Sono incappata seguendo The Browser in un articolo che mi ha molto colpito: “The forgotten part of memory” di Lauren Gravitz, su Nature Outlook. E questo mi ha permesso di ragionare con Mattia Ferro, un neuroscienziato della nostra Università e di discuterne le implicazioni in clinica, per ora solo abbozzate. Riassumo l’articolo per poi fare qualche ipotesi utile a noi clinici.
Dimenticare come processo attivo della memoria
In questo articolo si sostiene che l’atto del dimenticare, dello scordare, che era stato spesso considerato un atto di decay, un processo passivo come “lo sbiadire graduale di una fotografia al sole” potrebbe essere invece un meccanismo attivo del cervello utilissimo per l’adattamento e sembra che in tutti gli animali lo standard potrebbe essere la perdita della memoria piuttosto che la sua persistenza. I luoghi dello storage della memoria sono diversi, ma le memorie autobiografiche iniziano a stabilizzarsi nell’ippocampo nelle ore o giorni dopo gli eventi. I neuroni comunicano tra di loro attraverso sinapsi, migliaia di sinapsi per ciascun neurone e la plasticità sinaptica consiste proprio nel loro rimodellamento continuo attraverso il rinforzo o l’indebolimento di tali connessioni. Questi network consolidati di cellule servono tra le tante cose a codificare la memoria, o per meglio dire i diversi ricordi (i neuroscienziati chiamano queste organizzazioni mnestiche “engrammi”). Più una memoria viene richiamata più si rafforza una determinata rete. Nel tempo le tracce mnesiche si stabilizzano sia nell’ippocampo che nella corteccia (quest’ultima è la probabile tappa di immagazzinamento finale degli engrammi).
Poco si è lavorato sulla comprensione dei meccanismi della dimenticanza. “Tutti gli esseri viventi dimenticano, se qualsiasi organismo può apprendere una lezione dall’esperienza la può anche dimenticare” sostiene Michael Anderson della Università di Cambridge. Probabilmente è difficile imparare se non si riesce anche a dimenticare. Ron Davis nel 2012, studiando i moscerini della frutta, per primo ha scoperto l’evidenza che il dimenticare fosse un processo attivo. Davis, un neuroscienziato dell’istituto di ricerca Scripps a Jupiter, in Florida stava studiando la complessità della formazione della memoria in alcuni gruppi di neuroni del moscerino, interessato a comprendere l’influenza dei neuroni che producono dopamina, un neurotrasmettitore modulatorio sia su altri sistemi neurotrasmettitoriali sia su determinati comportamenti. E questo sia nei mammiferi che nel moscerino, (ad esempio svolgendo un ruolo determinante nei processi di gratificazione o reward). Davis ha scoperto che la dopamina è essenziale nel dimenticare. Ha condizionato dei moscerini transgenici, in cui era possibile attivare selettivamente gruppi di neuroni dopaminergici, ad associare shock elettrici con alcuni odori, abituando gli insetti ad evitarli. Poi, attivando i neuroni dopaminergici gli scienziati si sono resi conto che i moscerini tendevano a dimenticare molto rapidamente l’associazione shock-odore. Bloccando gli stessi neuroni la memoria rimaneva intatta. Sembra che questi neuroni dopaminergici rimangano attivi a lungo, almeno nei moscerini. “Il cervello cerca sempre di dimenticare le informazioni che ha appena imparato“.
Esperimenti simili sono stati condotti nei ratti alcuni anni dopo investigando cosa accade alle sinapsi dei neuroni coinvolti nello storage della memoria a lungo termine. La stabilizzazione delle memorie dipende dal rafforzamento delle connessioni sinaptiche tra i neuroni, tramite un processo neurofisiologico denominato “potenziamento a lungo termine”. Il rafforzamento di questa connessione deriva (anche) da alcuni tipi di recettori presenti nelle sinapsi chiamati AMPA, l’inserzione nella sinapsi di nuovi recettori AMPA fa sì che la connessione sinaptica tra cellule nervose si stabilizzi e venga mantenuta elicitando l’apprendimento e mantenendo intatta una memoria. Ma questi recettori non sono stabili e il loro numero oscilla continuamente. Nel laboratorio di Hardt si è visto che vi sono meccanismi molecolari specifici atti all’espressione continua dei recettori AMPA nelle sinapsi. Ma nonostante ciò, alcune memorie vengono dimenticate lo stesso. L’autore quindi ipotizza un processo attivo del dimenticare che si esplicita tramite la rimozione di questi recettori. Quando invece Hardt e colleghi hanno bloccato il meccanismo alla base della rimozione dei recettori AMPA nell’ippocampo dei ratti, si sono resi conto che gli animali non dimenticavano più la posizione di alcuni oggetti. Per dimenticare occorreva un processo attivo che si occupasse di distruggere le connessioni delle sinapsi. Hardt concluse che dimenticare, più che un fallimento della memoria è una delle tante funzioni della memoria.
Anche Paul Frankland, un neuroscienziato dell’ospedale pediatrico di Toronto, ha trovato alcuni dati a conferma della tendenza a perdere ricordi come processo attivo. Il ricercatore stava studiando la neurogenesi di alcuni neuroni nel topo adulto, per molto tempo si è pensato che la neurogenesi avvenisse solo negli animali giovani, solo poco tempo prima si era scoperto che invece avveniva anche nell’animale adulto. Frankland si è chiesto se aumentando la neurogenesi in un topo adulto, si sarebbe potuto aumentare la capacità dei ratti di ricordare, aspettandosi proprio questo risultato. In realtà trovò proprio l’opposto: aumentando la neurogenesi i topi dimenticavano di più. Questo dato fa pensare che una volta che i neuroni si sono integrati nell’ippocampo adulto essi si integrano in un circuito già esistente con un suo equilibrio. Se si comincia a riscrivere sull’informazione esistente (tramite continua neurogenesi), l’accesso a questa informazione diventerà più complicato.
La funzione di questa tendenza è probabilmente di sopravvivere in un mondo costantemente in trasformazione e di adattarsi a nuove situazioni e poiché l’ippocampo non rappresenta il “luogo” nel cervello dove le memorie a lungo termine vengono immagazzinate stabilmente (bensì la corteccia cerebrale) se le nuove informazioni vanno a coprire dinamicamente o sostituiscono le vecchie questo non costituirebbe un difetto ma un vantaggio che aiuterebbe l’apprendimento proprio perché la riscrittura di nuove informazioni su quelle vecchie rappresenterebbe un adattamento continuo alla dinamicità delle informazioni sull’ambiente circostante.
Per quanto riguarda il cervello umano, Blake Richards dell’Università di Toronto Scarborough, sostiene che la nostra capacità di affrontare esperienze nuove ha a che fare con una tendenza controllata a dimenticare. Il rischio, se non ci fosse questa capacità, sarebbe quello di un sovraffollamento, o di sovradattamento, un termine che in intelligenza artificiale indica un modello matematico cosi ben strutturato per affrontare i problemi per cui è programmato che diviene inabile a predire ciò che è imprevisto. Un ricordo troppo minuzioso e dettagliato di un evento anche traumatico potrebbe impedire di trarre conclusioni generali e utili per evitare in futuro eventi simili. Dimenticare dettagli aiuterebbe infatti a ritenere l’essenziale.
Ci sono studi interessanti su persone con memoria autobiografica iper-sviluppata (HSAM) che dimostrano che questi individui, capaci di ricordare mostruosi dettagli di eventi della loro vita, tendono a non essere particolarmente stabili e realizzati e più inclini all’ossessività. Come sostiene Brian Levine, un neuroscienziato cognitivo del Rotman Research Institute at Baycrest Health Sciences di Toronto: “è esattamente ciò che ti aspetti da qualcuno che non riesce a staccarsi da istanze specifiche” Sembra che persone con l’opposto problema, una difficoltà a ricordare i particolari delle memorie autobiografiche, siano particolarmente brave a risolvere problemi astratti probabilmente perché non appesantiti dai dettagli. Anderson con il suo gruppo, utilizzando tecniche innovative (risonanza magnetica e spettroscopia), ha cercato di analizzare il funzionamento dei cervelli di soggetti sani, indagando i livelli del neurotrasmettitore inibitorio GABA (acido aminobutirrico) nell’ippocampo. Si è notato infatti in soggetti che tentavano di liberarsi di alcuni pensieri (e che forse mettevano in atto strategie anti-rimuginio o tentativi di abbandonare il rimuginio) che più era alto il livello di GABA più le regioni della corteccia prefrontale sopprimevano l’attività dell’ippocampo, e questo comportava una abilità maggiore a dimenticare.
L’atto del dimenticare come processo attivo e funzionale della memoria: considerazioni cliniche
Ma quali possono essere le implicazioni cliniche? Innanzitutto questi studi potrebbero spiegare il funzionamento delle benzodiazepine. La corteccia prefrontale comanderebbe all’ippocampo di inibire un pensiero attraverso il rilascio diretto o indiretto di GABA. Il ruolo cruciale del GABA nel sopprimere pensieri indesiderati potrebbe essere utile per comprendere meglio sia le fobie che i pensieri ossessivi, così come alcuni sintomi della schizofrenia e della depressione Il fatto che questi tentativi riescano o meno al soggetto, indipendentemente dalla strategia utilizzata consapevolmente o meno (come la capacità di certi fortunati soggetti di “stare senza pensieri” o ancora i tentativi di ignorare o sopprimere deliberatamente i pensieri che molto spesso mettiamo in atto quando accadono eventi spiacevoli) potrebbe quindi dipendere dal funzionamento della circuiteria GABAergica.
Alla luce di questi studi possiamo chiederci a cosa serve la memoria? e la memoria autobiografica? Noi diamo in generale molto valore ai dettagli della nostra memoria autobiografica, alla vividezza del ricordare, ma potrebbe essere un errore secondo Hardt. La funzione della memoria deve essere soprattutto adattiva, deve permetterci di conoscere il mondo e di aggiornare questa conoscenza mano a mano che viviamo. Per fare questo occorre costantemente lasciare i ricordi per strada. Molti sintomi come la ruminazione depressiva, i flashback traumatici, i pensieri intrusivi, e le difficoltà a controllare i pensieri, potrebbero, come suggeriscono le ricerche, derivare da un ippocampo iperattivo. Ciò potrebbe rappresentare un elemento transdiagnostico, ancora poco studiato e conosciuto in clinica. Anche il PTSD, è in fondo un problema del dimenticare.
Sarebbe interessante applicare queste moderne conoscenze derivanti da studi sulla memoria in area neuroscientifica, per aiutare le persone a dimenticare meglio. In clinica molto si è studiato e investito in tecniche per ricostruire, associare, analizzare ricordi dolorosi della vita dei nostri pazienti. Ma vi è la possibilità che queste tecniche ricostruttive abbiano anche qualche problema, ad esempio potrebbero mantenere la ruminazione e l’attenzione sugli elementi dolorosi, non permettendo alla memoria di fare il suo corso, che è spesso quello di aprire spazi per l’adattamento a situazioni nuove, alla sovrascrittura.
Questi studi potrebbero rafforzare i modelli clinici che si muovono nella direzione del lasciare andare i pensieri negativi occupandosi di altro, come ad esempio la Terapia Metacognitiva (MCT, Wells, 2009), e se questo fosse vero, gli aspetti interessanti dell’EMDR non sarebbero gli quelli di costruzione di risorse e di comprensione evolutiva ma proprio gli aspetti dei movimenti oculari che potrebbero funzionare da distrazione e aiutare la cancellazione di memorie difficili da lasciare andare perché dolorose (un recente articolo di Nature ha visto che i movimenti oculari del tipo EMDR in ratti causerebbero il rilascio di GABA nei circuiti collicolo-talamici). Anche la perdita di memoria nell’anziano potrebbe avere una funzione adattiva: rispetto alla riduzione dei neuroni sarebbe conveniente lasciare andare via più memorie del presente, che sono più impegnative da immagazzinare, tenendo viva l’attenzione alle informazioni salienti del presente (attraverso una specie di continuo cut and paste) o mantenendo le memorie già saldamente e da tempo stabilizzate in corteccia. Anche le tecniche di intervento tipo MCT (Metacognitive therapy) si muovono proprio nella direzione di impedire, tramite spostamento di attenzione, la stabilizzazione dei pensieri negativi in memorie non utili per il presente.
Mi sembra che la visione che questo pur sintetico articolo di Nature vada in direzione funzionalista, vedendo tutti i sistemi viventi come sistemi impegnati continuamente a valutare i propri livelli di adattamento al presente.