Gli stereotipi vengono definiti come delle immagini mentali che racchiudono una varietà di proprietà associate a una determinata categoria di oggetti.
Il termine stereotipo proviene dall’ambiente tipografico dove fu coniato verso la fine del settecento per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse (dal greco stereòs = rigido e tùpos = impronta). Il primo uso traslato viene effettuato in ambito psichiatrico con riferimento a comportamenti patologici caratterizzati da ossessiva ripetitività di gesti ed espressioni. L’applicazione alla moderna psicologia sociale si deve a Lippmann, giornalista politico, che nel 1922 lo utilizzò, in un suo volume, con il significato di calchi cognitivi atti a riprodurre nella mente degli uomini immagini di persone o di eventi.
Secondo Lippmann, lo stereotipo è un contenuto semplicistico, di carattere approssimativamente negativo che si basa su un ragionamento sbagliato, non corrispondente alla realtà, e interiorizzato su frame di pensiero troppo rigidi.
Un altro autore, Allport, negli anni cinquanta, lo definisce “un’opinione esagerata in associazione a una categoria. La sua funzione è quella di giustificare, ovvero razionalizzare, la nostra condotta in relazione a quella categoria. Lo stereotipo non è identico alla categoria; esso è piuttosto un’idea fissa che l’accompagna ed agisce in modo da impedire un pensiero differenziato in rapporto al concetto”. Un altro aspetto interessante rilevato dallo stesso Autore, è la facilità con cui adottiamo una giustificazione, o il suo opposto, in base alla conversazione occasionale: coloro che non tollerano gli ebrei, per esempio, possono sostenere che questi siano isolazionisti ma anche intrusivi, aderendo a qualunque stereotipo che possa giustificare il loro rifiuto.
Brown, invece, definisce gli stereotipi come una sorta di scorciatoia mentale che fa sì che la percezione di un individuo come appartenente ad una particolare categoria sociale comporti l’attribuirgli certe caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo cui questi appartiene.
Gli stereotipi non hanno soltanto il compito di semplificare e ordinare il mondo, ma giocano un ruolo fondamentale anche nell’orientare la ricerca, l’elaborazione e la valutazione dei dati dell’esperienza, nonché le reazioni ai membri di altri gruppi. E’ come se funzionassero da ipotesi provvisorie che, però, non utilizziamo scientificamente, cioè con l’intento di falsificarle, ma, al contrario, cerchiamo e selezioniamo tutte quelle informazioni che possano confermarle. Gli stereotipi influiscono, così, sulle nostre attese future, ma possono anche introdurre elementi di distorsione nelle rievocazioni che facciamo del passato.
In sintesi, gli stereotipi racchiudono immagini pre-confezionate, di facile accesso e reperibilità in memoria, atte a provocare dei bias, cioè degli errori di valutazione, a livello della percezione reale dei tratti tipici e dell’appartenenza categoriale delle persone e degli oggetti.
I fenomeni legati all’immigrazione costituiscono un ambito in cui frequentemente i processi di attribuzione sono legati alle appartenenze sociali ed agli stereotipi. In tal senso, per esempio, si tende ad attribuire gli eventi sgradevoli alle caratteristiche stereotipiche negative degli immigrati.
Gli stereotipi possono essere considerati il nucleo cognitivo del pregiudizio.
In particolare, Pettigrew e Meertens, hanno distinto tra forme sottili e sfaccettate del fenomeno, rispettivamente riferibili al razzismo moderno e al razzismo vecchio stampo. Gli Autori specificano che “le forme sottili implicano una difesa dei valori individualistici tradizionali, unita alla credenza che i gruppi minoritari abbiano beneficiato di favori non dovuti, e un’accentuazione delle differenze culturali fra il gruppo di maggioranza e il gruppo di minoranza. Il razzista sottile non esprime apertamente i suoi sentimenti negativi nei confronti dei membri dei gruppi di minoranza, ma si limita a non accordare loro un qualsiasi sentimento positivo”.
Gaertner e Dovidio concordando sul fatto che le forme più vistose di pregiudizio siano in declino, introducono il concetto di razzismo riluttante o avversivo, con il quale si riferiscono a coloro che aderiscono ad atteggiamenti progressisti e liberali di tolleranza, uguaglianza e apertura nei confronti dei membri di gruppi diversi dal proprio, ma che, in condizioni di insufficiente strutturazione normativa o di conflitto, lasciano emergere comportamenti discriminatori, retaggio di rappresentazioni negative culturalmente ereditate.
Conoscere le varie forme in cui il pregiudizio può manifestarsi ci aiuta anche ad “evitare le trappole implicite nei vari antirazzismi, e cioè nell’antirazzismo assimilazionista e nell’antirazzismo della differenza“.
L’assimilazione costituisce una strategia di gestione delle relazioni interetniche che si esprime nella tendenza del gruppo maggioritario ad inglobare quello minoritario sulla base di una presunta superiorità del proprio modello culturale. Essa si traduce facilmente nel “razzismo dell’omologazione, poco o per niente rispettoso delle specificità culturali che fungono invece da solido referente identitario per chi si trova in un contesto a lui estraneo”.
Il riconoscimento delle differenze, a sua volta, può tramutarsi in razzismo differenzialista, cioè nel rifiuto del contatto e in una sorta di ghettizzazione fisica e mentale in base alla quale non si nega a nessuno il diritto di esistere, ma senza indebite e impossibili contaminazioni. La diversità viene affermata perché da essa ci si può difendere con l’indifferenza e il distacco. In una convivenza fatta di gruppi giustapposti in cui si nega l’uguaglianza e si postula il principio della gerarchia.
I processi di conoscenza e la loro memorizzazione, non sono da sottovalutare ma da controllare ed ogni operazione mentale richiede accuratezza ed eventuale ri-correzione. Si è sempre in tempo per combattere il pregiudizio, imparando a confrontarsi con il mondo e a cambiare prospettiva.