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Proteggere, proteggersi: per una quarantena Trauma-Informed

Gli ultimi giorni di lavoro hanno visto l'inevitabile comparsa del Coronavirus nella stanza della terapia, lasciando emergere molte nuove sfide.

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 16 Mar. 2020

Aggiornato il 03 Apr. 2020 10:40

Il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente, ma quando l’emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali.

 

Nelle ultime settimane stiamo assistendo ad un radicale cambiamento di prospettiva che coinvolge improvvisamente e inaspettatamente tutti nello stesso momento. Gli ultimi giorni di lavoro hanno visto l’inevitabile comparsa del Coronavirus nella stanza della terapia, lasciando emergere molte sfide nell’affrontare i faticosi cambiamenti delle abitudini quotidiane, ma anche in molti casi i ricordi di un passato più antico in cui ci si è sentiti proprio così: costretti, isolati, impotenti, vulnerabili, in balia di eventi nuovi e sconosciuti. Insomma piccoli di fronte a qualcosa di più grande di tutti noi! Ma se siamo tutti piccoli, a quali adulti affidarci?

L’epidemia Covid-19, dall’11 Marzo 2020 Pandemia, sta suscitando moltissime reazioni diverse e in molti ambiti di vita: economico, politico, sociale, personale. A tutti livelli sembra che l’equilibrio difficile da trovare sia identificare il giusto grado di protezione: sufficiente a tenerci, concretamente, “in vita” o almeno in salute di fronte al pericolo imminente, ma anche lungimirante nel permetterci di conservare le energie necessarie a tollerare un’emergenza che potrebbe prolungarsi, preparando magari il terreno ad una rapida risalita una volta che il pericolo sarà passato.

Prima manifestazione di questo difficile equilibrio: le notizie. Prima troppo allarme. Poi troppo poco. Poi una indicazione concreta, più regolata e adulta: teniamoci aggiornati, ma non minuto per minuto. Non serve a nessuno, se non a chi deve organizzare i turni in ospedale e i posti letto. Una volta al giorno è sufficiente per capire come proteggersi, tutto il resto rischia di alimentare solo ansia, panico e un pericoloso senso di sopraffazione.

Tra le molte riflessioni possibili, da una prospettiva psicotraumatologica è inevitabile non notare come, dal punto di vista emotivo, questa improvvisa perdita del senso di protezione e sicurezza abbia lasciato spazio (e per tutti) all’intervento immediato del nostro sistema di difesa innato (Porges, 2001): la parte più antica del sistema nervoso autonomo, conservata nella fisiologia di tutti i mammiferi. Quando ci sentiamo davvero minacciati, la Neurocezione (Porges, 2004) – capacità innata del sistema nervoso autonomo di intercettare pericoli nell’ambiente – attiva il sistema di difesa che serve a scalzare le attività corticali e il ragionamento per farci agire velocemente a protezione della nostra vita. Ma cosa succede se questo sistema di difesa viene sollecitato in modo eccessivo, continuativo e incoerente?

Si disregola. Perde efficacia. Ci rende più esposti.

Corsa ad abbracciare i propri cari lontani per sentirsi al sicuro (pianto di attaccamento); rabbia verso il diverso, lo straniero, l’untore, il vicino che non rispetta le regole, l’ignoranza, il governo, il sistema economico (attacco/fight); fuga dalle città del nord, fuga dagli ospedali, fuga dalle zone rosse, miminizzazione, semplicemente fare finta di niente (flight/evitamento); seguire minuto per minuto le statistiche del contagio (freeze/congelamento); fatalismo, negazione, rinuncia alla protezione (resa/sottomissione).

Le nostre difese animali sono impegnate in un duro lavoro di “recupero di controllo sulla realtà” sin dalle primissime notizie di venerdì 21 Febbraio, con una crescente attivazione che dalle zone più colpite del Nord Italia ha coinvolto gradualmente tutte le regioni del Centro e del Sud e dunque porzioni sempre più grandi di popolazione, determinando (finalmente) una più chiara consapevolezza: c’è una epidemia da fermare, o almeno da rallentare. Che fare?

Il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente, ma quando l’emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali e riuscire ad orientarci nel presente cercando le risorse ancora accessibili e utili a navigare dentro l’urgenza, con crescenti capacità e fiducia verso un ritorno alla sicurezza. Questo processo di adattamento è necessario e di solito naturale: abbiamo un picco di terrore e smarrimento (trauma), poi gradualmente le risorse affiorano e iniziamo a lavorare per la nostra sopravvivenza creando nuove prospettive e possibilità seppur nell’esperienza negativa vissuta (crescita post-traumatica). In una parola: Resilienza.

Ma cosa succede se la paura del Covid-19 arriva a colpire chi sta già vivendo una situazione di sofferenza emotiva? Come può manifestarsi la paura nella mente di una persona che ha vissuto traumi e trascuratezza importanti nella sua infanzia, di fronte a questa ennesima emergenza? Proviamo ad esplorare alcuni aspetti emotivi che potrebbero trovarsi coinvolti nella gestione dell’emergenza.

Partiamo dal positivo: “Niente di nuovo sotto al sole.”

Chi è abituato a vivere in guerra, semplicemente continua a combattere. Chi è abituato a vivere una condizione emotiva di stress post-traumatico o di traumatizzazione cronica, con un sistema di difesa quindi costantemente reattivo nella vita quotidiana, potrebbe sentire molta familiarità con alcune situazioni emergenziali e percepire l’allerta in modo molto diverso: talora troppo, talora troppo poco, ma spesso mostrando una maggiore tolleranza dello stress e dell’incertezza. Possono presentarsi dunque alcune risorse positive da tenere in grande considerazione nelle prossime settimane.

  • Il mondo è imprevedibile: chi è cresciuto in una famiglia caotica e non protettiva è abituato a percepire il mondo come arbitrario, a vivere l’ipervigilanza come una condizione emotiva stabile, a non fidarsi delle notizie: per cui l’attuale emergenza potrebbe risultare una condizione molto comune e relativamente facile da gestire.
  • Sono invincibile: la percezione del rischio soggettivo è fortemente condizionata dall’aver vissuto traumi nella prima infanzia e il sistema di difesa rischia di sovrastimare o sottostimare i rischi legati ad una situazione potenzialmente pericolosa; un parte di attacco (fight) potrebbe percepire come del tutto innocua la minaccia di contagio, azzerando così (almeno temporaneamente!) il senso di vulnerabilità e la paura di altre parti più piccole e spaventate.
  • Solo solo: chi si è adattato, sin dall’infanzia, a vivere in solitudine la presenza di persone o situazioni minacciose, potrebbe sentirsi rassicurato di trovarsi in una condizione conosciuta di isolamento, con minor rischio di intrusioni e pericoli esterni, ma non più solo perché la stessa condizione è condivisa con familiari, amici, parenti e (ora) il resto dell’umanità;
  • Devo ottenere il massimo da quello che ho: chi ha dovuto proteggersi sin da piccolo e con pochi mezzi, è naturalmente portato a valutare velocemente le opportunità e le risorse nell’ambiente circostante e a ottimizzare le risorse che ha già, senza soffrire troppo limitazioni, scomodità e rinunce;
  • Confini chiari: chi ha vissuto situazioni relazionali di maltrattamenti e trascuratezza, ha imparato presto che la vicinanza con altri esseri umani può essere difficile da gestire; un sistema sociale che regola il comportamento individuale, le distanze e che invita a proteggersi, può semplificare alcuni aspetti della vita sociale e dare sollievo alle parti che tendono a sentirsi in colpa e a non sentirsi in diritto di “dire di no”.
  • Sono impotente: sentirsi sopraffatti dagli eventi è insopportabile, ma chi l’ha vissuto potrà sentire e capire più velocemente degli altri che aderire alle soluzioni offerte è meglio che essere schiacciati e trovarsi nel non poter reagire affatto;
  • Critico interno: le parti critiche tendono a far sentire sempre attivi, pronti, forti, capaci, all’altezza, ma hanno una tendenza all’autosacrificio e alla competizione talvolta difficili da arginare; in questa fase potrebbero invece ridurre la pressione interna: se non dipende più dalla scelta del singolo, se stare fermi è funzionale alla sopravvivenza, allora potrebbe diventare più facile darsi il permesso di restare in casa, riposare, dedicarsi a sé, stare. Potrebbe presentarsi un inatteso ma piacevole sollievo.

Tuttavia, alcune situazioni specifiche e quotidiane legate alle condizione di “quarantena forzata”, cui tutti siamo sottoposti, potrebbero al contrario diventare trigger molto potenti di antichi traumi o ri-attivare emozioni negative proprio in virtù del legame con alcune esperienze del passato.

“Trigger da quarantena: aiutiamoci!”

  • Sono solo: cosa mi ha insegnato che essere soli è pericoloso? Che l’essere lontano dagli altri può essere fonte di minaccia per la mia sopravvivenza? Chi ha vissuto nell’infanzia troppa solitudine e trascuratezza potrebbe vivere l’isolamento come abbandono; parti piccole ed emotive potrebbero non riuscire a distinguere la condizione temporanea di isolamento, dall’essere soli emotivamente e invisibili a chi ci vuole bene; aiutiamoci a distinguere l’isolamento dalla solitudine: chi potremmo sentire per parlare proprio ora? Cosa potrebbe aiutarci a sentirci più connessi altri altri?
  • Sono in trappola: cosa richiama dentro di noi la sensazione di non poter correre via da quello che ci spaventa? La casa dovrebbe per tutti costituire un luogo protetto, ma il senso di sicurezza come adulti è invece una questione profondamente condizionata dalle esperienze del passato: la sola idea di non avere questa libertà di movimento potrebbe attivare stati di ansia e rabbia molto intensi in chi ha vissuto traumi legati a questo; proviamo ad osservare cosa renda la situazione attuale diversa da quella che abbiamo vissuto in passato, aiutiamoci a dis-identificarci da quelle sensazioni ed emozioni (Fisher, 2017), ma osserviamole per quello che sono: ricordi.
  • Sono impotente: cosa suscita in me l’idea di non poter agire? Di non poter fare nulla contro l’avanzare di un pericolo? Chi è sopravvissuto a traumi che hanno comportato il vivere una o più volte la minaccia per la propria vita, sa che il senso di impotenza può essere insostenibile e la costrizione di queste settimane può essere sentita così da alcune parti emotive che potrebbero rivivere lo stesso senso di impotenza e pericolo; aiutiamo la mente ad orientarsi nel presente: mettiamo spazio tra passato e presente, tra il luogo in cui siamo ora e dove invece eravamo dando ad ogni luogo un nome differente (Fisher, 2017), tra le nostre parti piccole e l’adulto che oggi siamo e che può occuparsene.
  • Non posso mettere confini: come gestiamo l’eccessiva vicinanza o l’intrusione? Chi è vissuto in una famiglia violenta o minacciosa, potrebbe percepire la vicinanza fisica obbligata, con i propri familiari, conviventi o coinquilini, come insostenibile in questi giorni e manifestare sintomi di ansia, somatizzazioni o sconforto/resa di fronte al prolungarsi di questa situazione; proviamo ad orientare l’attenzione su stimoli che possono aiutarci a creare uno spazio mentale interno, libero e sicuro che possa continuare ad accoglierci: grounding, yoga, meditazione, respirare, camminare, scrivere, leggere, disegnare, suonare.
  • Ho paura di morire: la percezione del rischio soggettivo è fortemente condizionata dall’aver vissuto traumi nella prima infanzia e il sistema di difesa rischia di sovrastimare o sottostimare i rischi legati ad una situazione potenzialmente pericolosa; percepirsi vulnerabili, può far sentire ad un parte piccola e spaventata un rischio maggiore o sproporzionato alle effettive condizioni di vita; selezioniamo per la mente poche informazioni affidabili, valutiamo i rischi effettivi e le azioni intraprese per proteggerci, confrontiamoci con poche persone fidate e capaci di rassicurarci.
  • Sono fuori controllo: cosa ci aiuta a regolare le nostre emozioni? Come ci fa sentire non avere disponibile quello che di solito ci aiuta quando a fine giornata siamo tesi, tristi, arrabbiati? Molte risorse, normalmente utilizzate nella vita quotidiana possono essere vissute come risorse di sopravvivenza, in assenza delle quali potrebbero aprirsi non solo semplice noia, ma più intense emozioni di paura, rabbia, colpa o vergogna. Come posso sostituire quello che mi aiutava? Proviamo ad essere curiosi e creativi, lasciamo andare quello che non abbiamo ora e cerchiamo risorse nuove che possano andare incontro agli stessi bisogni di conforto, regolazione, rassicurazione, distrazione. O se possiamo, lasciamo spazio e osserviamo per quel che è possibile, cosa emerge se smettiamo di agire e cercare soluzioni.

Probabilmente non ci saranno ricette valide per tutti, ma nelle prossime settimane sarà importante per ognuno riuscire a riconoscere i pensieri e le emozioni che potrebbero ingannarci, darsi tempo e spazio per costruire e rafforzare risorse interne e mettere al centro la cura di sé finalmente al riparo dal rumore delle città. Affidiamoci ad un adulto dentro di noi capace di proteggersi e di ascoltare le emozioni naturali che verranno senza esserne sopraffatto, e magari disponibile a farci vivere questo tempo – per tutti strano – in un modo che sarà bello raccontare in futuro.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Porges, S.W. (2004). Neuroception: A Subconscious System for Detecting Threats and Safety. Zero to Three, 5, 19-24.
  • Porges, S.W. (2001). The polyvagal theory: phylogenetic substrates of a social nervous system. International Journal of Psychophysiology, 42:123-146.
  • Janina Fisher (2017), Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico, Raffaello Cortina Editore.
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