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Uno, nessuno, centomila: i molteplici volti delle emozioni umane nelle differenti culture

Un curioso excursus sui termini più particolari attribuiti a specifiche sensazioni e pensieri correlati alle emozioni nelle diverse tradizioni del mondo

Di Eliana Berra

Pubblicato il 15 Ott. 2021

L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Le emozioni sono fenomeni complessi e affascinanti, frutto di un processo multifattoriale, innescato da una molteplicità di eventi, correlato ai più svariati pensieri e credenze, associato a sensazioni e sintomi fisici e scatenante innumerevoli reazioni e comportamenti. Nonostante da decenni siano oggetto di attenzione e di studi volti a chiarirne le caratteristiche e categorizzarle, spesso continuano a sorprenderci per la varietà delle loro apparentemente indefinibili sfumature. Nel corso delle epoche storiche, tutti i popoli hanno cercato di avvicinarsi ad esse e dare loro un nome, talora cogliendone particolari per noi tanto illuminanti quanto inaspettati.

Nell’Atlante delle Emozioni Umane, viene effettuato un curioso excursus sui termini più particolari attribuiti a specifiche sensazioni e pensieri correlati alle emozioni nelle diverse tradizioni del mondo. L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato. Mappando le differenze affettive tra i popoli, questa singolare panoramica ci porta inevitabilmente a comprendere come il caleidoscopio lessicale paradossalmente rispecchi l’universalità di ciò che tutti gli esseri umani sono in grado di provare. Scoprendo vocaboli che ci appariranno strani o impronunciabili, ci scopriremo incredibilmente vicini a coloro che li hanno coniati per la prima volta, seppur a secoli o a migliaia di chilometri di distanza da noi.

Abhiman

Il termine Abhiman viene citato per la prima volta nei Veda ed è noto ancora oggi in tutto il subcontinente indiano. Composti in sanscrito intorno al XVI secolo a.C., i Veda sono tra i più antichi testi sacri e costituiscono la base spirituale dell’Induismo. Il significato letterale di abhiman è “orgoglio di sé”, “dignità”. Ma un indizio sul suo significato più profondo sta in un’altra parola del sanscrito, di cui abhiman conserva qualche eco: balam (forza). L’abhiman, intraducibile con un unico sinonimo, evoca il dolore e la rabbia causati dal torto subito da parte di una persona che amiamo, o da cui ci aspettiamo di venire trattati con gentilezza. Alla sua origine c’è la tristezza, che presto si trasforma in un impeto di orgoglio, di offesa e talora di moto vendicativo. Spesso viene tradotta con “dignità ferita” e in India rappresenta una reazione accettabile, persino attesa, e ostinata. A livello sociale, la consapevolezza dell’abhiman come reazione inevitabile implica che la rottura dei taciti patti di amore e rispetto tra le famiglie e gli alleati rappresenti un tradimento della massima serietà.

Amae

Negli anni settanta, gli antropologi occidentali si dedicarono con grande entusiasmo a studiare l’amae, termine coniato in Giappone: per loro era la prova che anche le nostre emozioni più intime sono influenzate dalle strutture politiche ed economiche delle società in cui viviamo.

In Giappone, l’amae indica una resa temporanea in totale sicurezza, come l’impulso ad abbracciare una persona cara per essere coccolati e rassicurati o come l’affidarsi a qualcuno che ci possa aiutare incondizionatamente. L’amae è generalmente riconosciuta come parte di ogni relazione umana. La si prova non soltanto tra membri della stessa famiglia, ma anche tra amici e colleghi di lavoro, e rappresenta un ritorno ai piaceri e all’accudimento incondizionato dell’infanzia. È il collante che permette alle relazioni stabili di prosperare, il simbolo della fiducia più profonda.

Gli antropologi sostengono che l’amae si sia sviluppata nella cultura tradizionalmente collettivista del Giappone e sia sintomatica della maniera in cui la società giapponese continua a celebrare la dipendenza da un gruppo rispetto all’individualismo.

Compersione

La comune Kerista, fondata nell’Haight-Ashbury di San Francisco nel 1971, si proponeva di ribaltare molti dei capisaldi della tradizione americana circa la famiglia, la proprietà e la monogamia. Quest’ultimo fu l’aspetto che le diede maggiore fama, poiché i membri della comune Kerista praticavano il poliamore e venivano incoraggiati ad avere più di un partner sessuale alla volta. Alcune di queste relazioni avevano vita breve, altre più lunga, ma nessuna prevedeva l’esclusività. Per spiegare come la gelosia per loro non fosse un problema, i keristani coniarono il termine “compersione”. Variante di “compassione”, la compersione indicava l’eccitazione indiretta provata nello scoprire che una persona amata era attratta da qualcun altro.

Il termine “compersione”, che fa da antagonista a gelosia, viene ancora utilizzato sia negli Stati Uniti che in Europa e non ha sinonimi, ad eccezione che in Inghilterra, dove, per indicare la stessa sensazione, si usa il termine “The Frubbl”.

Gezelligheid

Non a sorpresa, molte delle lingue nordeuropee hanno coniato una parola specifica per esprimere la sensazione dell’appagamento legato alla comodità e all’accoglienza. L’inglese “cozy” (accogliente) viene dal gaelico “còsag”, letteralmente un piccolo buco in cui ci si può rifugiare. E tutti, quando inizia l’inverno e fuori piove o nevica, ci troviamo a desiderare quello che i danesi chiamano “gezelligheid”. Gezelligheid denota sia una situazione fisica – come lo starsene al caldo in un posto confortevole, circondati da buoni amici (non si può provare gezelligheid da soli) – sia lo stato emotivo del sentirsi “abbracciati” e confortati da qualcuno. Sulla stessa linea ci sono il danese “hygge” (vicinanza), il tedesco “gemütlichkeit”, che indica una sensazione legata alla cordialità e alla compagnia, e il finlandese “kodikas” (accogliente). Al contrario, nelle lingue del caldo Mediterraneo, sarà molto difficile trovare vocaboli caratterizzati da una simile combinazione di vicinanza fisica, calore e conforto.

Fago

Negli anni ‘80, vivendo a contatto con la popolazione di Ifaluk, un atollo corallino delle Isole Caroline del Pacifico, l’antropologa Catherine Lutz rimase colpita dalla definizione di una sensazione che lei per istinto riconosceva ma per cui non esisteva un termine equivalente in inglese, né in altre lingue.Il fago è un singolare termine emozionale che unisce la compassione, la tristezza e l’amore. È la pietà provata per le persone in difficoltà, che ci spinge a occuparci di loro, ma che è anche pervasa dalla forte sensazione di precarietà, fragilità, correlata alla consapevolezza che un giorno potremmo perderle. Il fago spesso è una sensazione improvvisa, intensa, che sfocia nella commozione. Secondo Lutz, era significativo come tale termine fosse stato coniato proprio da una popolazione famosa per la propria non belligeranza. «La parola fago», scriveva Lutz, «viene pronunciata quando si prende atto che il dolore è ovunque e, con uno spirito vigorosamente ottimista, si crede che lo sforzo umano, specie quando si tratta di occuparsi degli altri, possa limitare i danni di quel dolore emotivo”.

Glee

Quando i vichinghi arrivarono in Inghilterra portando con sé il loro linguaggio, “glý”, o “glíw”, o “glew” significavano sia “passatempo” che “presa in giro”. Glew era anche il testo di una canzone cantata a squarciagola da ubriachi, e chamber-glew era il modo più breve per indicare un comportamento osceno. L’essere guidati da golde e glie era frequente fonte di disprezzo, poiché significava vivere in cerca di denaro e piaceri dissoluti. Nel corso del Seicento, glee perse buona parte della sua connotazione negativa quando il termine venne utilizzato dai maestri di coro per descrivere un tipo di canto polifonico non accompagnato da strumenti, una versione più austera di quello poi adottato dai glee clubs dei licei americani. Ad oggi, la parola conserva sfumature poco raccomandabili: indica, infatti, la sensazione di gioia e piacere nel festeggiare la propria fortuna a scapito di qualcun altro. Non a caso, dopo il “datagate” del 2013, il capo dei servizi segreti inglesi aveva immaginato i terroristi di Al-Qaida intenti a «rubbing their hands with glee»-“sfregarsi le mani per la felicità”.

Going postal

Gli Stati Uniti degli anni ’80 videro susseguirsi numerose sparatorie di massa, i cui autori erano impiegati postali scontenti del proprio lavoro. Da qui, l’espressione “going postal” cominciò a essere utilizzata per indicare un attacco di rabbia e violenza avvenuto sul posto di lavoro, e poi, più in generale, come sinonimo di “andare su tutte le furie”.

Hiraeth

La parola gallese “hiraeth” rivela un profondo legame con il proprio paese natale, esprimendo la tristezza nostalgica, venata di apprensione, di chi vorrebbe rimanere nella propria terra ma sa di doverla lasciare. Probabilmente la lunga occupazione da parte degli inglesi può spiegare perché gli abitanti del Galles abbiano tanta familiarità con la combinazione tra l’amore per la patria e la percezione della sua vulnerabilità – un’emozione che gioca un ruolo chiave nella retorica della “gallesità”. Oggi il termine hiraeth è associato soprattutto alla sensazione di precarietà provata dagli emigrati, così come da coloro che temporaneamente ritornano a casa, sapendo che presto arriverà il momento di ripartire.

Hwyl

In inglese, Hwyl è il termine con cui si indica la vela di una barca. È una parola gallese, onomatopeica,  che evoca uno stato di esuberanza o eccitazione, come se si venisse spinti da una folata di vento. La si usa per descrivere un lampo di ispirazione, un impeto di entusiasmo o di buonumore. Ma, paradossalmente, Hwylè anche la parola dell’addio:  “Hwyl fawr”–“Vai con il vento in poppa”.

Matutolypea

Il solenne vocabolo Matutolypea (si pronuncia matutolipia) deriva da una combinazione tra “Mater Matuta”, la dea dell’alba per gli antichi romani, e “lype”, il termine greco per “avvilimento”. Indica, infatti, la sensazione provata al suonare della sveglia quando, prendendo consapevolezza del nuovo giorno che sta per iniziare, ci si sente sopraffatti da tristezza, ansia, malumore. Si potrebbe tradurre, con una certa solennità, in “tristezza mattutina”.

Mudita

Per Siddhārtha Gautama, meglio noto come il Buddha, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., la gioia non era una risorsa limitata su cui litigare o a cui avevano diritto soltanto pochi fortunati, ma era infinita, illimitata. Per Siddhārtha, la parola “mudita” esprimeva la piena esperienza di felicità, priva di invidia o risentimento, provata dinanzi alla gioia o alle fortune altrui. Secondo lui, il puro fatto di poter provare mudita era la prova che la felicità degli altri non diminuisce la propria, ma la aumenta.

Nakhes

L’eccesso di orgoglio genitoriale è un tipico luogo comune dell’umorismo ebraico. E in yiddish esiste una parola speciale per l’emozione di felicità e soddisfazione dei genitori di fronte ai piccoli traguardi dei loro figli: nakhes (si pronuncia nà-khez, con il kh aspirato).

Nginyiwarrarringu

Quando un’emozione diventa predominante ed essenziale per la sopravvivenza di un popolo o la sua conoscenza del mondo, è possibile che di essa vengano coniati numerosi termini volti a coglierne le più fini peculiarità. Per i pintupi, abitanti dei deserti dell’Australia occidentale, esistono quindici diversi tipi di paura. “Ngulu” è il timore di essere oggetto di una vendetta; “kamarrarringu” è la tensione provata nell’accorgersi che qualcuno si sta lentamente avvicinando alle nostre spalle; “kanarunvtju” è il terrore del possibile arrivo di spiriti maligni nella notte, tanto potente da provocare insonnia; “nginyiwarrarringu” è l’improvvisa e potente sensazione di allarme che ci fa balzare in piedi e guardarci attorno, cercando di capire cosa l’ha provocato.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Watt Smith Tiffany, “Atlante delle Emozioni Umane”. UTET, 2017.
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