici geni coinvolti nella risposta allo stress e che – durante un periodo di elevata plasticità come la gravidanza – possono incorrere in modificazioni del loro funzionamento attraverso processi di tipo epigenetico. Anche questo aspetto è stato una sfida, perché abbiamo dovuto scambiare competenze e indicazioni pratiche solo online e senza la possibilità di uno scambio diretto e più immediato. Nonostante questo, il coinvolgimento e l’entusiasmo di tutte le persone che hanno preso parte al progetto, dai genitori ai colleghi delle neonatologie, dagli studenti ai servizi di coordinamento della ricerca offerti dall’IRCCS Fondazione Mondino di Pavia, hanno contribuito al successo del progetto. Basti pensare che ogni neonatologia ha reclutato circa 50 diadi madre-bambino; quando abbiamo iniziato potevamo solo sperare in un risultato del genere. Inoltre, dover affrontare queste sfide ci ha obbligato ad esplicitare ancora di più le scelte, le procedure, le azioni che di solito possono essere date per scontate in un progetto di ricerca: dover comunicare solo a distanza ci ha portato a produrre molti documenti e vademecum che hanno reso le procedure ancora più rigorose e riproducibili. Insomma, abbiamo trasformato una sfida in un’opportunità di crescita.

SoM: Gli aspetti che destavano maggiori preoccupazioni nel campione di madri da voi selezionato erano circoscritti al momento presente (es. dover partorire da sole senza il supporto del partner in ospedale / ammalarsi di Covid-19 durante la gravidanza), oppure sono emerse anche preoccupazioni più generalizzate rivolte all’incertezza del futuro in un mondo post-pandemico?

L. Provenzi: Il progetto ha evidenziato elementi di rischio e preoccupazione che riguardano sia il breve che il lungo termine. Per prima cosa è importante sottolineare che nel nostro campione di più di 350 diadi madre-bambino non erano presenti situazioni di positività al virus. In questo senso, i nostri dati ci aiutano a capire come uno stress di tipo psicosociale – non strettamente il contagio da Covid-19 – possa esercitare effetti sul benessere materno e sullo sviluppo del bambino. Da questo punto di vista, le preoccupazioni che le donne riportavano durante la gravidanza riguardavano il rischio di contagio per se stesse, ma anche per i loro compagni e per il feto; così come le difficoltà nel gestire vita privata e lavorativa durante la fase di lockdown, la paura di perdere il lavoro, le preoccupazioni per vivere in zone ad alta densità di diffusione del virus, vivere l’ospedalizzazione o la morte di un amico o di un familiare. Avendo avviato il progetto in un periodo di grande emergenza, ad inizio pandemia, il nostro focus è stato su fattori di stress immediati e circoscritti – non abbiamo messo a fuoco eventuali preoccupazioni per il futuro; all’epoca, l’idea di futuro si era accartocciata molto. Tuttavia, lo stress vissuto in gravidanza era associato a più alti livelli di depressione e ansia nelle madri dopo il parto e a maggiori difficoltà nel vivere il ruolo genitoriale (Grumi et al., 2021). Questi effetti immediati sulla salute psicologica materna e sulla qualità dell’ambiente di cura precoce erano inoltre riflessi nel profilo comportamentale del bambino a tre mesi. I bambini di madri che avevano vissuto in modo più stressante la gravidanza durante il periodo emergenziale della pandemia mostravano difficoltà nella regolazione delle emozioni e dell’attenzione a tre mesi (Provenzi et al., 2021a) . È importante sottolineare che si tratta di alterazioni in un ambito di normalità: in altre parole, quello che abbiamo osservato è una maggiore presenza di differenze individuali, ma non di tratti francamente patologici. Certamente, è importante sviluppare consapevolezza circa la presenza di una maggiore ampiezza nella variabilità individuale delle competenze di regolazione dei bambini nati durante la pandemia per aiutare genitori e insegnanti a riconoscere i loro bisogni e a prendersi cura di loro al meglio. Infine, il progetto ci sta aiutando a comprendere come i processi epigenetici che regolano il funzionamento del DNA possano essere un meccanismo – un ponte psicobiologico – che lega stress materno e sviluppo successivo del bambino. Infatti, i bambini di madri che presentavano maggiore stress prenatale mostravano un’elevazione nello stato di metilazione del gene che produce il trasportatore di serotonina – un neurotrasmettitore chiave per la regolazione comportamentale, attentiva ed emozionale (Provenzi et al., 2021b). Più concretamente, questo gene era meno attivo nei bambini di mamme che riportavano maggiore stress durante la gravidanza, il che contribuiva ad aumentare le differenze nel modo in cui questi bambini regolavano le emozioni e l’attenzione durante i primi mesi di vita. In altre parole, lo stress prenatale legato alla pandemia può aver lasciato delle tracce nel DNA dei bambini nati durante l’emergenza sanitaria. Oggi non sappiamo se queste tracce siano un bene o un male. Certamente, ci dicono che il nostro corpo non è indifferente alla qualità delle nostre esperienze, anche a quelle più precoci. Il nostro corpo non smette mai di imparare e possiamo trovare le tracce di questo apprendimento nell’epigenetica. La domanda da farci è: cosa se ne faranno i bambini (e i loro genitori) di questi apprendimenti biologici? Come possiamo aiutare i piccoli, le loro famiglie e gli insegnanti a costruire percorsi di accudimento, crescita e cura che conducano da questi apprendimenti a traiettorie evolutive di benessere? Questa è la sfida più importante di cui dovremmo occuparci, anche sulla scorta di ciò che abbiamo imparato durante la pandemia.

SoM: Sono ipotizzabili differenze rispetto allo stress percepito dalle madri durante la prima ondata della pandemia mediate da fattori di natura socioeconomica (es. avere perso o meno il posto di lavoro, vivere in una casa con giardino rispetto ad un appartamento in città, etc)?

L. Provenzi: Nel nostro progetto abbiamo reclutato le diadi madre-bambino tra marzo 2020 e febbraio 2021. I dati a nostra disposizione possono quindi aiutarci a fare luce sull’impatto dello stress pandemia-relato in diverse fasi dell’emergenza sanitaria o in diversi momenti della gravidanza. Al momento stiamo ancora analizzando i dati e la risposta a questa domanda può essere solo parziale. Quello che è interessante sottolineare è che all’interno di questa storia di emergenza e paura, emergono anche dati confortanti. Infatti, nel sottogruppo di donne che hanno vissuto il secondo e il terzo trimestre di gravidanza durante la pandemia – cioè le donne reclutate tra la primavera e l’estate del 2021 – il rischio di sviluppare sintomatologia psicologica e di vivere con difficoltà la transizione alla genitorialità era significativamente ridotto nel caso in cui le donne avessero ricevuto visite domiciliari dopo il parto. Infatti, in questo sottogruppo di 177 donne – studio al momento in revisione e non pubblicato – anche una sola visita domiciliare da parte di professionisti della perinatalità era in grado di ridurre il senso di preoccupazione e paura e proteggere le donne da elevazioni nella sintomatologia affettiva. Questi dati preliminari ci confortano e ci ricordano che siamo nati per essere in connessione; anche in un periodo di emergenza senza precedenti, è proprio la nostra capacità di investire nel contatto umano e nella riparazione degli strappi che può consentirci di essere più resilienti e capaci di crescere dentro le difficoltà.

SoM: È possibile ipotizzare percorsi, ad esempio di parent training, rivolti ai caregiver dei soggetti che al follow-up di tre mesi si presentano come più inclini a significative alterazioni temperamentali, volti a prevenire nello specifico l’acuirsi di stati psicopatologici nel bambino più avanti nello sviluppo?

L. Provenzi: Questo è un punto cruciale. Come ho detto sopra, i risultati di questo progetto ci stanno dicendo che lo stress prenatale può risultare in una maggiore differenza individuale nel modo in cui i bambini regolano comportamenti, emozioni e attenzione. Comprendere come la pandemia potrebbe aver lasciato tracce o cicatrici nel benessere genitoriale e nello sviluppo infantile è un obiettivo prioritario, perché ci aiuterà a capire come avviare interventi di prevenzione e cura efficaci e tempestivi. Queste differenze non sono patologiche; ma possono condurre a esiti maladattivi in età successive se chi si prende cura dei piccoli non ne comprende i segnali e i bisogni. Per questo la parola chiave è prevenzione. La speranza mia e del gruppo di ricerca dietro al progetto ConfiNATI è proprio quella che questi dati possano aiutarci a investire maggiormente in interventi di prevenzione e cura a favore della salute materno-infantile (e paterno-infantile) in modo più sistematico e organico. Se dovessi dire in poche parole cosa questo studio ci insegna è che siamo fragili. E la fragilità chiede ascolto e cura. Pertanto, sono convinto che anche con il supporto di questi dati, dovremmo investire energie e risorse lungo tre importanti direzioni. Per prima cosa, sviluppare una cultura della genitorialità come luogo di apprendimento e crescita importantissimo, come primo fattore di prevenzione, tra i professionisti che a diverso titolo si occupano di primo sviluppo, dai sanitari agli educatori e agli insegnanti. La seconda direzione riguarda la messa a punto di percorsi di supporto alla genitorialità e al primo sviluppo fondati sulle evidenze e che non lascino sole le famiglie dalla gravidanza almeno fino ai primi tre anni. Infine, occorre che a livello di politiche socio-sanitarie venga garantito un accesso equo a queste risorse, facendole diventare sempre più parte integrante dei servizi minimi offerti a mamme, papà e bambini.

SoM: In questo caso, il campione sperimentale è composto da soggetti provenienti dal Nord Italia, saranno disponibili dati che riguardino anche Sud e Centro Italia volti ad offrire una panoramica più generale dell’andamento del fenomeno nel nostro Paese?

L. Provenzi: Al momento, il progetto non prevede ulteriori raccolte dati. Tuttavia, il progetto ConfiNATI fa ora parte della rete internazionale COVGEN: un consorzio di clinici e ricercatori da ogni parte del mondo – dall’Italia agli Stati Uniti, dall’Australia all’Etiopia, dalla Giordania al Brasile – che vogliono comprendere come la pandemia ha influenzato il benessere di bambini e genitori e i rischi a medio e lungo termine di questa situazione emergenziale. Inoltre, stiamo conducendo uno studio in collaborazione con AUSL Toscana Nord Ovest (progetto SPACE-NET) in cui vogliamo comprendere come la pandemia può aver influenzato in modo particolare genitori di bambini nati pretermine. Per queste mamme e papà, il lockdown ha implicato una separazione drammatica dal proprio piccolo, mentre questo era ricoverato per settimane o mesi in terapia intensiva neonatale. Anche con questo progetto vogliamo contribuire a sviluppare una cultura della genitorialità che consideri madri e padri come parte integrante di ogni intervento di prevenzione e cura rivolto a bambini a rischio evolutivo.

 


Intervista realizzata dagli esperti di CIPee – Cliniche Italiane di Psicoterapia Età Evolutiva

 

 

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