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Il Covid-19 come fenomeno psicosociale. Quale responsabilità degli psicologi

Covid-19: un fenomeno complesso che tocca la società e il singolo individuo. Che ruolo e quali responsabilità ha lo psicologo in questo contesto?

Di Luigi D`Elia

Pubblicato il 03 Mar. 2020

Aggiornato il 27 Apr. 2020 15:27

L’emergenza epidemica prodotta dal virus Covid-19 pone, nell’epoca dell’infosfera e della tecnosfera globalizzata e pervasiva che stiamo attraversando, questioni del tutto nuove e al contempo fa emergere vecchi se non vecchissimi schemi antropologici. Il vecchissimo e il nuovissimo s’intrecciano in uno strano miscuglio rendendo confuso un quadro già di per sé torbido.

 

Decido di parlarne occupando lo spazio (vuoto) di analisi psicosociale esplorando tre punti: 1. il vertice professionale e di responsabilità di uno psicologo e psicoterapeuta alle prese con i propri pazienti; 2. L’aspetto funzionale e disfunzionale delle fenomenologie psicopatologiche; 3. Il piano comunicativo e i suoi attuali squilibri.

La responsabilità sociale dello psicologo

Innanzitutto mi sono posto la questione relativa alla responsabilità professionale: come incontrare il disagio pre-esistente dei nostri pazienti in collisione con le angosce e le conseguenze pratiche dell’espansione dell’epidemia in corso, sia considerando il fenomeno virale effettivo, che la viralità mediatica come epifenomeno conseguente al primo? Trovarsi, prima o poi, nelle zone di quarantena o limitrofe, con limitazioni dei movimenti e della comune vita sociale e il relativo impatto psicologico sulla popolazione di post traumatic stress, rabbia, depressione, frustrazione, noia, confusione, etc., come confermato da una recentissima review sull’argomento quarantena (Brooks et al., 2020 – ved. bibliografia).

Ma anche soltanto gestire le ansie di chi, momentaneamente lontano dalle zone di contagio, vede un pericolo incombente giungere da ogni canale mediatico e dai discorsi che tutti fanno per strada e nelle famiglie. Tutto questo e molto altro ancora ci interroga su come affrontare e discutere con i nostri pazienti la problematica situazione in corso (a seconda della dislocazione geografica e della prossimità o meno di focolai e quarantene) cercando di mantenere una posizione realistica, emotivamente equilibrata, scientificamente informata, comunicativamente rassicurante, ma al tempo stesso non sottovalutante, istituzionalmente coerente con le indicazioni sanitarie e con la situazione in rapido itinere e mutamento, in grado di trasmettere l’effettiva realtà del problema in corso senza allarmare, ma senza sottovalutare. Allo stesso tempo occorre saper tracciare ed indicare i confini temporali di esperienze così angoscianti e fornire supporto e comprensione nonché strategie di occupazione del tempo e della convivenza creative e se possibile anche innovative. Talora, come nelle storie del periodo bellico, la riduzione delle libertà e delle possibilità di vita rappresentata dalla condizione di emergenza può convertirsi in occasione di incontro con sé, con il prossimo e con risorse inattese e inesplorate.

Se invece pensiamo ad alcune vulnerabilità emotive e cognitive di alcuni nostri pazienti, essi, per svariate ragioni personali, possono rivelarsi non in grado di processare un cambiamento di questa portata, nonché non in grado di elaborare una complessità informativa oggettivamente e poi anche soggettivamente incalcolabile, come quella di una epidemia in corso nella propria città. Basta pensare a tutti i pazienti ansiosi (fobici, panicosi, ipocondriaci, evitanti, paranoidei, depressi, solo per fare qualche esempio) e possiamo immaginare come sia automatica per alcuni di loro la risposta di fuga e riparo oppure il vissuto di catastrofe incombente o viceversa di negazione. Un festival di difese indotto da una condizione esterna.

In un’ottica e prospettiva più allargata, ovverosia che tenga conto della funzione sociale della nostra professione, il nostro compito e la nostra responsabilità non si riducono alla ricerca di equilibrio e correttezza professionale verso il numero ristretto e privato dei nostri pazienti, ma riguarda più ampiamente la cifra comunicativa che ciascuno di noi ha, in quanto professionista della salute e promotore di benessere pubblico, nei confronti della cittadinanza e della società tutta. Questo allargamento di prospettiva e di responsabilità ci obbliga a prendere posizione e a approfondire temi che generalmente (e secondo me erroneamente) rimarrebbero al margine del nostro mansionario percepito.

Ci obbligano cioè ad affrontare il tema della mente come fenomeno sociale e storico e di quelle interfacce che troppo spesso escludiamo (per pigrizia? per ignoranza? per riduzionismo?) nel nostro comune lavoro clinico. Non solo quindi contenere, proteggere, se vogliamo protesicamente, le vulnerabilità dei nostri singoli pazienti, ma comunicare, informare, condividere riflessioni e soluzioni di piccoli e grandi problemi a livello sociale e pubblico.

Il Covid-19, per quanto possa apparire paradossale, ci svela la natura sociale della mente e ci svela allo stesso tempo quanto lavoro abbiamo da fare su questo versante e ci aiuta indirettamente ad aprire nuovi territori delle nostre professionalità.

Si pone perciò come urgenza per uno psicologo informato della propria funzione sociale, che voglia fornire una corretta visione e comunicazione pubblica del rischio, il problema di quali fonti informative e scientifiche utilizzare, con quale autorevolezza, come utilizzarle, con quale capacità di sintesi personale processare i dati, come sviluppare e poter mettere insieme competenze trasversali che, in un caso come questo del Covid-19, esorbitano di molto il nostro background formativo: competenze epidemiologiche, sociometriche, matematiche, biologiche, mediche, storico-scientifiche, ma soprattutto la capacità di maneggiare sistemi complessi anche in chiave previsionale.

Ciò che invece avviene nella nostra, come in tutte le altre professioni ad alta esposizione sociale, è il deludente polarizzarsi sulle diatribe mediatiche dell’allarmismo versus banalizzazione/sottovalutazione del fenomeno, con una netta prevalenza (personalmente percepita) a favore del partito della negazione e sottovalutazione. Chiaro segno di una mancanza di dimestichezza a fronte della assoluta novità di quanto sta accadendo accodandosi verso un riduzionismo emotivo di natura difensiva del tutto inadeguato.

Come avviene, dunque, una corretta comunicazione pubblica del rischio? E cosa sta avvenendo da alcune settimane qui in Italia su questo?

Rimando a questo proposito la lettura di un’eccellente riflessione di Pietro Saitta (2020 – ved. bibliografia) che interroga molti piani comuni a questo mio articolo: l’autorevolezza delle fonti scientifiche, l’autorevolezza delle istituzioni, il caos mediatico, etc.

Il catalogo delle psicopatologie come repertorio antropologico

Un secondo punto che vorrei sollevare, come articolazione del primo, parte dalla constatazione che, a partire da alcune delle stesse (giustissime) raccomandazioni contenute nel decalogo governativo per difendersi dal Covid-19, ciò che emerge alla mia (personalissima) attenzione è che questo virus sta mobilitando aspetti della natura umana evolutivamente sedimentati che assomigliano moltissimo ad un repertorio di difese e contromosse che stranamente, ma poi neanche tanto, a loro volta somigliano al catalogo delle principali forme di psicopatologia. Cosa vuole dire questo e cosa implica?

Prendiamo alcuni punti del decalogo, ripeto sacrosanto e doveroso: lavati (spesso) le mani; pulisci le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol; non toccarti occhi, naso e bocca con le mani. Sono notoriamente aspetti tipici del repertorio ossessivo-compulsivo. Ed ancora: evita contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; è chiaramente l’espressione di un comportamento fobico-evitante (con sfumature paranoidee dal momento che conoscere la condizione di infezione del prossimo è quasi sempre un’inferenza indebita). Un mio paziente, ad esempio, è stato cacciato dal corso di teatro solo perché tossiva (e siamo a Roma dove non c’è alcuna epidemia al momento).

Allargando il campo di osservazione, alcuni comportamenti di massa di incetta di viveri e oggetti percepiti come salvifici (mascherine e disinfettanti), per fortuna meno frequenti di quanto si pensi, raccontano di memorie manzoniane di assalto ai forni o di follie collettive che abbiamo potuto osservare solo in alcuni film catastrofistici americani. Fenomeni di panico collettivo che associamo subito alla distruttività di folle calpestanti e distruttive.

La quarantena, inoltre, evoca scenari del tutto inediti alle nostre generazioni (almeno in Italia) e convoca situazioni e abitudini completamente sconosciute, almeno se si parla di masse. Rimanere isolati in casa, non poter frequentare luoghi pubblici o ridurre drasticamente la vita sociale rimanda immediatamente ad una deriva depressiva, se non addirittura ai sintomi negativi di alcune psicosi. Nell’immaginario collettivo si ferma la vita, si cade in una passività e in una solitudine senza ritorno. Settimane se non mesi in uno stato di reclusione domiciliare come se si scontasse una pena (ibidem).

Ci ritroviamo in questa inedita e duplice situazione di gestire da un lato un repertorio comportamentale sulla carta disadattativo (fatto di gesti circospetti e compulsivi) che transitoriamente appare invece come adattativo e a scoprire al contempo angosce e difese primitive che emergono come fortemente compromettenti le capacità critiche e di valutazione della realtà in rapido mutamento.

Da un lato quindi osserviamo come questa nuova condizione di pericolo soggettivo e collettivo attivi sepolte funzioni adattative, anche ataviche, pescando nelle profondità di un repertorio antropologico, dove la fuga, la mimesi, l’isolamento, la paura espressa e condivisa gruppalmente, persino la risposta di allarme (arousal) e la diffidenza paranoicale diventano paradossalmente pensieri e comportamenti del tutto funzionali psicobiologici e psico-evoluzionistici all’eccezionalità della situazione.

Il caos mediatico e la diffusa irrazionalità

Dall’altro, la variabile legata alla saturazione dell’infosfera, con dibattiti mediatici e l’invasione totale dello spazio mediatico da voci contrastanti e rumorose, deforma completamente il quadro generale e compromette la capacità di comprensione e di previsione del fenomeno anche per persone mediamente dotate di intelligenza e cultura scientifica. L’emotività della situazione aumenta ulteriormente questa compromissione creando le comuni dicotomie e polarizzazioni tra allarmisti e negazionisti. Si ripropongono posizioni complottiste che si fanno strada nell’opinione pubblica.

Se l’eccesso di angosce e di allarmismo produce il classico fenomeno del contagio psichico e i fenomeni di massa sopra citati, l’eccesso di negazionismo vede la clamorosa sottovalutazione dei dati epidemiologici e come estrema conseguenza il frequente comportamento di elusione delle quarantene (e successiva espansione del contagio) come la recente cronaca sta ripetutamente dimostrando attraverso le numerose infrazioni alla quarantena delle zone-focolaio alle quali stiamo assistendo.

Da un lato il panico del nemico nascosto e invisibile rappresentato dal virus, dall’altra l’angoscia della caduta depressiva o psicotica nella totale passività della quarantena, della vita sociale ed economica che si ferma, producono alternativamente fughe all’indietro o in avanti che diventano dei boomerang psichici, ma anche dei comportamenti disfunzionali rispetto alla stessa diffusione del virus.

La compromissione delle capacità di comprensione del fenomeno in corso dovuto rispettivamente al caos mediatico e alla super-complessità del fenomeno stesso e delle sue innumerevoli e in parte imprevedibili o ineffabili variabili, riduce drasticamente il numero di persone in grado di comprenderlo (in senso etimologico, cum-prendere). Non si tratta infatti di intercettare le singole statistiche epidemiologiche, le valutazioni sociometriche (già di per sé di una certa complessità metodologica), o le previsioni virologiche, ma si tratta di interpolare su una scala di complessità molto maggiore fattori biologici legati alla struttura del virus, le sue possibili mutazioni e la sua reale aggressività, il suo sviluppo in aree geografiche e sociopolitiche totalmente difformi (pensiamo ai diversi sistemi sanitari e alle caratteristiche socioantropologiche delle popolazioni implicate), il contesto climatico ed ecologico delle varie zone del pianeta, l’imprevedibile risposta delle singole popolazioni alla quarantena e alle linee guida, la velocità della ricerca di trovare risposte terapeutiche o meno, le variabili economiche e politiche conseguenti e così via. Uno scenario di questo tipo necessita di modelli matematici di osservazione e di previsione e tutto questo, ripeto, riduce drasticamente il numero di persone in grado di capire e di intervenire adeguatamente (anche a livello alto istituzionale). Possiamo quindi immaginare per deduzione come il baraccone mediatico possa allegramente sguazzare in questo mare magno di indecifrabilità e, come in questi casi, i fattori emotivi individuali e collettivi siano alla fine le variabili principali che determinano la selezione della notizia e della fonte informativa alla quale emotivamente agganciarsi. Si diffondono e si seguono le notizie che assomigliano alle nostre prevalenti difese psichiche con buona pace del rapporto con realtà e con la razionalità.

Questa situazione psicosociale, legata alla comparsa di un’epidemia virale in corso in questo momento storico, mette in crisi lo stesso sistema della ragione contemporanea, dei principi di razionalità e della catena di giudizio, di azione e di responsabilità sia delle istituzioni sia dei singoli professionisti della salute. Pone dunque la necessità di sostenere una nuova forma di razionalità e di governo delle emergenze e del rischio che sia in grado di gestire nuove complessità e che sappia allo stesso tempo regolare il chiasso mediatico che oscura e confonde azioni pubbliche e private.

 

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