Sta attualmente aumentando l’attenzione rivolta al manifestarsi di disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva.
Essi sono spesso causa di istituzionalizzazione, accrescono il deficit cognitivo ed abbassano la qualità di vita dei pazienti e dei caregivers.
In letteratura sono prevalenti gli studi che indagano i disturbi comportamentali nella demenza (BPSD). Sono però vari i quadri clinici, dell’età evolutiva e dell’età adulta, caratterizzati dall’esistenza di deficit cognitivo, in cui si presentano anche disturbi del comportamento (Croce L. 2019).
La disabilità intellettiva presenta, dal punto di vista sintomatologico, la compromissione di alcune funzioni cerebrali superiori quali l’attenzione, la memoria, l’apprendimento, le funzioni visuo-spaziali e prassiche ed il linguaggio (Greenspan S. 1999).
Il comportamento è il modo in cui un individuo agisce e reagisce quando si trova in relazione con gli altri e con l’ambiente ed è una manifestazione di uno stato psicologico. I disturbi del comportamento sono delle disfunzioni e sono caratterizzati dalla difficoltà di gestire le emozioni, dalla comparsa di rabbia, aggressività e oppositività, dalla trasgressione delle regole sociali e morali e dalla necessità impellente di soddisfare i propri bisogni (Finkel SI, Burns A. 2000; Fujii M., BluterJP., Sakasi H 2014).
Le origini dei disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva
La patogenesi di questi disturbi è complessa e, secondo la teoria biopsicosociale (Engel G., 1977), la loro origine è da ricercare nell’interconnessione di vari fattori: biologici, ambientali e psicosociali. Tra i fattori biologici hanno rilevanza le anomalie della corteccia prefrontale, l’alterazione dell’equilibrio dei neurotrasmettitori, la bassa concentrazione del cortisolo e l’elevata concentrazione del testosterone (Blundo, C. 2016). Si annoverano tra i fattori ambientali i trasferimenti e le istituzionalizzazioni. Infine hanno rilevanza, dal punto di vista psicosociale, la personalità premorbosa del soggetto e lo stress sia del paziente che del caregiver. ( Engel, G. L. 1980)
Si sta affermando sempre di più la convinzione che la presenza di disturbi del comportamento, in soggetti con deficit cognitivo, sia da interpretare come una modalità che i pazienti, con difficoltà intellettive e sensoriali, hanno per manifestare uno stato di disagio. Esistono evidenze che imputano la comparsa di problematiche comportamentali a situazioni in cui il paziente prova dolore fisico oppure disagio emotivo e sociale o prova noia per mancanza di un’adeguata attività (Bianchetti A. 2010). I comportamenti problematici nel deficit cognitivo possono essere considerati come una difformità tra i bisogni del paziente e la competenza dell’ambiente nel soddisfarli (Vitali S., Guaita A. 2000).
Secondo la teoria dell’impotenza appresa, la comparsa ed il perdurare di tali disturbi è da ricondurre al vissuto d’incapacità che il malato ha rispetto al saper affrontare determinate situazioni problematiche o di disagio. Non sentendosi capace, l’unica cosa che riesce a fare è continuare a mettere in atto un comportamento disfunzionale (Seligman ME. 2005).
Gli interventi per i disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva
La maggior parte delle linee guida sugli interventi in caso di disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva, indicano l’approccio non farmacologico come quello da prediligere (Savaskan E., Bopp -Kistler I., Buerge M. 2014). In caso di necessità di trattamento farmacologico questo deve essere abbinato alle strategie non farmacologiche. Queste indicazioni sono supportate, oltre che dalle evidenze, dall’esperienza clinica (Alteya 2021).
Attraverso gli interventi le cui tecniche sono, nella maggioranza dei casi, mutuate dalla psicologia cognitivo comportamentista, si ha come obiettivo quello di una riduzione della comparsa dei comportamenti disfunzionali. Quest’obiettivo può essere raggiunto attraverso la valorizzazione dei punti di forza del paziente ed il potenziamento delle capacità di adattamento sociale (Veltro F.,Chiarullo R., Leanza V. et AL. 2013).
Queste tecniche, in base a quanto emerge dalla letteratura, sono da preferire alle sanzioni punitive che hanno l’intento di reprimere il comportamento problematico. Queste ultime insegnano modelli di comportamento aggressivo, deteriorano la relazione d’aiuto e provocano disagio e disturbi emotivi ( Kirk DS., Wakefield S. 2018).
Secondo Skinner “la punizione non elimina la risposta, ne abbassa la frequenza di emissione per un periodo di tempo circoscritto. Successivamente la risposta viene emessa con frequenza equivalente a quella che caratterizza la risposta non punita”