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I malati di mente e la morte pubblica – Una riflessione a partire dal caso di Noa Pothoven

La morte di Noa Pothoven non può che spingerci a riflettere sui significati dell'esperienza della morte pubblica all'interno della società.

Di Paolo Azzone

Pubblicato il 10 Giu. 2019

Di fronte al caso della morte di Noa Pothoven e all’effetto mediatico che ha avuto, come professionisti della salute mentale non possiamo tacere! Anzi, è importante che difendiamo un modello di intervento attivo a tutela della salute mentale.

 

La morte di Noa Pothoven, una ragazzina di 17 anni, suscita un’emozione intensa. È facile reagire in modo istintivo, identificare in modo un po’ paranoico avversari politici e sociali. Occorre invece contenere o comunque sospendere l’esperienza soggettiva di un confronto con le forze del male, l’impulso a dichiarare guerra alle forze politiche e sociali che propugnano e diffondono la morte come risposta ai drammi della vita umana. Per questo ci sono e ci saranno altri luoghi (politici e culturali) ed altri tempi (la lunga durata della storia, non certo l’istante della cronaca)

Voglio invece qui attenermi ad una riflessione per quanto possibile razionale e civile ispirata ai principi delle scienze umane (sociologia, antropologia culturale) e della branca della psicologia nel cui alveo mi sono formato, cioè la psicoanalisi.

Morte pubblica: una lettura psicoanalitica del caso di Noa Pothoven

La morte pubblica ha avuto sempre un ruolo centrale nell’organizzazione delle culture umane. Nel mondo Greco storico i sacrifici umani sono un ricordo. Come osserva René Girard (La violenza e il sacro) una vittima umana è al centro dei miti eziologici della maggior parte dei sacrifici animali a noi noti nel sistema rituale Greco. Dai romanzi arturiani sappiamo che il sangue di Merlino era destinato a risanare le sempre precarie fondamento della fortezza di re Vortigern. Il vate britannico seppe sottrarsi a questa prova. È invece l’Altissimo in persona a porre fine per sempre ai riti omicidi agli albori della storia ebraica.

Sacrificano ancora massivamente i celti di epoca storica. Cesare racconta come i galli riempissero di prigionieri enormi simulacri di figure divine per poi ardere spietatamente uomini e fantocci. Dai primi conquistadores della americhe (cfr. Bernal del Castillo, La verdadeae historia de la conquista de la Nueva España). Sappiamo che le piazze delle principali città dell’attuale Messico ospitavano immensi cumuli di teschi. Le macabre procedure sacrificali adottate dai popoli amerindi sono ben note al pubblico per note trasposizioni cinematografiche.

Gli europei inorridivano e tuttora inorridiscono di fronte a questi riti selvaggi. Ma le uccisioni pubbliche sono continuate fino ad una storia recente. Del resto i romani amavano le sanguinose lotte tra gladiatori. Un patibolo ornava ovunque le piazze di ogni città medievale. La laicissima Parigi rivoluzionaria appagava un pubblico curioso ed entusiasta con offerte di teste nobili e fiumi di sangue blu. Morte pubblica e ancor più sacralizzata attendeva eretici, musulmani ed ebrei al termine dell’auto da fe della Spagna controriformista.

In tutte le culture l’omicidio pubblico ha svolto un ruolo molto rilevante. Burkert (Homo Necans: Interpretationen Altgriechischer Opferriten und Mythen) parla di homo necans, di un bisogno umano di uccidere a cui la società trova una risposta ritualizzata. Il problema delle origini dell’aggressività umana è stato a lungo dibattuto in ambito psicoanalitico. L’antropologia freudiana è dominata inizialmente dal principio del piacere. La scoperta dell’intensità dei desideri aggressivi in concomitanza con il dramma della prima guerra mondiale lo porta ad ipotizzare un istinto specifico che giustifichi i comportamenti aggressivi (Al di là del principio di piacere). Questo modello avrà molta influenza sul modello kleiniano della mente inconscia.

Psicoanalisti più attenti alle problematiche sociali proporranno invece nel dopoguerra modelli in cui l’aggressività umana è interpretata come una reazione in qualche modo inevitabile alle tensioni e a conflitti sociali (Fromm, Anatomia della distruttività umana). Più modernamente possiamo oggi concettualizzare il sadismo come un modo per negare e proiettare nella vittima i sentimenti di impotenza e disagio che sono ampiamente diffusi nella società e negli individui. In sintesi, l’uomo medio è carico di frustrazione e rabbia e gode di situazioni sociali in cui altri sperimentano emozioni negative in cui può gradevolmente identificarsi.

Questi meccanismi sono naturalmente attivi oggi come ieri, in tutti i climi ed in tutte le latitudini. Perché allora la morte pubblica declina progressivamente? In effetti nel corso dell’800 compare una sorta di pudore. Nei paesi più illuminati si cercano nuove forme di supplizio. Le procedure assumono forme meno clamorose, compare un’esplicita preoccupazione per il dolore delle vittime. Le esecuzioni vengono via via sottratte alla curiosità diretta delle masse. Si svolgono in luoghi appartati. Nel ‘900 la pena di morte va rarefacendosi. Nel dopoguerra scompare del tutto in Europa occidentale.

Senza dubbio a questo processo ha contribuito in modo rilevante l’orrore per l’autorità. Il secolo scorso è stato segnato da un autentico orrore per qualsiasi manifestazione di un paternalismo fallico. La rappresentazione moderna dello stato castrato ed impotente è incompatibile con l’esecuzione di pene severe e inflessibili.

Eppure l’uomo ha ancora sete di morte. Nel passato recente vari governi tirannici hanno spento milioni di vite umane al di fuori di qualsiasi scontro civile o bellico. I nomi di Stalin, Hitler, Pol Pot fanno gelare il sangue a chiunque possieda un po di umanità.
Proprio nell’ambito del nazismo i progetti di sterminio si sono estesi a disabili e malati di mente. A quell’epoca l’eliminazione fisica di queste sottopopolazioni veniva propagandata ed attuata con prevalente finalità sociale. Occorreva liberare la società dai membri inadatti o pericolosi. Da qualche decennio l’uccisione dei soggetti con problemi psichiatrici viene proprio con finalità differenti. Si invoca l’analogia con i pazienti oncologici terminali. Ci si ammanta di desiderio filantropici. Ci si preoccupa di liberare i pazienti da inutili sofferenze.

Credo che in questo momento siamo tutti chiamati a difendere i diritti dei nostri malati. Non tutti i pazienti con impulsi suicidari possono essere salvati. il caso della povera Noa Pothoven era senza dubbio molto impegnativo. È davvero difficilissimo comunicare con certe gravi anoressiche. Ma qualsiasi psichiatra con una certa esperienza sa che un intervento in ambiente per acuti è quasi sempre in grado di sottrarre un paziente ad un immediato rischio suicidario. E che un prolungato inserimento in un ambiente comunitario, anche se in qualche forma coatto, riesce quasi sempre a spezzare o almeno ad allentare gli invischiamenti simbiotici che caratterizzano queste gravi forme di disturbi alimentari.

Come professionisti non possiamo tacere. Dobbiamo difendere un modello di intervento attivo a tutela della salute mentale.

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Paolo Azzone
Paolo Azzone

Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista

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