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La “fame di tocco umano”: implicazioni psicologiche dell’assenza del contatto fisico ai tempi di COVID-19

Il contatto fisico in tempi di COVID-19 è limitato per la sicurezza, ma rimande un elemento fondamentale per l'esperienza umana e lo sviluppo

Di Evi Fournatzi

Pubblicato il 25 Feb. 2021

Aggiornato il 26 Feb. 2021 13:08

Molti paesi hanno scelto il distanziamento fisico come un modo efficace per rallentare la diffusione del COVID-19.

 

Si tratta di una pratica standardizzata, sostenuta da molte autorità sanitarie in tutto il mondo e condivisa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se da un lato si tratta di una misura assolutamente necessaria per il contenimento del contagio, dall’altro è importante non trascurare il benessere mentale della comunità mentre si combatte questa pandemia. L’isolamento derivante dalla quarantena e dal distanziamento fisico, tendono a indurre solitudine, paura e panico nella comunità, specialmente tra i cittadini più vulnerabili e gli anziani (Yip & Chau, 2020).

Il contatto fisico in tempi di COVID-19 è limitato per la sicurezza nostra e degli altri, ma non va dimenticato che è un elemento fondamentale per l’esperienza umana, trattandosi di una componente essenziale dello sviluppo socio-emotivo, fisico, cognitivo e neurologico nell’infanzia e nella fanciullezza. Il tocco umano modella la regolazione emotiva durante tutto l’arco della vita e contribuisce allo sviluppo dell’attaccamento nei neonati che è importante per la qualità di tutte le relazioni successive (Cascio, Moore, McGlone, 2019). Non solo è un’importante forma di comunicazione non verbale ma è usato per trasmettere affetto e rassicurazione in tempi di difficoltà (Connor & Howett, 2009).

Nell’ambito dell’assistenza sanitaria, il tocco umano è anche associato alla trasmissione del conforto, della cura e della compassione e contribuisce nello stabilire connessioni e legami di cooperazione tra operatori sanitari e pazienti (Connor, 2015). Il tocco interpersonale nel rapporto infermiere-paziente è usato per comunicare i bisogni, diminuire lo stress e dimostrare affetto, fornendo benefici sia al paziente che all’infermiere (Connor & Howett, 2009). Quando il contatto fisico è limitato o addirittura assente, si può sviluppare la cosiddetta “fame di contatto fisico” o “fame di tocco umano”, la quale ha un impatto su tutti gli aspetti della nostra salute ed è stata associata ad aumenti di stress, ansia e depressione (Durkin, Jackson, Usher, 2020).

Gli infermieri e gli operatori sanitari della comunità hanno riferito le difficoltà di cura dei pazienti già dai tempi di epidemia di Ebola in Liberia, periodo in cui erano in vigore le “linee guida del non toccare”. Le linee guida no-touch non solo rendevano difficile diagnosticare un paziente senza toccarlo (Siekmans et al., 2017), ma l’isolamento affrontato dai pazienti affetti da Ebola ha compromesso la capacità degli infermieri di trasmettere vicinanza e fornire conforto ai pazienti nei momenti di distress emozionale (Connor, 2015). E come dimostratosi successivamente, queste misure -create per tenere le persone al sicuro- hanno preoccupanti implicazioni sia nel breve che nel lungo termine sulla salute di individui già isolati, come le persone malate, gli anziani (Armitage & Nellums, 2020) e le persone con disabilità (Emerson, Fortune, Llewellyn, & Stancliffe, 2020).

Anche nei nostri tempi la pandemia ha portato in gran parte all’eliminazione del contatto pelle a pelle per gli operatori sanitari e pazienti; è stato riscontrato che l’aumento dell’uso di dispositivi di protezione personale (DPI), pur essenziali per la sicurezza dei pazienti e degli operatori sanitari a causa della facilità di trasmissione e della gravità del COVID-19, impedisce la comunicazione, diminuisce la percezione ed ostacola il processo decisionale, soprattutto in situazioni di emergenza (Benítez et al., 2020) e mentre i guanti costituiscono una necessaria barriera fisica tra infermieri e pazienti, il tocco con i guanti finisce con l’erigere una barriera emotiva (Nist et al., 2020).

Il tocco umano dunque è un metodo potente usato per alleviare e ridurre la sofferenza degli altri, e durante questa pandemia, c’è stata senza dubbio molta sofferenza. I professionisti della salute hanno riconosciuto il ruolo del contatto fisico nella guarigione dei pazienti anche durante le pandemie (Connor, 2015). In effetti, recentemente è stata inventata nelle residenze per anziani una nuova modalità per potersi abbracciare in sicurezza, la cosiddetta “stanza abbracci”: una stanza divisa in due da un grande telo di plastica trasparente, attraverso il quale ciascuno può abbracciare i propri cari.

In questi tempi in cui dobbiamo stare distanti, rendiamoci consapevoli del dolore e della sofferenza causati dall’assenza di contatto fisico nelle nostre vite e in quelle dei nostri amici, familiari, colleghi e pazienti; mentre la nostra capacità di toccare è temporaneamente ostacolata durante la pandemia, cerchiamo altri metodi di comunicazione per compensare questa perdita, cerchiamo altri modi per rimanere “connessi”. Se il distanziamento fisico crea dolore e solitudine (Durkin, Jackson, Usher, 2020), prendiamone atto e agiamo di conseguenza.

 

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