La maleducazione, spiega Sergio Tramma nel suo saggio Sulla Maleducazione, diventa il segnale di una non appartenenza: se ciò che è bene corrisponde a dei codici di comportamento acquisiti, ciò che è male diventa quello che non si può essere in funzione delle regole stabilite.
Qual è l’essenza della maleducazione? Quali sono gli elementi che la definiscono? È un concetto che muta con il variare delle epoche e delle culture? O invece ha delle caratteristiche trasversali che permangono al mutare del tempo e delle società? È collegato ad un criterio di ordine per cui si definisce attraverso il suo opposto, la beneducazione? È un concetto che trova il suo ambito di studio nella filosofia, nella psicologia, nella sociologia o nella pedagogia?
Il saggio Sulla Maleducazione di Sergio Tramma ci accompagna nell’analisi di queste domande evidenziando, sin da subito, la complessità di questo lavoro definitorio: la maleducazione si presenta come un fenomeno articolato e sfuggevole, destinato a molteplici interpretazioni che si intrecciano nelle pieghe della filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia.
La maleducazione si muove tra l’individuale e il collettivo, tra il privato e il pubblico, tra il Sé e l’Altro, attraversando le emozioni, i valori e i pensieri e rendendo legittimi o, comunque dando un senso e un significato, a processi che possono sembrare, a volte inconsci e automatici, di vicinanza e distanza, di esclusione e inclusione, di uguaglianza e diversità.
La maleducazione è, infatti, anche un codice di riconoscimento socio-culturale che traccia la linea di demarcazione tra i processi di inclusione ed esclusione garantiti dalla dinamica tra somiglianza e differenza, tra il Sé e l’Altro, non nella logica di Paul Ricoeur, di incontro, di scoperta, bensì di esclusione e di emarginazione.
La maleducazione diventa così il segnale di una non appartenenza: se ciò che è bene corrisponde a dei codici di comportamento acquisiti per aver assimilato giorno dopo giorno le regole che fanno di una persona un borghese, un proletario, un uomo di borsa, ciò che è male diventa quello che non si può essere in funzione delle regole stabilite da un gruppo sociale che non è il proprio.
E’ il tema dell’esclusione, della marginalizzazione che, in qualche caso, porta al desiderio del “salto di classe” reso difficile, peraltro, da quei piccoli gesti che svelano l’appartenenza come lascito dell’educazione familiare e di un’eredità di sangue che sigilla nel proprio comportamento e in ogni piccola azione la propria identità sociale.
Ma nell’analisi di colui che compie il salto sociale l’autore analizza le immagini dell’autodidatta: da un lato quello che entra in punta nelle élite intellettuali che guadagna la posizione attraverso le proprie capacità; dall’altro gli autodidatti definiti con la metafora “uno per uno”. Questi nascono sull’onda del sensazionalismo per essere l’unica voce, il numero uno che esalta e dichiara in forza del proprio pensiero. Non sono coloro che si sono auto-educati nel riconoscimento di una cultura “scientifica” e/o “umanistica” dialogica, trasformativa e, quindi, capaci di fare un passo indietro nel riconoscimento del valore di una tesi superiore codificata da un gruppo intellettuale e scientifico, ma sono coloro che hanno bisogno di spettacolarizzazione, che gridano per sentire la propria voce, che si nutrono del narcisismo esasperato che alimenta la vita nei social dove, appunto, ’“uno vale uno”. Un esempio recente sono le voci presenti nell’esperienza del Covid-19: “dalla spettacolarizzazione volgare della scienza – che nulla ha a che vedere con la divulgazione – in funzione del presenzialismo, non della presenza, nei mezzi di comunicazione di massa, delle risse tra (soprattutto) “primi uomini” ognuno armato di diverse e mutevolissime conclusioni scientifiche sempre e comunque evidence based”.
La maleducazione si presenta, quindi, come un’esperienza umana che pervade ogni ambito: dalle emozioni, alle diversità di genere, alla dinamica del pudore e della sessualità. Strettamente ancorata ai valori, alle norme e consuetudini delle società e spesso assoggettata all’ipocrisia della persona, del gruppo, trova la sua collocazione nelle norme della società civile, della divisione di classe che separa rigidamente i gruppi da questo implicito codice non scritto che riguarda come ci si comporta in un gruppo sociale, e non nei divieti del codice penale.
Da qui parte l’analisi nelle pieghe della maleducazione contemporanea e osserva tre ambiti quali il mangiare, l’abbigliarsi e il consumare. Se i primi due richiamano immediatamente la correlazione con la beneducazione e maleducazione, il consumare è un ambito che interroga e incuriosisce. L’atto del consumo raccoglie fenomeni molto diversi dell’agire contemporaneo: ha come rimando l’universo dell’avere, o non avere, “buon gusto” e tutto quello che ne consegue in relazione alla marginalizzazione, esclusione, inclusione e appartenenza. Il consumo regola una codifica dell’appartenenza legata all’avere che definisce “l’essere o non essere”: infatti il consumare o non consumare certi beni, possedere o non possedere certi oggetti e non altri e soprattutto ostentarne il possesso, definisce chi siamo. È un’area che arriva a delineare temi complessi e sistemici come la quantità dei consumi che ‘maciniamo’, i processi identitari personali e di gruppo associati e le diverse modalità di consumo.
Su questa direzione si arrivano a delineare le neo maleducazioni verso l’ambiente, verso l’altro e i luoghi comuni: in particolare, maleducazione ambientale, sociale, muraria, turistica, dell’ospitalità legata alle migrazioni, delle generazioni e, infine, la maleducazione aziendale.
L’excursus dell’autore termina con un’esortazione ad “una postura pedagogico-educativa” che è chiamata a “scegliere”, a “dire dei sì e dei no”. In questa sollecitazione la presa di posizione non vuole essere “un’azione educativa esortativa, esplicativa, predicatoria, trasmissiva, pur se effettuata con didattiche partecipative tra le più̀ sperimentate o moderne”, ma l’invito a riflettere, a dialogare per costruire un lavoro critico e non retorico che permetta alla persona di scegliere la beneducazione “non perché́ costituisce un dovere, bensì̀ uno dei piaceri possibili delle vite normali”.