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“Totem e Tabù” attuato al Covid-19: considerazioni in chiave psicoanalitica

La paura del contagio da Covid-19 e dell’imprevedibilità del futuro rimandano ai concetti della psicologia delle masse teorizzati da Freud come totem e tabù

Di Serena Romiti

Pubblicato il 19 Mar. 2020

Aggiornato il 03 Apr. 2020 10:41

L’equilibrio di una comunità è l’elemento fondante della stessa. Per far sì che un popolo e una società funzionino è necessaria una condivisione di credenze e di obiettivi comuni, tali da mantenerli in equilibrio e da evitare che il sistema collassi e questi concetti risultano ancora attuali in questo periodo caratterizzato dall’emergenza del Covid-19.

 

L’equilibrio collettivo

In questi giorni insoliti di quarantena obbligatoria, ho avuto l’opportunità di riflettere su alcune dinamiche di comunità che trovano fondamento nella storia della psicoanalisi, in particolare nel padre della psicologia: Sigmund Freud. Nel 1913, alle porte della Prima Guerra Mondiale, Freud pubblica Totem e Tabù. In un periodo storico particolare, Freud aveva ben definito i cardini della sua teoria sulla psicologia dell’individuo, per questo, in una lettera ad Abraham, esprime il desiderio di applicare tale teoria ai popoli e alle masse, per garantire una scientificità della psicoanalisi attraverso una spiegazione dei moti collettivi.

A distanza di più di un secolo il mondo intero si trova a combattere contro una pandemia, contro un virus invisibile che mette a dura prova intere popolazioni. È inevitabile, per chiunque abbia letto l’opera di Freud (1913), riflettere su come i popoli, a distanza di secoli, mantengano per certi versi, le stesse pratiche provenienti da un vissuto psicologico individuale che si manifesta nella collettività.

Prima di entrare nel merito dell’analisi di Totem e Tabù, ritengo molto interessante introdurre l’opera descrivendo un cortometraggio di Wolfgang e Christoph Lauenstein (1989), dal titolo Balance, che tradotto significa equilibrio. Nel titolo emerge già il contenuto del video, in cui vediamo cinque manichini personificati con indosso solo una giacca riportante un numero, unico segno della loro identità. I volti sono inespressivi e sembrano non manifestare nessuna emozione. Questi personaggi si trovano su una pedana sollevata in aria che resta in equilibrio solo grazie al peso dei loro corpi e ai loro movimenti che devono essere misurati per far sì che la pedana non si inclini eccessivamente e che nessuno cada. Raggiunto l’equilibrio, i cinque personaggi estraggono dalla giacca una canna da pesca, il cui amo viene gettato nell’oscurità che circonda la pedana. Ad un certo punto, uno di questi riesce a pescare un oggetto molto pesante e con l’aiuto degli altri compagni, che si dispongono in modo tale da tenere in equilibrio la pedana, riesce a recuperare l’oggetto in questione. Si tratta di una scatola rossa da cui proviene una melodia musicale, unico elemento colorato e sola fonte di emozioni. Da qui in avanti ci sarà una lotta tra i vari membri del gruppo per afferrare l’oggetto, con la conseguenza finale di una perdita di equilibrio collettiva. Come nei migliori enigmi, uno alla volta i membri iniziano a cadere, fino a quando ne rimane uno solo che, però, non potrà mai raggiungere e prendere la scatola poiché questo comporterebbe la caduta di entrambi.

L’equilibrio di una comunità è l’elemento fondante della stessa. Per far sì che un popolo e una società funzionino è necessaria una condivisione di credenze e di obiettivi comuni, tali da mantenerli in equilibrio e da evitare che il sistema collassi.

È interessante notare come in una collettività emergano quegli elementi che, da un lato appartengono al singolo individuo e al suo vissuto, dall’altro l’esperienza del singolo è manifestata a livello collettivo come sua specifica appartenenza al gruppo. Si forma, quindi, un’identità collettiva che si fa portatrice di una singolarità che si esprime in una condivisione comunitaria.

Questo aspetto è osservabile con il problema attuale del coronavirus. La paura del contagio, ma al tempo stesso le pratiche di massa provocate da un’ulteriore paura dell’imprevedibilità del futuro, riportano a dei concetti cardine della psicologia delle masse, teorizzati da Freud nei concetti di tabù e totem.

Totem e tabù ai tempi del Covid-19

Partendo dal termine ‘contagio’ che, nel caso di un virus, coincide con la sua trasmissione da un individuo all’altro per vie dirette o indirette, per Freud (1913) si tratta del concetto di equilibrio sopra esposto, ovvero una necessità a livello comunitario di uniformarsi, una serie di processi di identificazione che portano ad una condivisione di responsabilità e alla formazione di un’identità di massa. Anche qui abbiamo una trasmissione, più o meno figurata, di pratiche che i popoli si rimandano nel corso della storia e che li caratterizzano.

Freud (1913) descrive come tra le tribù primitive esista una continuità tra le pratiche legate ai totem e quelle relative ai tabù e come queste siano paragonabili a quelle tipiche dei pazienti affetti da nevrosi ossessiva.

In particolare, gli elementi principali del parallelismo sono:

  • Carattere immotivato del divieto nei confronti di un oggetto, ovvero quello legato alle credenze. Alcune religioni si fanno portatrici di divieti, il cui carattere si basa solamente sull’esistenza della loro credenza che impedisce di compiere determinate azioni, come nel nevrotico non esiste una motivazione manifesta del suo divieto, ma è legato ad una necessità patologica interiore (Freud, 1913).
  • Dislocabilità e pericolo di contagio dall’oggetto di divieto, attuati con le pratiche cerimoniali a livello comunitario e con i rituali compulsivi o l’evitamento nei pazienti, al fine di fuggire il pericolo di contagio e allontanare l’ansia che questo comporterebbe (Freud, 1913).

Se riportiamo queste due accezioni alla vita quotidiana, vediamo come tutte le comunità si fondano su credenze e possiedono dei rituali – termine che non per forza deve riguardare pratiche religiose o nuclei psicopatologici – che determinano la routine giornaliera.

Secondo Freud (1913), il tabù, comprendente la realizzazione di un oggetto di divieto, il suo evitamento o la sua elaborazione ritualistica, è portatore e conseguenza di un’ambivalenza emotiva: l’individuo sviluppa, infatti, un comportamento ambivalente verso un certo oggetto o azione che lo riguarda. Da una parte, vi è la volontà costante di raggiungere l’oggetto o perseguire l’azione, dall’altra la repulsione e l’orrore dello stesso. L’ambivalenza, a sua volta, è portatrice di un conflitto interiore che spesso rimane inconscio. Anche nei popoli, l’emergere di alcuni tabù manifesta la presenza di un’ambivalenza emotiva nei confronti del tabù stesso che, da un lato è fortemente desiderato, dall’altro è soggetto ad una repulsione totale.

Il tabù, dunque, comporta una scissione dell’odio, della parte violenta ed aggressiva che viene allontanata e, come in un comportamento patologico di tipo evitante o ritualistico, un popolo crea il tabù e stabilisce che di questo non si può parlare. È proprio attraverso la sua negazione che, a volte, arriviamo a gesti terribili, dettati da un piacere inconscio che deriva dal contatto con l’oggetto proibito, a differenza del puro divieto che è pienamente cosciente (Freud, 1913).

Freud (1913) cita Wundt che in uno studio afferma:

i popoli si costituiscono proprio per evitare, attraverso tabù e norme collettive, di cedere alle pulsioni inconsce che abitano tutti noi, di cedere a quelle parti di aggressività e di odio che tutti noi abbiamo e che se ciascuno esercitasse provocherebbe l’estinzione della specie.

Freud (1913), a sua volta, rifacendosi ancora ai suoi casi di nevrosi sostiene:

la natura asociale della nevrosi deriva dalla sua tendenza originaria a sfuggire da una realtà insoddisfacente per rifugiarsi in un mondo fantastico assai più attraente. E questo mondo reale che il nevrotico evita domina la società degli uomini e le istituzioni che essi hanno creato in comune. La fuga dalla realtà è al tempo stesso una fuga dalla comunità umana.

Freud (1913) getta la luce su quelle dinamiche aggressive, distruttive che ciascuno di noi ha, introducendo l’opera Al di là del principio di piacere (1920), in cui per la prima volta ci presenta il concetto di pulsione di morte. Ma cosa facciamo per gestire questa aggressività? Deleghiamo il compito di nasconderla alla società che la trasforma in un tabù. Niente di più attuale, poiché oggi uno dei più grandi tabù, ad esempio, è quello della morte: da un lato non se ne parla, si cerca di eliminarne qualsiasi traccia, dall’altro nei telegiornali, in tv, non si fa altro che fare riferimenti alla morte, a sventure, ai dettagli più macabri che vengono svelati per una curiosità morbosa di sapere. È qualcosa che ci terrorizza, ma non vogliamo ammettere a noi stessi che, in realtà, è un mistero che ci lascia tutti incuriositi e ci attrae.

Tutto questo ci porta ora a riflettere sulla vicenda attuale del Covid-19. Abbiamo osservato la formazione di un tabù legato al coronavirus e alla sua letalità, affermando che fosse poco più grave o al pari di una comune influenza, o che il tasso di mortalità fosse elevato solo per le persone anziane o per coloro che soffrissero già di patologie croniche. Al di là di qualsiasi motivazione scientifica, ciò che ci interessa è come chiaramente sia stato eretto un tabù nei confronti della morte legata al virus, come se si tentasse di esorcizzare il terrore che questa ci dà, con la giustificazione che la letalità del virus è da attribuire a persone che, sostanzialmente, erano già ‘condannate’. La comunità ha quindi eretto un tabù, poi, di fronte all’angoscia di morte, ha messo in pratica una serie di rituali e cerimoniali come la corsa alla spesa e al rifornimento delle scorte.

Freud (1913), dopo aver teorizzato che un tabù nasce da un’instabilità emotiva proveniente da un conflitto interiore, suggerisce anche quale sia la chiave risolutiva di tale conflitto: l’identificazione con il Totem, con un Dio, con un Padre, un’entità a cui ambire, attraverso un desiderio di replicare la sua identità su noi stessi, ovvero un meccanismo di difesa che la persona attua per proteggersi da un conflitto emotivo molto potente e, contemporaneamente, da un sentimento di odio nei confronti del Totem stesso.

Il Totem rappresenta, quindi, il simbolo di un salto qualitativo dell’uomo, che predispone una prima organizzazione sociale e la nascita della morale, volta a prescrivere comportamenti socialmente rispettabili (Freud, 1913).

Il Totem impersona la Legge e crea una morale collettiva, intesa come naturale processo di superamento di conflitti psichici e affettivi e come risoluzione di un’ambivalenza tipica dell’intera collettività (Freud, 1913).

L’adorazione del Totem è, dunque, un modo per creare un legame identificativo tra i membri di una società, che acquisiscono uno stesso codice di condotta (Freud, 1913), come quello espresso dalla comunità italiana odierna, che di fronte ad un pericolo molto forte, si è unita rispettando le misure restrittive imposte da un’autorità.

Il salto qualitativo poco prima descritto è possibile qualora il conflitto intrinseco da cui è mosso, da inconscio venga portato agli occhi della coscienza (Freud, 1913).

In questi tempi così complessi, appare ancora più importante rendere consapevoli le persone della paura che il virus provoca in loro, dell’angoscia che provoca l’accettazione della sua letalità. Questo salto di consapevolezza aumenterebbe il valore del Totem comunitario e renderebbe più stabile quell’equilibrio collettivo, per cui se un solo membro cede, l’intero meccanismo collassa.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1913). Totem e Tabù. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere. Bollati Boringhieri.
  • Lauenstein W & Lauenstein C. (1989). Balance. Cortometraggio.
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