Lo stress non è una condizione assoluta, ma è piuttosto risultato della nostra percezione: un evento diventa problematico quando un individuo lo percepisce come causa di un dispendio di energie superiore al livello da lui considerato accettabile.
Roberto Minotti e Jasmine Di Benedetto
Una lettura antropologica dello stress
Durante la preistoria l’uomo e la donna avevano dei ruoli sociali ben definiti dal loro milieu e conseguenzialmente a ciò il maschio aveva maturato un habitus guerriero che lo spingeva ad andare a caccia, in generale a procacciare cibo per il sostentamento del gruppo domestico, della tribù. La femmina rispettava le disposizioni da lei incorporate procreando e preoccupandosi della cura, della gestione e dell’educazione della prole.
Nel complesso il gruppo domestico viveva in una società semplice dove il pericolo era sempre in agguato ed era rappresentato da un animale feroce da cui doversi difendere, da una calamità naturale, dall’aggressione di una tribù vicina.
Queste situazioni di pericolo generano nel cervello degli impulsi che attivano il nervo vago smart ventrale il quale inibendosi produce una reazione di tipo attacco/fight o di evitamento/flight, funzionale alla sopravvivenza e, per tale ragione, si è trasmessa di generazione in generazione per giungere sino a noi. Il nostro sistema nervoso autonomo ha quasi del tutto perso l’impulso primitivo, animalesco di congelamento/freezer indotto dal nervo vago dorsale più antico, che risulta essere maladattativo per l’uomo/animale sociale in quanto non permette lo sviluppo delle relazioni/affiliazioni sociali.
Questo perché viviamo in una società complessa dove il rischio di vivere situazioni estremamente pericolose è quasi assente rispetto all’antichità o comunque contestualizzabile in situazioni limite come guerre, terrorismo, calamità naturali, incidenti, ecc.. Abbiamo ereditato geneticamente queste risposte automatiche inibitorie in quanto funzionali alla sopravvivenza, che vengono attivate o riattivate quando l’individuo ha subito un trauma che ha riguardato la sua sicurezza ed incolumità, andando a modificare sia il suo livello fisiologico di risposta a stimoli, sia il livello cognitivo ed emotivo.
È sufficiente il ricordo del trauma per innescare una serie di processi fisiologici quali palpitazioni, problemi respiratori, iper-sudorazione come se la persona stesse nuovamente rivivendo il trauma reale; ciò dipendente da quello che la nostra mente produce partendo da schemi mentali (reti neurali) che, proprio a causa dell’evento traumatico, tende a cristallizzarsi, non permettendo la sana connessione tra diverse zone dell’encefalo. Potremmo dire che il trauma rappresenta l’assenza di metabolismo tra le vare aree dell’encefalo che tendono continuamente all’associazione e alla connessione.
La comprensione dello stress
In una prospettiva psicologica, lo stress non è considerato come una condizione assoluta che può colpire le persone, ma come un accadimento che diventa problematico solo qualora sottoponga un individuo a un dispendio di energie superiore al livello da lui considerato accettabile.
Fondamentale è il momento della valutazione del processo mentale, durante il quale un individuo dà ad un evento un significato soggettivo e personale.
È il percepire l’evento come stressante, che lo rende tale. Se un individuo considera le proprie risorse come adeguate a far fronte alle richieste che gli arrivano dall’esterno, può adattarsi con successo anche se le domande ambientali sono considerevoli. Questo processo si chiama coping e considera tutte le strategie che l’individuo mette in atto per risolvere le difficoltà.
Lazarus e Folkman (1984) definiscono il coping come gli sforzi costanti, sia cognitivi che comportamentali, di cambiare o gestire specifiche domande interne o esterne che sono valutate come gravose o eccessive per le risorse della persona ed i processi di valutazione delle strategie da adottare sono essenzialmente due: la valutazione primaria e secondaria.
Folkman e Lazarus (1988) considerarono quindi otto principali strategie di coping:
- attivazione di confronto
- di stanziamento
- autocontrollo
- ricerca di supporto sociale
- accettazione della responsabilità
- fuga ed evitamento
- problem solving programmato
- rivalutazione positiva
Questi autori differenziano due tipi di coping: quello centrato sul problema e quello centrato sull’emozione. Nel processo di coping centrato sul problema l’individuo analizza il problema per capirlo meglio, lo elabora e segue un piano di azione. In questo contesto, la persona chiede anche consiglio a persone amiche o familiari e talvolta anche a persone specializzate come uno psicologo.
Nel coping centrato sull’emozione, il soggetto cerca di rimuovere il problema o di osservarne soltanto il lato positivo; rivaluta positivamente tutta la faccenda e si rifiuta di pensarci eccessivamente.
I processi di coping possono, quindi, aiutare gli individui a mantenere l’adattamento psicosociale durante le condizioni di difficoltà che sono fondamentali per resistere allo stress. Questa capacità è il potere o l’abilità di ritornare alla forma di composizione originale dopo essere stati piegati, schiacciati o sottoposti a forti tensioni.
Mccubbin, Thompson, Thompson e Futrell (1999) individuano le seguenti caratteristiche principali per la resilienza: l’elasticità e la galleggiabilità.
Secondo questi autori i fattori critici per il recupero rispetto alla condizione di difficoltà sono:
- la capacità di integrazione
- il supporto nella costruzione del senso di stima
- l’ottimismo
- la fiducia in sé ed uguaglianza
- il sostegno di guida
- i significati
- lo schema
Un contributo importante viene anche da Olson, che ha definito un suo modello (MASH – Multisystem Assessment of Stress and Healh) che per valutare i concetti di stress, delle strategie di coping e adattamento considerando quattro unità di analisi: l’individuo, la coppia, la famiglia e il sistema sociale e lavorativo.
Secondo questa ipotesi quanto più un individuo, una coppia, una famiglia, un gruppo di lavoro privilegiano, nei momenti di stress, gli aspetti di vicinanza emotiva e di flessibilità circa le regole e le strutture di potere e sviluppano una buona comunicazione, tanto più l’evento stressante ha la possibilità di essere superato.
È oramai accertato che lo stress non è da considerarsi negativo, piuttosto una moneta a due facce (Farrè, 1999). Fino a quando il livello delle catecolamine, dei cortisteroidi danno tono all’organismo e alla psiche preparando l’individuo ad una prestazione ottimale, tale processo è positivo e benefico; quando viceversa i livelli fisiologici e psichici oltrepassano la soglia di guardia tale processo può divenire nocivo. Queste due risposte vengono definite nella letteratura riguardante lo stress come: eustress (dal greco eu “bene”) e distress (dal greco dys “peggiore”). Secondo Richard Earle, direttore del Canadian Istitute of Stress,
l’eustress è qualcosa di molto simile a quanto chiamiamo vitalità; in altre parole, è tutta l’efficacia dell’energia da stress e riduce al minimo la velocità dell’invecchiamento (Earle, Imrie & Archbold, 1990)
Non bisogna però dimenticare l’altra faccia della medaglia quando cioè il continuo accumularsi di stimoli stressori porta ad un’eccessiva attivazione fisiologica e quindi a intensi periodi disadattamento generale dell’individuo.
Nella tabella di seguito proposta sono riassunte le conseguenze ai vari gradi stress appena descritti e le tipologie di risposta date dall’organismo.
Tabella 1 (Farrè, 1999):
Sono state formulate alcune ipotesi secondo cui l’iniziale livello di stress che migliora le risposte mentali e fisiche dell’individuo, con l’aumento del grado di stress porti invece ad un loro decadimento.
Un’ipotesi denominata degli sprechi cognitivi, afferma che gli eventi più stressanti sono proprio quelli che sfuggono al nostro controllo perché richiedono da parte dell’individuo una continua ed intensa attenzione.
La seconda ipotesi, detta del senso della frustrazione, è relativa alle risposte di fastidio, aggressive e di rabbia derivanti dalla frustrazione per lo stress percepito.
L’ultima teoria, del senso d’impotenza, afferma appunto che un individuo che si imbatta in ripetuti insuccessi per raggiungere un obiettivo difficile, tenda successivamente a trascurare anche gli obiettivi più semplici.
Questa teoria deriva da quella formulata da Martin E.P. Seligman (l’impotenza appresa) (1975); che grazie ad un suo ormai noto esperimento (Ricordiamo che tale esperimento prevedeva il coinvolgimento di tre gruppi di studenti. Il primo gruppo era esposto ad uno stressore: un ronzio e dovevano farlo cessare premendo i pulsanti giusti su di un pannello posto di fronte a loro, ma nessun pulsante poteva far smettere tale ronzio poiché l’apparecchiatura era finta. Il secondo gruppo era anch’esso esposto al ronzio, ma la sua apparecchiatura era efficace e rispondeva ai comandi. Il terzo gruppo non era sottoposto ad alcun rumore. Nella seconda fase dell’esperimento tutti e tre i gruppi erano esposti al rumore e potevano, manovrando una cassetta, far cessare il rumore. I risultati dimostrarono che il secondo ed il terzo gruppo ben presto impararono ad usare la cassetta per far cessar il ronzio, mentre il primo gruppo non utilizzò la cassetta subendo tutto il fastidio per l’intera durata dell’esperimento) arrivò a descrivere tre caratteristiche circa l’impotenza appresa: motivazionale (in cui la persona non fa nulla per cambiare lo stato di stress), cognitiva (la stessa persona non riesce ad apprendere le strategie idonee affinché cambiare tale stato) ed emotiva (in cui la persona può ammalarsi di depressione).
Successivamente Seligman (1991) cambiò l’espressione impotenza appresa con pessimismo appreso mettendo l’accento proprio sull’incapacità del soggetto nel trovare soluzioni e strategie efficaci alla risoluzione dell’evento stressante.
Nell’uomo, infatti, gli stressori più comuni sono quelli di tipo sociale e psicologico; il presente studio cercherà di esaminare ed evidenziare come alcuni tratti psicologici, stimoli sociali e comportamenti interagiscano tra loro determinando reazioni spesso disadattive.
Sembra oramai ben chiara la correlazione tra sistema immunitario, sistema nervoso centrale e stress (Mezzani & Pacciolla, 2002). Situazioni psicologicamente intollerabili per l’organismo si possono tradurre in malattia organica.
Specifici studi effettuati su animali di laboratorio sembrano confermare che l’alto livello di stress modifichi in qualche misura anche il sistema vegetativo, endocrino, immunitario e che in ultima analisi, influenzi il decorso di malattie organiche gravi.
La correlazione tra psiche e soma è meglio spiegabile quando il locus of control, quando questo è di tipo esterno, cioè l’individuo tende a darsi spiegazioni più irrazionali senza nessuna base conoscitiva, le conseguenze allo stress appaiono più gravi.
Donald Meichenbaum (1995) è giunto all’elaborazione di un programma (stress inoculation training) tenendo conto dell’aspetto cognitivo. Secondo questo autore, attraverso un addestramento all’immunizzazione dallo stress, l’individuo arriva ad affrontare meglio lo stress considerando tale terapia equivalente al classico vaccino. La prima fase di immunizzazione incomincia con l’apprendimento del senso dello stress e della sua natura cognitiva. Si procede quindi ad affrontarlo in modo adeguato e alla modificazione delle cognizioni errate. L’ultimo step è insegnare al soggetto ad applicare queste nuove conoscenze in situazioni reali. Tra le procedure per la padronanza ed il controllo dello stress si procede con tecniche di rilassamento; queste modalità risultano essere molto efficaci a fronteggiare lo stress come pure il ricorso a strategie cognitive atte a ristrutturare i problemi e gestirli in maniera più adeguata. Questa pratica comprende anche giochi di ruolo e modellamenti con il terapeuta e anche esercitazioni in situazioni reali (Pervin & John, 1997).