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Il “genitore nascosto” nei bambini adottati

Un'analisi psicoanalitica di come il genitore nascosto si pone come primario elemento ostativo all'elaborazione del lutto abbandonico nel bambino adottato

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 03 Set. 2021

Jolowicz (1946, cit. in Bowlby, 1963) ha coniato il termine “genitore nascosto” in riferimento all’influenza esercitata da un genitore con il quale i figli hanno avuto scarsi – o nessun contatto affettivo.

 

È tipico dei bambini approcciarsi alla figura del genitore con intento identificativo, volto ad interiorizzare parti della sua personalità e a renderle proprie. Si tratta di un bisogno evolutivo finalizzato a raggiungere uno stato di consapevolezza a sicurezza, ma anche di un modo per scoprire il Sé e per creare con l’oggetto primario una relazione affettiva stabile e differenziante.

Il frutto di questa interiorizzazione è identificabile nell’Ideale dell’Io, sottodimensione superegoica che indica il modello al quale il bambino guarda con velleità imitativa e che, nella maggior parte dei casi, rappresenta proprio la figura genitoriale (Freud, 1914). Il meccanismo di identificazione col genitore -nello specifico con quello dello stesso sesso- consente di ottenere una certezza circa la propria identità sessuale prima dell’inizio della fase di latenza, e offre al contempo una conferma esistenziale che consente di dirigersi con intento più sicuro nella costruzione del Sé.

Il vuoto affettivo – relazionale nei bambini adottati

Costruire un sano modello identificativo, per un bambino abbandonato dai genitori biologici è ben più complesso. Nel caso di abbandono precoce è infatti probabile che un contatto reale col genitore non sia stato neppure sperimentato, o almeno non in tempo sufficiente per venir elaborato e consolidato dal punto di vista mnestico. L’approccio al genitore è dunque simile ad una fantasia, un’immaginazione, un pensiero senza riscontro empirico.

In casi di abbandono più tardivo, quando le capacità mnestiche si sono adeguatamente strutturate, il compito non si preannuncia meno complesso. Il ricordo dell’abbandono è più reale, vivo e cosciente, e per questo doloroso. Inoltre la figura del genitore biologico può essere legata a vissuti traumatici, cui il bambino ha dovuto far fronte mediante idealizzazioni difensive, dissociazioni, rimozioni volte a negare vissuti di persecuzione e aggressività. Nondimeno, in presenza di abusi, trascuratezza e violenza in un periodo precedente l’adozione, è ben possibile riscontrare lo sviluppo di stili di attaccamento evitante o disorganizzato la cui presenza può replicarsi anche nel successivo rapporto con le famiglie adottive, compromettendone la funzionalità (Rutter,1998).

Quello che per gli altri bambini costituisce il ricordo di un vissuto concreto col genitore biologico, nel caso degli adottati si mostra dunque nel duplice aspetto di un vuoto affettivo o di una dimensione traumatica e deteriorante, che in entrambi i casi rischia di trasformarsi in nell’elemento ostativo di un percorso evolutivo sereno e funzionale.

Il legame col genitore biologico e l’idealizzazione “mortifera” di un dolore abbandonico

Consapevole del rifiuto subito da parte dell’oggetto primario, e tuttavia intenzionato a non riconoscerne l’esistenza per non sentirsi un oggetto rifutato, il bambino preferisce incolpare se stesso dell’abbandono, facendo ricorso al diniego salvifico di una realtà traumatica. Ecco dunque che il vuoto affettivo lasciato dal genitore biologico viene colmato di fantasie preservanti, contaminate da elementi allucinatori e irreali in cui la rabbia sperimentata per l’abbandono viene scotomizzata a favore di un’idealizzazione adorante e devota, in cui il genitore biologico è il solo elemento a non venir distrutto.

È grazie all’idealizzazione che si origina una condizione di pace provvisoria, un compromesso esistenziale attraverso il quale l’IO riesce ad ottenere risposte salienti, per quanto mortifere e autodistruttive.

Una condizione di pensiero prelogico e una minor sopportazione del dolore emotivo-determinate da uno stadio evolutivo immaturo- rendono più probabile l’adozione di meccanismi di difesa idealizzanti, con cui il bambino cerca di fronteggiare l’incapacità rielaborativa dell’abbandono (Nagera, 1970).

Al contempo è noto come il meccanismo idealizzante, tipico di una dimensionalità egoica fragile e poco strutturata, serva a proteggere da vissuti di impotenza e autosvalutazione (Freud, 1936); ma è utile anche ad evacuare vissuti di aggressività inaccettabili verso l’oggetto abbandonico, le cui mancanze vengono così svalutate, minimizzate o del tutto negate. Il pensiero magico svolge in questo caso una funzione assolutoria dell’oggetto d’amore perduto, salvato a dispetto del Sé.

Il “genitore nascosto” nella mente del bambino

Nella dimensione psichica del bambino adottato si verifica un doloroso conflitto di lealtà: il desiderio di rispondere con reciprocità all’amore del genitore adottivo confligge con la consapevolezza che, ove lo facesse, finirebbe col tradire quello biologico, cui sente di appartenere.

Nel tentativo di fronteggiare questo dilemma il bambino si ripara in un rifugio mentale (Steiner, 1993) la cui valenza è da una parte dissociativa- in quanto serve ad allontanarlo da una verità abbandonica inaccettabile- e dall’altra idealizzante, perché necessaria ad ipervalutare un oggetto affettivo rifiutante.

In seguito a questa riparazione il bambino erotizza una pulsione aggressiva idealizzandone il contenuto, e riesce a mantenere un legame libidico con un oggetto primario indispensabile alla sopravvivenza, per quanto rifiutante o mai realmente conosciuto. Se ne origina una sorta di legame fantasticato, tutto costruito nella sua mente, attraverso il quale l’Io riesce ad avvertire la presenza di una figura in realtà assente, riuscendo al contempo a preservarla da ogni contaminazione aggressiva.

Jolowicz (1946, cit. in Bowlby, 1963) ha coniato il termine “genitore nascosto” in riferimento all’influenza esercitata da un genitore con il quale i figli hanno avuto scarsi – o nessun contatto affettivo, e intorno al quale continuano tuttavia ad organizzare molti dei loro pensieri e dei loro schemi affettivi, finendo per idealizzarlo in una relazione mentale segreta. Questa sorta di “genitore nella mente” assume la forma di un fattore psichico non simbolizzato né cognitivamente rielaborato: una sorta di elemento beta, un oggetto ostruente dal quale il bambino non riesce a distaccarsi pur percependone la presenza persecutrice (Bion, 1967).

Il genitore nascosto come lutto non rielaborato: l’ostacolo alla creazione di nuovi legami affettivi

In alcuni casi la creazione di dinamiche familiari flessibili e rassicuranti, all’interno delle famiglie adottive, risulta complicata; la comunicazione viene sostituita da silenzi ed emozioni agite, fraintendimenti che innescano circoli viziosi in grado di ritardare, talvolta di impedire, la costruzione di un legame di attaccamento sicuro.

La motivazione può essere riscontrata nell’ambivalenza affettiva che l’adottato sperimenta nei confronti dei genitori, percependoli da una parte come oggetti affidabili, dall’altra come fonti di tradimento verso il patto inconsciamente stipulato col genitore nascosto.

È quest’ultimo che, con richieste narcisistiche di affetto e lealtà, impedisce la costruzione di nuovi legami e l’evoluzione affettiva dell’IO, tenendo legato il Sé in un crudele legame captativo (Rosenfeld, 1987). Questo elemento psichico persecutorio, presumibilmente, impedirà al bambino di sperimentare un vissuto relazionale attendibile e di costruire un legame duraturo coi genitori adottivi.

Il bambino adottato ha perduto il proprio oggetto d’amore, ed è stato costretto a spezzare vincoli, affettivi e ambientali di vitale importanza per la sopravvivenza del Sé. Il genitore nella mente si pone come primario elemento ostativo alla rielaborazione di questo lutto abbandonico. Il suo tenere legato il bambino ad una fantasia idealizzata alla quale deve amore incondizionato, lo costringe ad un patto di lealtà verso una mera immaginazione, qualcosa che ha soltanto fantasticato per difendersi dal rifiuto e colmare la solitudine.

Un lutto si definisce rielaborato quando l’Io, dopo aver disinvestito ogni legame libidico con l’oggetto perduto, è finalmente libero di investire la pulsione su nuovi oggetti, e quindi di costruire nuovi legami affettivi (Freud, 1917).

Al contrario nel lutto complicato l’Io è vittima di un legame eterno con l’oggetto perduto, che viene introiettato in un’identificazione esclusiva e totalizzante (Freud, 1914): la sua funzione è simile a quella di un Super-Io tirannico che induce sensi di colpa ogni qualvolta il Sé si avvicina ai propri bisogni di dipendenza e di affetto, ammettendo un naturale bisogno di reciprocità e la volontà di costruire nuovi legami (Rosenfeld, 1987). Se ne origina un’autoaggressività persecutoria che costringe a sabotare internamente ogni possibile conato relazionale, appannaggio di una solitudine rabbiosa espressa a mezzo di condotte autopunitive ispirate da un pervasivo odio verso il Sé (Fairbairn, 1946).

È in risposta a questo sabotaggio che il bambino “divorzia” internamente dai propri oggetti buoni, condannandosi ad un’esistenza reietta e solitaria, il cui unico fine è quello di rifiutare, con pervicace aggressività, qualsiasi forma di vicinanza affettiva (Grotstein, 2009).

Così, ogni volta che i genitori adottivi si avvicinano a lui con promesse di amore, l’intento sabotante del Super-Io sadico si pone come unica risposta possibile ad un desiderio d’amore censurato alla stregua di una “colpa”.

La “dissoluzione” del genitore nascosto

La lealtà imposta dal genitore idealizzato non è frutto di un legame affettivo assertivo e reciprocante, ma è il prodotto di una fantasia illusoria, un asservimento unilaterale che impedisce l’evoluzione egoica e il distacco da una fase della vita in cui l’oggetto genitoriale viene vissuto come una parte imprescindibile del Sé. La sua illusoria presenza, ponendosi come frutto di un’idealizzazione difensiva, impedisce anche la creazione di un’ambivalenza in cui la realtà assume caratteristiche di sintesi, e il buono può coesistere col malvagio senza pericolo per la sopravvivenza dell’oggetto.

Solo col dissolvimento dell’idealizzazione il genitore biologico potrà assumere una natura non persecutoria, dando il via alla formazione di un’ambivalenza attraverso la quale sarà possibile riconoscerne le condotte abbandoniche senza sperimentare sensi di colpa.

Dal canto loro i genitori adottivi dovranno sostenere il figlio in questo complesso percorso di ricostruzione affettiva. L’apporto che saranno in grado di fornirgli in termini di empatia, accettazione e vicinanza, si rivelerà un fattore discriminante ai fini del consolidamento di dinamiche relazionali solide e durature, in vista di un funzionale sviluppo socio-emotivo (Juffer e Van Ijzendoorn, 2005).

Il loro affetto, anziché narcisistico e imperante come quello del genitore nascosto, dovrà tuttavia mostrarsi flessibile e paziente, accettando di venir ferito, colpito, talvolta persino distrutto dal Super-Io sadico del bambino: nella consapevolezza che, solo un genitore in grado di rispondere con resilienza a tali attacchi distruttivi verrà percepito come un oggetto capace di amare e di accudire, e al contempo offrirà al figlio la possibilità di vivere fino in fondo le proprie emozioni, acquisendo sulle stesse un’adeguata capacità regolativa  (Winnicott, 1970).

Lealtà affettiva verso il bambino adottato

Per essere definitivamente dissolto nella sua rappresentazione fantasmatica, è necessario che il genitore biologico venga svelato al bambino nella sua oggettività. Anche la psicologia evolutiva sostiene l’opportunità di riferire quante più informazioni possibili sul periodo precedente l’adozione, sull’identità dei genitori biologici, sui traumi subiti, sul lutto abbandonico (Leon, 2002). Naturalmente la rivelazione dovrà essere graduale, congruente allo stato evolutivo del bambino e alle competenze cognitive ed emotive raggiunte, ma è certo che una spiegazione razionale su dimensioni esistenziali così delicate faciliterà il processo interpretativo delle stesse, contribuendo a dissolvere il vissuto autocolpevolizzante e a sviluppare spiegazioni metacognitive e riflessive ben più aderenti alla realtà.

In presenza di dati oggettivi, e dunque di risposte autentiche alle sue domande, il bambino non avvertirà inoltre la necessità di creare informazioni fantasticate, spesso distorte e fuorvianti, con le quali colmare vuoti informativi e contraddizioni circa la sua provenienza. Al contempo si sentirà legittimato a vivere il proprio lutto abbandonico, nella certezza di ricevere un solido supporto emotivo in quest’impresa.

Il bambino che non ottiene risposte, o che non è capace di rielaborare con intento mentalizzante il proprio passato, è anche un bambino privo di strumenti per pianificare il futuro. Per questo sarà importante lavorare con i genitori adottivi ancor più che con il figlio, al fine di fornir loro un supporto emotivo e psicoeducativo che sia in grado di accompagnarli nella costruzione di un modello affettivo stabile e resiliente, in grado di eliminare dai loro bambini un dolore sabotante, il terrore della speranza (Lingiardi e Gazzillo, 2010). E dunque la paura di essere amati.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion, W. (1967), Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 2009;
  • Bowlby, J. (1963), Child Care and the Growth of Love, II ed. London, Penguin;
  • Fairbairn, W.R.D. (1946), Objects relationship and dynamic structure, The international journal of psychoanalysis, 27, (1946), pp. 30-37;
  • Freud, S. (1914), Introduzione al narcisismo, OSF, Bollato Boringhieri, Torino;
  • Freud, S. (1917), Lutto e melanconia, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino, 1975;
  • Freud, A. (1936), L’Io e i meccanismi di difesa, Giunti, Firenze;
  • Grotstein, J.S. (2009), Il modello kleiniano-bioniano, 2 voll., tr.it. Raffaello Cortina, Milano, 2011;
  • Juffer, F., Van Ijzendoorn, M.H. (2005), Behaviours Problems and mental health referrals of International adoptees, in Journal of the American Medical Association, 293, pp. 2501-2515;
  • Leon, I.G. (2002), Adoption losses: naturally occurring or socially constructed? In Child Development, 73, pp. 652-663;
  • Lingiardi, V. Gazzillo, F. (2010), Terrore della speranza e umanizzazione in due pazienti traumatizzati. In Comitato di Redazione del Centro di Psicoanalisi Romano, Società Psicoanalitica Italiana (a cura di), Il soggetto nei contesti traumatici, vol. 1, pp. 120-149, Franco Angeli, Milano;
  • Nagera, H. (1970), Children’s reactions to the death of important object, The Psychoanalytic Study of the Child, vol. 25, pp. 360-400;
  • Rutter, M. (1998), The English and Iranian Adoptees, (ERA), Study Team, Developmental Catch-up, and deficit, following adoption after severe global early privation. In Journal of Child Psychology and Psychiatry, 39, pp 465-476;
  • Rosenfeld, H.A. (1987) Comunicazione e interpretazione, tr.it. Bollati Boringhieri, Torino, 1989;
  • Steiner, J. (1993), I Rifugi della mente,  Bollati Boringhieri, Torino;
  • Winnicott, W.D. (1970), Sviluppo Affettivo e ambiente, Armando, Roma.
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