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Love Addiction will tear us apart: la dipendenza affettiva e il ruolo degli stereotipi di genere nella definizione del fenomeno

Nonostante non vi sia ancora accordo sulla definizione scientifica della dipendenza affettiva gli stereotipi di genere sicuramente influenzano tale fenomeno

Di Guest

Pubblicato il 07 Gen. 2019

Secondo Giddens sono tre le principali caratteristiche che connotano la dipendenza affettiva come vera e propria forma di dipendenza: l’ebbrezza, la tolleranza e l’incapacità di controllare il proprio comportamento.

Maria Filosa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Everyone says love hurts, but that is not true. Loneliness hurts. Rejection hurts. Losing someone hurts. Envy hurts. Everyone gets these things confused with love, but in reality love is the only thing that covers up all the pain and makes someone feel wonderful again. Love is the only thing in this world that does not hurt.
(Meša Selimović)

 

Cos’è l’amore? Difficile dare una risposta che comprenda le infinite sfaccettature del concetto cui si fa riferimento con la parola amore. Si consideri la definizione proposta da Erich Fromm nel libro “L’arte di amare”:

Amare qualcuno non è solo un forte sentimento, è una scelta, una promessa, un impegno. Se l’amore fosse solo una sensazione, non vi sarebbero i presupposti per un amore duraturo. Una sensazione viene e va. Come posso sapere che durerà per sempre, se non sono cosciente e responsabile della mia scelta? (Fromm, 1957).

Nel suo libro, Fromm prosegue differenziando l’unione simbiotica o amore immaturo (“ti amo perché ho bisogno di te”), caratterizzato dalle dinamiche dominanza-sottomissione e dalla paura sottostante della solitudine, dall’amore maturo (“ho bisogno di te perché ti amo”), ossia l’unione con l’altro a condizione di perseverare la propria integrità, il sentimento attivo del dare piuttosto che del ricevere.

Questa differenziazione viene approfondita anche da altri autori negli anni successivi. Tra i tanti, possiamo ricordare Curtis, secondo il quale l’amore maturo sarebbe definito da bisogno, generosità, romanticismo e complicità, e aiuterebbe a creare un ambiente che permette la mutua crescita degli amanti, motivati ad acquisire, ad esempio, un più alto grado di educazione, maggior conoscenza di sé, autostima e benessere (Curtis, 1983). L’amore immaturo, invece, sarebbe caratterizzato da potere, possesso, protezione, pietà e perversione e, secondo Acevedo e Aron, anche da ossessioni sulla mancanza di fedeltà del partner, incertezza legata alla sensazione che la relazione possa concludersi da un momento all’altro e relativa ansia (Acevedo & Aron, 2009). L’amore immaturo, quando permea la quotidianità, causa continui comportamenti di perdita di controllo provocando conseguenze negative nella vita del soggetto, può essere considerato, secondo Sussman, dipendenza affettiva (o love addiction) (Sussman, 2010).

Le Dipendenze: fattori comuni tra le Dipendenze comportamentali e la Dipendenza da sostanze

Il fenomeno della dipendenza affettiva ha suscitato una crescita di interesse e studi a partire dagli inizi degli anni ’80; la sua conoscenza, a livello della popolazione mondiale, fu dovuta alla prima pubblicazione del libro di Robin Norwood “Donne che Amano troppo” (1985). L’autrice, psicoterapeuta famigliare specializzata nel campo delle dipendenze, definisce il fenomeno della dipendenza affettiva “troppo amore”, descrivendolo come il bisogno, non consapevole, di legarsi a partner incompatibili con i propri sentimenti, non curanti del benessere dell’altro, non disponibili, velatamente o chiaramente rifiutanti, unito all’incapacità di distaccarsene e al pensiero magico di riuscire, tramite l’amore e il sacrificio di sé, a cambiarli e trasformarli nei partner dei propri sogni.

Benché molti siano stati i libri scritti in riferimento al fenomeno, ben poche sono le ricerche empiriche presenti al riguardo, così come pressoché inesistenti i dati statistici. La dipendenza affettiva, ad oggi, non rientra tra le categorie indicate nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM 5 e, perciò, non esistono criteri generalmente riconosciuti cui poter far riferimento in sede di diagnosi clinica. In termini di classificazione, viene annoverata tra le cosiddette New Addictions (dette anche dipendenze comportamentali, o “non legate a sostanza”), termine col quale si indica una tipologia di dipendenza non legata ad una sostanza, ma ad un’attività o comportamento del tutto lecito e accettato socialmente, il quale viene però costantemente ricercato e riprodotto senza alcun controllo, e al quale non si riesce a porre fine, nonostante le gravi conseguenze negative apportate alla vita dell’individuo. Tra le New Addictions, vengono annoverate anche la dipendenza sessuale, da gioco d’azzardo patologico (l’unica riconosciuta dall’APA e inserita nel DSM 5), da lavoro, da internet, da shopping compulsivo e da sport.

Marazziti e collaboratori (2015) ben riassumono gli elementi comuni riscontrati all’interno della macrocategoria delle dipendenze:

  • piacere e sollievo, sensazioni gradevoli ma limitate ai periodi iniziali dell’uso della sostanza o della messa in atto del comportamento, fase denominata “luna di miele”;
  • dominanza o idea prevalente riferita alla sostanza o al comportamento, per cui vi è l’impossibilità di resistere all’impulso di assunzione o pratica, vissuta con modalità compulsive;
  • craving, sensazione crescente di tensione e desiderio che precede l’assunzione della sostanza o la pratica del comportamento;
  • instabilità dell’umore;
  • tolleranza, ossia la progressiva necessità di incrementare la quantità di sostanza o tempo dedicato al comportamento per ottenere l’effetto piacevole, il quale tenderebbe altrimenti ad esaurirsi;
  • discontrollo, la progressiva sensazione di perdita di controllo sull’assunzione della sostanza o esecuzione del comportamento;
  • astinenza, il profondo disagio fisico e psichico conseguente all’interruzione o alla ridotta assunzione della sostanza o alla riduzione del tempo dedicato alla messa in atto del comportamento;
  • conflitto e persistenza, dovuti all’incapacità di porre fine all’assunzione di una sostanza o alla pratica di un comportamento nonostante le evidenti conseguenze sulla vita dell’individuo;
  • ricadute, ossia la tendenza a riavvicinarsi alla sostanza o ad attuare il comportamento dopo un periodo di interruzione;
  • poliabuso, ossia la tendenza ad assumere più sostanze o praticare più comportamenti e cross-dipendenza, ossia la tendenza a passare da una dipendenza all’altra nell’arco della storia di vita;
  • fattori di rischio comuni, quali sensation seeking, impulsività, difficoltà nella regolazione emotiva, inadeguato ambiente di sviluppo genitoriale, attaccamento insicuro e presenza di traumi.

Studi di biochimica, neuroimaging funzionale e genetica, condotti negli ultimi anni, confermano inoltre l’esistenza di una stretta relazione, sul piano neurobiologico, tra le dipendenze di tipo comportamentale e la dipendenza da sostanze, le quali condividerebbero le stesse alterazioni funzionali (Grant et al., 2006).

La dipendenza affettiva: definizione e fattori predisponenti

Per quanto riguarda più precisamente la dipendenza affettiva, secondo Giddens sono tre le principali caratteristiche a connotarla come vera e propria forma di dipendenza.

La prima è l’ebbrezza, la sensazione di euforia legata alla vicinanza del partner e alle sue reazioni rispetto ai propri comportamenti. La seconda è la tolleranza o “dose”, ossia il bisogno di aumentare il tempo trascorso in compagnia del partner, riducendo di conseguenza quello dedicato a sé e ai contatti esterni alla coppia. Tale aspetto sarebbe alimentato dall’incapacità di mantenere la presenza interiorizzata rassicurante dell’altro: a causa di ciò, l’assenza della persona di cui si è dipendenti comporterebbe uno stato di disperazione risolvibile solo mediante la presenza concreta dell’altro in quanto il solo pensiero non risulta rassicurante di per se stesso. L’ultima caratteristica è l’incapacità di controllare il proprio comportamento, connessa alla perdita della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro: ciò provocherebbe un conseguente senso di vergogna, il quale, in momenti di lucida razionalità, permette di comprendere la portata nociva della propria situazione e del malessere sperimentato ma che, quasi inevitabilmente, viene sostituito da una sensazione di indegnità, la quale porta nuovamente a ricadere nella propria dipendenza affettiva ricercando “l’abbraccio” dell’altro (Giddens, 1992).

Sulla base delle analogie tra dipendenza affettiva e dipendenza da sostanze, Reynaud e collaboratori (2010) hanno proposto una definizione maggiormente sistematica di tale patologia, unita ad alcuni criteri diagnostici. Essa, viene definita come un modello disadattivo o problematico della relazione d’amore che porta a deterioramento e angoscia clinicamente significativa, come manifestato da tre (o più) dei seguenti criteri (che si verificano in ogni momento, nello stesso periodo di 12 mesi, per i primi cinque criteri):

  1. esistenza di una sindrome caratterizzata da astinenza in assenza dell’amato;
  2. significativa sofferenza e bisogno compulsivo dell’altro;
  3. considerevole quantità di tempo speso su questa relazione (nella realtà o nel pensiero);
  4. riduzione di importanti attività sociali, professionali o di svago;
  5. persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la propria relazione;
  6. ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa;
  7. esistenza di difficoltà di attaccamento come manifestato da ciascuno dei seguenti:
    – ripetute relazioni amorose esaltate, senza alcun periodo di attaccamento durevole;
    – ripetute relazioni amorose dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro.

La dipendenza affettiva sarebbe, dunque, una modalità patologica di vivere la relazione, in cui la persona dipendente, per non perdere il partner, silenzia i propri bisogni per dare voce solo a quelli dell’altro, considerato unica e sola fonte di gratificazione, anche quando da essa non se ne riceve più alcuna. I dipendenti affettivi sono sostanzialmente innamorati del sentimento d’amore, spesso mai conosciuto intimamente e che quindi non riescono a distinguere da ciò che non lo è. Sono alla costante ricerca di partner guidati dalla convinzione che, in qualche modo, la relazione possa avere poteri magici, salvifici, permetta di superare qualsiasi ostacolo (Peele & Brodsky, 1992), ritenendo che solo assieme a un’altra persona ci si possa sentire completi (Yoder, 1990). Il dipendente affettivo, a causa di una bassissima autostima di base, è terrorizzato dall’abbandono del partner e vive in un generico stato di allerta manifestato con gelosia, possessività, comportamenti di controllo, opposizione al cambiamento e bisogno di una relazione vissuta in simbiosi. Nelle relazioni, spesso, sperimenta rabbia, rancore, sensi di colpa e un profondo senso di inadeguatezza dato dalla convinzione di essere inferiore al partner, del cui amore non è meritevole.

Dipendendo dall’altro per potersi dare esistenza, chi soffre di dipendenza affettiva per evitare l’abbandono e quindi evitare di ricevere la conferma del poco valore di cui si crede portatore, non soltanto rinnega i propri bisogni sottomettendoli ai bisogni dell’altro, ma accetta e tollera qualsiasi tipo di comportamento emesso dal partner, nella speranza di mantenere la vicinanza. Ne deriva che, di fronte a maltrattamenti fisici, verbali o psicologici, nella fasulla convinzione di mantenere il controllo sulla relazione e poter dunque continuare a praticare la propria dipendenza affettiva, il soggetto si assume la responsabilità dei comportamenti dell’altro (ad es. giustificando i tradimenti come causa della propria incapacità di soddisfarlo). Infine, non solo vi è la difficoltà ad interrompere la relazione dopo periodi prolungati di malessere, per quanto vi è la tendenza a ricadere nella stessa relazione dopo mesi o a sostituirla con una relazione simile instaurata assieme ad altri partner (Wolfe, 2000; Fisher, 2006).

Ma da dove ha origine e quali sono i fattori predisponenti la dipendenza affettiva?

In tutti gli studi presenti in letteratura, è ormai chiaro il ruolo fondamentale delle prime esperienze sociali di attaccamento vissute nell’infanzia (Sussman, 2010). In uno studio del 1990, Feeney e Noller cercarono di indagare come gli stili di attaccamento potessero prevedere le tipologie di relazioni sviluppate in età adulta e, a differenza degli studi precedenti su tale argomento, introdussero anche una misurazione della dipendenza affettiva in un campione di 374 studenti. Dai risultati, emerse che i soggetti con attaccamento sicuro riportavano relazioni familiari basate sulla fiducia e relazioni intime stabili e soddisfacenti. I soggetti con attaccamento evitante, riportavano esperienze di separazione e sfiducia nella loro infanzia e poche o poco intense relazioni d’amore in età adulta. Infine, il dato più interessante, i soggetti con attaccamento ansioso-ambivalente riportavano un approccio estremo nei confronti dell’amore, caratterizzato da ossessività, “limerence” (desiderio eccessivo nei confronti dell’amato), preoccupazioni, idealizzazione, eccessivo bisogno di attenzioni nella coppia e dipendenza emotiva (Feeney & Noller, 1990)

Bartholomew, in un articolo del 1990, propone quattro tipologie o, per meglio dire, prototipi di attaccamento adulto.

  • Sicuro: caratterizzato da un’immagine positiva sia di sé che dell’altro e relazioni basate su intimità e autonomia;
  • Preoccupato: definito da un’immagine negativa di sé e positiva dell’altro, tipico di soggetti che hanno sperimentato uno stile genitoriale basato su intrusività e mancanza di sensibilità; esso è caratterizzato da eccesiva dipendenza affettiva, insaziabile desiderio di ottenere l’approvazione altrui e profondi sentimenti di non essere degni;
  • Timoroso: definito da un’immagine negativa sia di sé che dell’altro, tipico di soggetti i cui bisogni di attaccamento infantili sono stati frustrati da genitori non disponibili e rifiutanti; in questo prototipo di attaccamento adulto, il soggetto desidera sperimentare contatto e intimità ma, il timore del rifiuto e la totale mancanza di fiducia nell’altro, gli impediscono di stabilire relazioni sociali profondamente intime, all’interno delle quali esibisce, invece, soprattutto modalità di tipo passivo-aggressivo.
  • Rifiutante: caratterizzato da una positiva immagine di sé e negativa dell’altro, nella cui categoria rientrerebbero soggetti che hanno sperimentato uno stile genitoriale basato sulla non espressione delle emozioni negative e freddezza nelle interazioni; in questi soggetti, il sistema di attaccamento è fondamentalmente disattivato ed essi evitano le relazioni intime, sminuendone il valore e l’importanza, focalizzandosi invece su aspetti impersonali della vita, quali ad esempio il lavoro o gli hobby. Nelle relazioni sociali vissute, inoltre, spesso manifestano comportamenti di tipo dominante-aggressivo, mostrandosi calcolatori, arroganti, competitivi e manipolatori.

Secondo Bartholomew, i soggetti Preoccupati e Timorosi avrebbero di base un forte bisogno di dipendenza, nonostante le notevoli differenze nel modo di approcciarsi alla relazione: mentre il soggetto Preoccupato si avvicinerebbe all’altro per trovare soddisfacimento del proprio bisogno, il soggetto Timoroso eviterebbe la vicinanza, pur desiderandola, rendendo minimo il dolore potenziale dovuto alla perdita o al rifiuto. L’autore sottolinea come il tipo di attaccamento influenzi anche la scelta del partner e la tipologia di relazione di coppia vissuta, all’interno di un ciclo che permette il mantenimento e la conferma della percezione di sé e degli altri. In particolare, ponendo l’esempio di un soggetto evitante (timoroso o rifiutante), egli potrebbe scegliere sia un soggetto ugualmente evitante ma di tipologia diversa (coppia timoroso-rifiutante), al fine di mantenere la distanza interpersonale desiderata, sia un soggetto dipendente (preoccupato), confermando la necessità di mantenere una certa distanza e l’immagine negativa dell’altro, desideroso a livelli patologici di intimità. Il soggetto Preoccupato, scegliendo un partner evitante, confermerebbe invece l’immagine di sé come non degno di amore e attenzioni e i propri timori abbandonici relativi ad un altro non disponibile (Bartholomew, 1990): proprio sulla base di tali meccanismi, che Bowlby definisce di “omeostasi rappresentativa”, ciascun partner sceglierebbe l’altro per confermare le rappresentazioni di sé e dell’altro costruite fin dalla prima infanzia (Bowlby, 1988) giustificandole però come presenti a causa del partner e mantenendole.

In uno studio del 2015, Stavola e collaboratori hanno evidenziato, oltre alla presenza di un attaccamento di tipo preoccupato e timoroso (i quali hanno in comune un’immagine negativa di sè), come anche la presenza di traumi infantili di abuso e negligenza emotiva, la difficoltà nella regolazione delle emozioni e la dissociazione, meccanismo presente in soggetti con trauma, siano tutti fattori predisponenti la dipendenza affettiva (Stavola et al., 2015).

Il ruolo degli stereotipi di genere: la Dipendenza affettiva maschile e la “danza relazionale”

Leggendo le righe precedenti, molto facilmente si potrebbe pensare che la dipendenza affettiva si sviluppi solo ed esclusivamente nelle donne, secondo Miller infatti il 99% dei dipendenti affettivi sono di sesso femminile (Miller, 1994). Tuttavia, non essendo ancora chiari i criteri diagnostici, non esiste una stima certa della distribuzione del fenomeno all’interno della popolazione, né dati relativi alle differenze di genere.

Considerando la dipendenza affettiva come una dinamica creata all’interno di una relazione vissuta in maniera malsana, più che un disturbo che affligge il singolo soggetto, non è più così semplice collegarla al genere femminile. Apparentemente, all’interno di questa tipologia di relazione, un soggetto sembrerebbe dipendente e l’altro “anti-dipendente” ma in realtà si tratterebbe piuttosto di una “danza”, in cui vi è continuo scambio di ruoli. Avendo individuato l’attaccamento ansioso-ambivalente come uno dei fattori predisponenti, e considerando i dati che stabiliscono come esso sia prevalente in entrambi i generi sessuali, se ne può dedurre che anche la dipendenza affettiva abbia una prevalenza comune tra i generi (Feeney & Noller, 1990). Forse, dunque, il genere non influenzerebbe tanto la predisposizione allo sviluppo della dipendenza affettiva, bensì il modo in cui essa si manifesterebbe (Sussman, 2010).

Il ritratto della dipendente affettiva di sesso femminile, ben si confà agli stereotipi di genere della donna, debole, bisognosa, tenera, ingenua, sensibile ai bisogni degli altri, compassionevole, comprensiva, empatica, dipendente e timida (Prentice & Carranza, 2002). Per quanto riguarda l’uomo, al contrario, i condizionamenti culturali, così come le caratteristiche desiderabili, stereotipicamente parlando lo allontanano da tutto ciò che riguarda la dipendenza: aggressività, ambizione, assertività, competizione, dominanza, difesa delle proprie idee, potere, forza, indipendenza, egoismo, fiducia in se stesso e assunzione di rischio.

Nell’uomo, è molto evidente la necessità di nascondere gli affetti, considerati espressioni di una debolezza che è incompatibile con la virilità: per tale ragione, egli viene chiamato a nascondere i propri bisogni di dipendenza, a celare emozioni e debolezze per apparire forte e autosufficiente. Gli stereotipi di genere, dunque, potrebbero aver influenzato il modo di manifestarsi della dipendenza affettiva maschile, camuffandola con anaffettività e comportamenti aggressivi, di dominanza, squalificazione e manipolazione emotiva della partner, di cui si ha bisogno per non doversi confrontare con la solitudine e tutto ciò che essa comporta. Il dominio, il controllo, la manipolazione e la squalificazione della partner avrebbero dunque l’obiettivo di minarne la sicurezza per evitare l’abbandono.

Numerose ricerche hanno evidenziato come gli uomini violenti, sia in termini fisici che psicologici, spesso riportino pattern di attaccamento di tipo timoroso e preoccupato, gli stessi pattern considerati fattori predisponenti la dipendenza affettiva (Dutton et al., 1994; Holtzworth-Munroe et al., 1997). Nell’uomo, la dipendenza affettiva può manifestarsi anche tramite la scelta di una partner dipendente e dunque bisognosa, la cui sicurezza è già minata alla base: all’interno di tale relazione, egli può trovare soddisfacimento al bisogno di dominare e controllare, mantenendo silenti i propri timori relativi all’abbandono dell’altro, il quale, avendo bisogno di lui, difficilmente potrà allontanarsi.

Nella dipendenza affettiva, non viene tollerato il cambiamento all’interno della relazione: dal punto di vista maschile, ciò, spesso, si realizza con l’intolleranza alle discussioni all’interno del rapporto di coppia, le quali vengono prevenute tramite un approccio passivo, di falsa sottomissione, o aggressivo, di dominanza, al fine di mantenere un’armonia solo fittizia. La mancanza di conflitti, in questo caso, non è dunque simbolo di benessere relazionale, ma conseguenza dell’assenza di intimità tra i partner, data dall’incapacità di esprimersi in maniera emotivamente autentica.

Tuttavia, l’utilizzo di violenza fisica, psicologica e verbale non è esclusivamente appannaggio del mondo maschile: esistono numerosi studi e dati statistici riguardanti la violenza agita dalle donne sugli uomini. In una ricerca del 2012 di Macrì e collaboratori, su un campione di 1058 soggetti maschi italiani, risultò che circa il 60% di loro aveva ricevuto graffi, morsi, calci, pugni e schiaffi da parte di una donna, e più del 50% di loro aveva ricevuto critiche per l’impiego poco remunerativo, inerenti ai famigliari, umiliazioni e ridicolizzazioni in pubblico, minacce di separazione o di allontanare i figli, da parte di una partner attuale o pregressa. All’interno della coppia, la violenza non è dunque sempre e solo agita al maschile, anche se l’utilizzo femminile della violenza di qualsiasi tipo, è più spesso riflesso della violenza subita da precedenti partner o dallo stesso, e, perciò, agita come difesa (Swan et al., 2008). L’esempio di coppie di tale tipologia, in cui entrambi i soggetti costruiscono in rapporto basandosi su continue angherie, svalutazioni e scambio di ruoli tra “vittima” e “carnefice”, rimanendo incapaci di porre fine alla relazione, è un chiaro esempio di come la dipendenza affettiva non abbia preferenze di genere.

Ad oggi, comunque, non esistono studi scientifici che abbiano approfondito le differenze di genere nella manifestazione della dipendenza affettiva benché, in sede clinica, sia evidente che anche gli uomini possano esserne affetti. Indipendentemente dal genere, in sede clinica, numerosi autori hanno suggerito che i dipendenti affettivi potrebbero coinvolgersi in relazioni come riflesso di disturbi di personalità sottostanti, quali Borderline, Narcisistico o Dipendente (Sussman, 2010). Per quanto riguarda il disturbo Narcisistico di personalità, soprattutto il tipo Covert o Vulnerabile, caratterizzato da una fragile stima di sé, ipersensibilità, ansia nei rapporti interpersonali, inibizione sociale, oscillazione tra sentimenti di superiorità e inferiorità e dipendenza, è risultato essere maggiormente correlato a relazioni di tipo ossessivo (Rohmann et al., 2012). Considerando, invece, il disturbo Borderline di personalità, un’interessante differenziazione in base al genere è riportata in uno studio di Johnson e collaboratori: i soggetti maschili diagnosticati, sarebbero caratterizzati maggiormente da aggressività, manipolazione, sfiducia nell’altro, disinibizione sociale, distacco e impulsività riguardo l’utilizzo di droghe e alcol; i soggetti femminili diagnosticati riporterebbero, invece, possessività, dipendenza e impulsività nel rapporto col cibo (Johnson et al., 2003). Nel contesto della violenza domestica, infine, vari studi hanno evidenziato come i soggetti maschili violenti siano spesso diagnosticati con personalità Borderline (Else et al., 1993; Hastings et al., 1988; Dutton et al., 1994).

Per concludere, la mancanza di una definizione scientificamente valida e riconosciuta globalmente della dipendenza affettiva, crea difficoltà in sede di diagnosi clinica, ma è sicuramente possibile ipotizzare un’influenza degli stereotipi di genere sia nell’identificazione che nella manifestazione del fenomeno. Si vede, dunque, la necessità di ulteriori approfondimenti, al fine di fare luce su un malessere ormai ben evidente ed esacerbato nell’ambito di relazioni di coppia mantenute in nome di ciò che viene chiamato amore, ma che nulla ha a che fare con questo.

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