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Emotional schema therapy: una lettura d’insieme

Leahy individua quattordici dimensioni di schemi emotivi, facendo per ognuno di essi una valutazione in termini di pro e contro, vantaggi e svantaggi

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 21 Nov. 2019

Secondo l’ Emotional Schema Therapy gli schemi emotivi, oltre a permetterci di concettualizzare emozioni ed esperienze, contengono credenze, sensazioni, disposizioni comportamentali e stili interpersonali che generano teorie implicite capaci di guidarci..

 

L’emozione porta con sé una costruzione socio-cognitiva dell’esperienza, dall’espressione alla regolazione emotiva. Proprio per questo si può ipotizzare uno schema attraverso cui ognuno di noi concettualizza le emozioni e tutta l’esperienza emotiva: il modo in cui esse si manifestano, cosa ci portano a pensare, a fare e come le regoliamo. Questi si chiamano “schemi emotivi” (Greenber, 2002) e contengono credenze, sensazioni, disposizioni comportamentali, stili interpersonali. Nel tempo vari autori hanno utilizzato varie etichette; ad esempio Linehan li chiama “miti emotivi” e Gottman “filosofie delle emozioni” (Gottman, Katz, Hooven, 1997).

Quando Leahy descrive l’Emotional Schema Therapy (EST) nel suo capitolo 12 del libro Trattamento integrato per i disturbi di personalità. Un approccio modulare (Livesley, Dimaggio, Clarkin, 2017), parte riagganciandosi alla teoria metacognitiva di Wells (Wells, 2012). Ne conosciamo bene i presupposti: fondamentalmente ciò che conta non è il contenuto dei pensieri (a cui Beck era tanto affezionato) quanto il processo, il modo in cui pensiamo ed il modo in cui trattiamo i nostri stessi pensieri. Le credenze metacognitive positive e negative fanno il loro gioco preparando il terreno a ruminazioni e rimuginii che a loro volta giustificano i sintomi depressivi o ansiosi. Ecco perché la terapia di Wells ha collezionato una serie di evidenze a favore del trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, della depressione, del disturbo ossessivo compulsivo, del disturbo da stress post-traumatico. Per fare questo, detached mindfulness e training attentivi sono la panacea di tutti i mali. Ma se c’è un aspetto importante che si nota in Wells è relativo alla concettualizzazione, al modo in cui spiega come si esplica la sindrome cognitivo-attentiva (CAS) che spinge a focalizzarsi troppo sul contenuto dei pensieri e su quello che essi rappresentano.

Sulla scia della teoria di Wells, Leahy (Leahy, 2002, 2003) sviluppa il modello dello schema emotivo. Proprio come per i pensieri, anche per le emozioni ognuno di noi ha e rinforza continuamente una propria teoria implicita, evidente da pensieri tipo “dalla tristezza non ne esco”, “la rabbia fa perdere il controllo”, “la vergogna è da bannare”. Fortunatamente l’autore coglie l’aspetto non sempre universale dell’esperienza emotiva la quale è, invece, storicamente e culturalmente condizionata. Ad esempio, la vergogna e la colpa sono emozioni che differenziano molto la cultura occidentale da quella orientale, l’urbanizzazione ci ha condotto verso emozioni sempre più complesse ed il modo in cui esse vengono espresse e condivise differenzia di molto etnie sparse nel mondo, per non parlare di come esse si siano diversificate nelle varie epoche storiche. Anche lo stile educativo e l’attaccamento che ne segue, ha una certa quota di responsabilità in questo senso. Resta l’indubbia base biologica ed evolutiva delle emozioni che lasciano poi molta variabilità alle variabili storiche, individuali e socio-culturali rispetto al modo in cui esse debbano essere vissute ed espresse e che si consolidano in miti, schemi, filosofie, ecc. Queste differenze, giustificano ovviamente anche l’estrema varianza nella psicopatologia. Basti pensare alla grande dicotomia tra pazienti inibiti-coartati e quelli disregolati che si differenziano in base alle strategie di regolazione emotiva adottate.

Gli schemi emotivi sono l’insieme delle credenze, spiegazioni, valutazioni e strategie sulle proprie e altrue emozioni e giustificano le reazioni di diverse persone di fronte allo stesso evento. Rappresentano le meta-credenze in merito alle cause, alla legittimità, alla normalità, alla durata e alla tollerabilità delle emozioni proprie e altrui. Gli obiettivi della EST sono relativi al miglioramento dell’elaborazione dell’emozione, aumentando la tolleranza e diminuendo la messa in atto di strategie che possono amplificarle o rinforzarle come il worry, la ruminazione oppure strategie comportamentali come l’uso di sostanze. Ma ognuno di questi coping è mantenuto da uno schema emotivo del tipo “solo bevendo posso controllare la mia tristezza” oppure “solo abbuffandomi lenisco la mia paura”. Per ottenere un miglioramento rispetto al modo in cui il paziente vive le proprie emozioni, si evidenziano e modificano le meta-credenze rispetto alle proprie emozioni e i coping che ne derivano senza entrare nel merito del contenuto dei pensieri (in tal senso, è chiara l’influenza di Wells) così da poter accettare e sperimentare in modo funzionale ogni tipo di emozione anche quelle che sembrano soverchianti o che appaiono incomprensibili o interminabili e perfino poco gestibili.

Leahy ha individuato quattordici dimensioni di schemi emotivi tra cui l’invalidazione, l’autoinvalidazione, la durata, la perdita di controllo, ecc. Per ognuna di esse pare che si faccia una valutazione in termini di pro e contro, vantaggi e svantaggi e questo sembra essere un po’ riduttivo considerando che spesso credenze e strategie di regolazione emotiva sono acquisite per apprendimento, a volte vicario, e sono rinforzati da eventi di vita, spesso di natura interpersonale. Eppure, questi eventi, sembrano essere poco contemplati mentre sappiamo quanto questo possa essere importante per favorire processi di differenziazione. Mi riesce difficile immaginare che un paziente dipendente abbandoni la sua strategia semplicemente ragionando sul “se mi appoggio sempre agli altri, continuerò a sentirmi incapace”. Lo stesso tipo di lavoro pare sia possibile rispetto alle credenze: dopo una specie di dialogo socratico il paziente comprende che non deve sentirsi in colpa se prova paura prima dell’esame, non deve vergognarsi dell’ansia appena il professore lo chiama per sostenere la prova o che, meglio ancora, non esistono emozioni giuste o sbagliate, buone o cattive ma che esse rappresentano tutte un ventaglio possibile dell’esperienze emotive umane. Bene, giustissimo. Eppure, nonostante questo, io stessa mi dico che arrossire allo sportello della posta oppure al cameriere a cui ordino è una cosa strana. Tuttavia di dialoghi socratici sulla vergogna ne ho fatti eccome!

Pare quindi che il modello parta come un modello meta-esperienziale e culmini con l’utilizzo di tecniche e strategie prettamente cognitive per lavorare sulle varie convinzioni circa lo schema emotivo e questo dovrebbe condurre alla modifica di pattern cognitivi e comportamentali, ovviamente anche “meta”, delle emozioni.

Mi chiedo poche cose, però me le chiedo?

  1. E la componente incarnata delle emozioni? Il corpo, insomma, dove sta?
  2. E i contenuti interpersonali? Dove sta la concettualizzazione rispetto al perché di fronte a determinate situazioni proviamo sempre determinate emozioni e compiamo, di conseguenza, sempre le stesse azioni?

Le stesse osservazioni valgono per il modello wellsiano, studiato, conosciuto e applicato da molti di noi nelle nostre sedute. Sappiamo che funziona, certamente, fin quando non incappiamo in grandi aspetti che riguardano il funzionamento umano: le emozioni, il corpo, la relazione con gli altri.

Leahy supera il limite intrinseco della teoria metacognitiva di Wells addentrandosi nel campo delle emozioni. Saggia, però, l’affermazione dello stesso autore secondo cui la EST deve essere integrata con altre tecniche e terapie. Questo appare giusto considerando che i pazienti con disturbi di personalità, soprattutto, sperimentano molto spesso problemi in relazione alle proprie emozioni, sia nella componente espressiva che regolatoria perché hanno schemi maladattivi interpersonali che li fanno soffrire. È però la compente interpersonale che spiega perché un paziente soffre di fronte a determinate situazioni oppure perché considera intollerabile ad esempio la tristezza e non la vergogna. C’è una complessità che non è vista dalla EST e che risiede nella rappresentazione che il paziente ha di sé stesso e degli altri. Una rappresentazione nata e costruita in una determinata storia di vita.

Insomma, le stesse limitazioni del modello di Wells le ritroviamo anche in Leahy. Ciò non toglie che in entrambi i casi ci siano molte prove a sostegno dell’efficacia dei modelli; ad esempio, recentemente, sono stati pubblicati dati relativi all’applicazione del trattamento metacognitivo coi pazienti borderline.

Fortunatamente viviamo in una epoca di integrazione che ci salva dalle varie limitazioni dei vari modelli e che ci permette di arricchire le nostre terapie plasmandole sulla soggettività del paziente che ci troviamo a trattare. Inoltre un altro elemento non scontato è legato alla relazione terapeutica, anch’essa in ombra nel modello di Leahy eppure è indispensabile in un lavoro in cui, come un chirurghi, apriamo, tagliamo, cuciamo elementi delicatissimi, proprio perché legati alle emozioni. Ma questo, evidentemente, è ad appannaggio di un lavoro d’insieme complesso, costruttivo, relazionale, impossibile da limitare alla sola tecnica.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Greenberg, L.S. (2002). Emotional-focused therapy: coaching clients to work throught their feelings, American Psychological Association, Washington.
  • Gottman, J.M., Katz, L.F., Hooven, C. (1997). Meta-Emotion: how families communivaticate emotionally. Erlbaum, Mahwah
  • Leahy, R.L. (2002). A model of emotional schemas. In Cognitive and behavioral practice, 9, 3, pp.177-190
  • Wells, A. (2012).  Terapia metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione. Firenze: Eclipsi.
 
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