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Disimparare la paura con l’aiuto della mindfulness

Lo studio si è proposto di indagare se la mindfulness possa costituire l’alleato ideale nel trattamento delle fobie e dei disturbi di natura traumatica

Di Giulia Samoré

Pubblicato il 24 Gen. 2020

La forza specifica della Mindfulness sembrerebbe risiedere nella capacità di alterare sia fisicamente che funzionalmente le connessioni tra le strutture cerebrali coinvolte nell’espressione della paura e nell’apprendimento dell’estinzione, come rivelato da svariati studi di neuroimaging.

 

La sintomatologia ansiosa, così come quella legata al trauma, rappresentano ad oggi due delle sfide principali nella clinica contemporanea su scala globale (Baxter et al., 2014).

È facile immaginare come nell’evoluzione di molte specie, tra le quali la nostra, la paura possa aver avuto un ruolo fondamentale: se infatti l’incolumità dell’individuo rappresenta il primo imperativo per la conservazione a lungo termine della specie, imparare cosa possa essere pericoloso per la sopravvivenza diventa, letteralmente, di vitale importanza. Tuttavia, se imparare a distinguere una minaccia è una dote adattiva necessaria alla sopravvivenza, talvolta l’esperienza di un evento negativo viene indissolubilmente legata ad uno stimolo altrimenti neutro, condizionando la risposta dell’individuo ogniqualvolta si troverà esposto a tale stimolo, da ultimo lasciandolo in balia di emozioni di paura e ansia difficili da spiegare e ancora più difficili da contrastare.

È questo il caso delle fobie, nelle quali la naturale risposta fisiologica di paura e la conseguente risposta comportamentale di freezing o di evitamento risultano sproporzionate alla reale minaccia, o divengono talmente pressanti ed automatiche da inibire qualsiasi alternativa, cronicizzandosi e divenendo talvolta invalidanti. L’apprendimento di tale associazione coinvolge diversi circuiti neurali che convergono nell’amigdala, struttura coinvolta nel consolidamento emotivo della memoria e nella conseguente risposta di paura. Diversi studi di neuroimaging hanno potuto confermare come la sintomatologia ansiosa sia accompagnata da un incremento dell’attivazione nel circuito che include appunto l’amigdala, l’insula anteriore, la corteccia cingolata dorsale anteriore e parti dorsali del mesencefalo, la cui magnitudine di attivazione poteva predire la risposta condizionata allo stimolo (Fullana et al., 2016).

Il trattamento d’elezione proposto per questa problematica è di stampo Cognitivo-Comportamentale e prevede dei protocolli di esposizione allo stimolo volti alla desensibilizzazione; la base teoretica su cui poggia questo tipo di terapia è l’apprendimento dell’estinzione. Esponendo il soggetto allo stesso stimolo che ha originariamente generato la risposta di paura, in un nuovo contesto e con la possibilità di modulare la propria risposta ansiosa, si viene quindi a rompere l’associazione automatica tra quello stimolo ed un esito negativo, aprendo la possibilità di apprendere nuove strategie comportamentali più adattive. Studi sugli umani, così come sugli animali, hanno evidenziato come questo nuovo apprendimento sia reso possibile grazie all’azione della porzione ventromediale della corteccia prefrontale (vmPFC) e dell’ippocampo, che a seguito del processo di estinzione agiscono sull’amigdala sopprimendo la risposta appresa di paura (Fullana et al., 2018; Greco &Liberzon, 2016).

È stato dimostrato come in assenza di estinzione, l’associazione originaria rimanga attiva, ripresentando la stessa risposta condizionata anche a distanza di molto tempo o in contesti differenti; inoltre, nei pazienti affetti da disturbi d’ansia o legati al trauma, sono compresenti pattern di attivazione anomala delle strutture cerebrali coinvolte, nonché un deficit nell’apprendimento dell’estinzione stessa e nel suo mantenimento (Graham & Milad, 2011; Wicking et al., 2016). Per questo motivo, interventi che abbiano come target specifico l’apprendimento dell’estinzione potrebbero massimizzare i risultati delle terapie che si occupano di questa problematica.

Uno studio condotto da Björkstrand e colleghi (2019) si è proposto di indagare se la Mindfulness possa costituire l’alleato ideale nel trattamento delle fobie e dei disturbi d’ansia: questa pratica meditativa ha infatti già dimostrato i propri effetti positivi come coadiuvante in diversi tipi di terapia, accrescendo il livello di attenzione e la capacità di regolazione delle emozioni nei suoi praticanti. Tuttavia, la sua forza specifica sembrerebbe risiedere nella capacità di alterare sia fisicamente che funzionalmente le connessioni tra le strutture cerebrali coinvolte nell’espressione della paura e nell’apprendimento dell’estinzione, come rivelato da svariati studi di neuroimaging (Hölzel et al., 2016; Tang, Hölzel, & Posner, 2015): le dimensioni e il livello di attivazione dell’amigdala sono risultate inferiori dopo un training di Minfulness, mentre l’attività dell’ippocampo risultava in aumento; le connessioni funzionali tra la corteccia prefrontale e l’amigdala risultavano alterate e accompagnate da una maggiore attivazione corticale, inoltre risultava aumentata la connettività strutturale tra la porzione ventromediale della corteccia prefrontale (vmPFC) e l’amigdala che, come abbiamo già detto, è fondamentale nell’apprendimento e mantenimento dell’estinzione.

Il campione sperimentale, composto da soggetti clinicamente sani, è stato assegnato casualmente ad uno di due gruppi, il primo che avrebbe seguito un training di Mindfulness della durata di 10-20 minuti quotidiani nell’arco di quattro settimane, grazie ad un’applicazione disponibile per smartphone (Headspace), il secondo avrebbe costituito il gruppo di controllo, non ricevendo alcun training.

Poi, in seguito all’apprendimento dell’associazione mediante un classico condizionamento aversivo Pavloviano, in cui uno stimolo neutrale (in questo caso l’immagine di quadrati di diverso colore) veniva sistematicamente associato alla somministrazione di una leggera scossa elettrica, vi era una prima fase di estinzione, ottenuta ripresentando gli stessi stimoli, questa volta disgiunti dalla scossa elettrica. Il giorno seguente veniva poi proposta una seconda sessione di estinzione per valutare il potenziale effetto del tempo trascorso (24h) sul mantenimento della stessa.

L’ipotesi principale, ovvero che la Mindfulness abbia un effetto mirato sul mantenimento dell’estinzione, è stata verificata ottenendo un indice del recupero spontaneo, ovvero sottraendo l’indice di conduttanza cutanea relativa all’ultima sessione di estinzione del primo giorno all’indice di conduttanza riscontrato nella prima sessione di re-estinzione nel secondo giorno: in altre parole verificando quanti ‘passi indietro’ in termini di attivazione fisiologica della paura fossero stati fatti durante la notte, tornando ad avere una reazione intensa alla nuova presentazione dello stimolo.

Gli autori non hanno riscontrato differenze significative tra i due gruppi in termini di apprendimento dell’estinzione, entrambi cioè disimparavano con la stessa facilità l’associazione tra lo stimolo e l’assenza di scossa elettrica, tuttavia, solo il gruppo che non aveva partecipato al training di Mindfulness riportava la presenza di recupero spontaneo, confermando l’ipotesi iniziale che potesse esservi un effetto specifico sul mantenimento dell’estinzione.

Con le dovute limitazioni, questo studio contribuisce a validare l’apporto della Mindfulness con potenziali implicazioni per la clinica rivolta alle fobie ed ai disturbi di natura traumatica, che potrebbero certamente giovare dell’inserimento di questa disciplina come coadiuvante nel contesto dei protocolli già esistenti, o divenire la base per interventi specifici mirati a contrastare il recupero spontaneo delle associazioni disfunzionali apprese.

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