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Psicologia Epigenetica: la nuova frontiera della Psicologia

Psicologia Epigenetica: numerose ricerche hanno dimostrato che la quantità e qualità delle esperienze di vita che facciamo influenzano l’espressione del livello biologicamente più intimo del nostro organismo. Ripercorriamo le tappe fondamentali che hanno condotto a queste scoperte.

Di Massimo Agnoletti

Pubblicato il 02 Ott. 2018

Aggiornato il 12 Nov. 2018 12:15

Le recenti conoscenze relative all’impatto della gestione dello stress sull’epigenetica cellulare determinano un nuovo settore delle scienze psicologiche: la psicologia epigenetica, cioè lo studio scientifico dell’influenza dei fattori psicologici sui processi epigenetici. L’impatto, sia clinico che non, della psicologia epigenetica è assolutamente rilevante.

 

Prima di introdurre la definizione di Psicologia Epigenetica farò un breve excursus storico nel settore della biologia teorica e delle neuroscienze per far meglio comprendere il perché è giustificato parlare di un nuovo settore ed un nuovo paradigma della psicologia scientifica.

I piuttosto recenti concetti di neuroplasticità ed epigenetica sviluppati rispettivamente all’interno delle neuroscienze e nel contesto della biologia molecolare, hanno anche prodotto un terreno culturalmente fertile per la nascita del settore della Psicologia Epigenetica: vediamo in sintesi perché.

Psicologia Epigenetica: alle sue orgini le scoperte sulla neuroplasticità

La neuroplasticità è un concetto che è stato (ri)accettato e condiviso dalla comunità scientifica meno di due decenni fa (anche se in passato è stato più volte considerato almeno dal punto di vista teoretico) ed ha decretato una svolta all’interno del paradigma dualistico mente/corpo perché ha dimostrato come l’aspetto psicologico possa determinare un cambiamento strutturale e funzionale nelle cellule nervose (neuroni) che compongono il sistema nervoso.

Attraverso tecnologie che hanno permesso un dettaglio temporale e spaziale del cervello prima inarrivabile (soprattutto grazie alla risonanza magnetica funzionale e alla tomografia ad emissione di positroni) è stato possibile registrare il cambiamento morfologico e funzionale di strutture quali ad esempio l’ippocampo, la corteccia prefrontale e l’amigdala, in seguito all’esposizione di specifiche esperienze che hanno indotto un determinato pattern psicologico.

Tra i più noti e paradigmatici studi sulla neuroplasticità c’è la ricerca sui tassisti londinesi che in seguito a due anni di intenso apprendimento della mappa della città per superare la prova necessaria per essere abilitati, sviluppano maggiormente una porzione di ippocampo dedicata alla codifica mnemonica delle informazioni spaziali (Maguire et al., 2006); o lo studio dove si dimostra che un periodo di otto settimane dove vengono apprese ed eseguite tecniche di gestione dello stress determinano una diminuzione della densità cellulare dei neuroni amielinici dell’amigdala (Hölzel et al., 2010).

Questa serie di studi hanno recentemente intaccato il modello biomedico largamente condiviso dalla comunità professionale che dava per scontata l’impossibilità anche teorica da parte dei processi psicologici di indurre modificazioni morfologiche e funzionali a livello cellulare (modello dualistico mente/corpo).

Alla luce di questi recenti studi sulla neuroplasticità si comprese con chiarezza che l’aspetto mentale poteva generare un cambiamento sulla morfologia e sulla funzione cellulare anche se non si conoscevano i dettagli del meccanismo biologico molecolare attraverso il quale avveniva questo cambiamento (Berlucchi & Buchtel, 2009).

Ecco il motivo per cui è fondamentale a questo punto parlare di epigenetica.

Epigenetica: l’importante contributo alla Psicologia

L’epigenetica, cioè il secondo fattore che ha creato le basi per lo sviluppo della Psicologia Epigenetica, ha rivoluzionato il dogma centrale della biologia molecolare (adottato dal mainstream biomedico da più di mezzo secolo) perché ha dimostrato che l’informazione biologica non era esclusivamente unidirezionale (nel senso che fluiva unicamente dal genotipo rappresentato dal DNA al fenotipo rappresentato dagli aminoacidi) ma, almeno in parte, bidirezionale perché includeva anche i vari meccanismi che selezionavano attivamente quali porzioni di DNA “esprimere” in aminoacidi (e quindi in proteine, i “mattoncini” che costituiscono le nostre cellule) rendendo virtualmente “silenti” e non funzionali quelli non codificati in un fenotipo.

Il cambiamento di paradigma è stato importante perché da una visione unidirezionale e lineare che ad un genotipo vedeva corrispondere un determinato e specifico fenotipo (cioè un particolare organismo), si è passati ad un concetto molto più complesso dove il contesto fenotipico cellulare dialoga continuamente in maniera dinamica con le informazioni codificate nel DNA.

Le conseguenti implicazioni di cosa si intende per fitness dell’organismo (e quindi delle derivanti dinamiche evoluzionistiche) in questa nuova visione è un qualcosa di molto diverso rispetto la visione precedente che assegnava una priorità assoluta alle informazioni genetiche contenute nei cromosomi rispetto le informazioni non provenienti dal genotipo.

In sintesi negli ultimi anni si è passati ad una visione biologica dove al genotipo veniva attribuito un valore assoluto, che dettava in maniera deterministica la maggioranza delle caratteristiche dell’organismo, ad una visione dove invece l’ambiente esterno al DNA contribuisce attivamente a regolarne la funzione modellando la forma e le funzioni dell’organismo.

Abbastanza recentemente il settore della biologia molecolare dove si studia l’effetto differenziale dell’espressione genetica è stato definito “epigenetica” perché si riferisce appunto alla capacità della cellula di operare “sopra” il piano genetico ossia sulle informazioni codificate nel DNA.

Il termine è stato utilizzato prendendolo in prestito dal grande embriologo inglese Conrad Waddington che nel 1942 coniò questa parola per riferirsi alle varie differenti traiettorie fenotipiche che possono derivare dal medesimo genotipo.

Non è un caso che Waddington fosse un embriologo perché, malgrado il concetto di epigenetica non fosse accettato e riconosciuto dai sostenitori del dogma centrale della biologia molecolare, qualsiasi studioso di biologia dello sviluppo dell’organismo era ben consapevole dell’importanza dei processi “extra” genetici perché l’unico modo di spiegare lo sviluppo differenziale di organismi pluricellulari da un’unica cellula (rappresentato, ad esempio, nei vertebrati dall’uovo fecondato dallo spermatozoo) è quello di pensare ad un meccanismo che, oltre a fare molte copie dell’originale, sceglie selettivamente cosa deve essere espresso (e cosa no) in aminoacidi e quindi in proteine per generare cellule morfologicamente differenti pur contenenti il medesimo DNA (pensiamo per esempio a quanto differente sia una cellula nervosa da una del sangue o muscolare).

L’epigenetica dunque amplia e rende più complesso il dogma centrale della biologia molecolare perché aggiunge un nuovo flusso informazionale che seleziona quale porzione di genotipo deve essere espressa, e cosa invece deve essere “silenziata”, influenzando il fenotipo dell’organismo senza alterare il contenuto stesso del DNA.

Mi sono dilungato nel descrivere questo cambiamento paradigmatico del settore della biologia molecolare e della plasticità neurale perché questa nuova visione “allargata” ed maggiormente interconnessa tra le informazioni genetiche e quelle “extra” genetiche permette, come vedremo di seguito, di considerare i fattori psicologici quali fattori “esterni” al DNA ma che ne modulano l’espressione determinandone la fitness globale.

Non è un caso che ad una ricerca scientifica pioneristica pubblicata nel 2004, di cui parlerò tra breve, abbiano collaborato proprio biologi molecolari e psicologi. Come vedremo, per la prima volta nella storia della scienza, questo studio ha dimostrato come il livello genetico e quello psicologico siano interconnessi in un modo assolutamente inconcepibile fino a pochi anni fa.

Psicologia Epigenetica: l’influenza dello stress sui telomeri

Negli anni Ottanta le innovative ricerche sui telomeri della dott.ssa Blackburn e del suo team di ricercatori (Blackburn, 1991; Blackburn, 2010) hanno evidenziato come queste strutture biologiche composte da DNA non codificante che si trovano sulla parte terminale di tutti i cromosomi (per evitarne la disgregazione strutturale del DNA stesso e la fusione intercromosomica) sono fondamentali per determinare la longevità e la senescenza cellulare.

La misurazione dei telomeri è diventata in biologia molecolare il riferimento più affidabile per determinare la longevità cellulare tanto che i telomeri sono ormai considerati al pari di “orologi” biologici che indicano lo stato di salute delle cellule.

Più sono lunghi i telomeri e più è efficace il lavoro di manutenzione fatto sugli stessi telomeri per opera della telomerasi (un’enzima dedicato a questo scopo) più lunga è la vita della cellula e migliore sarà la sua fitness globale. Più corti sono i telomeri più la cellula tende ad avere problemi d’invecchiamento fino al punto in cui, al limite inferiore della loro lunghezza, i telomeri generano un segnale molecolare che avvia il processo di apoptosi (morte cellulare) decretando lo sfaldamento di tutto il genotipo dei cromosomi e quindi il declino irreversibile di tutta la struttura e funzione cellulare.

La dott.ssa Elizabeth Blackburn è stata insignita del premio Nobel per la medicina per i suoi rivoluzionari studi sui telomeri ed insieme ad altri colleghi, tra i quali spicca la psicologa Elissa Epel, nel 2004 ha dimostrato non solo che persone soggette a stress cronico per la continua assistenza prestata ai figli disabili presentano telomeri più corti rispetto chi non ne è esposto (l’ordine di grandezza è di circa 13 anni di invecchiamento cellulare!) ma anche che gestire poco efficacemente lo stress accelera il processo d’invecchiamento cellulare genetico, attraverso l’accorciamento velocizzato dei telomeri per il sempre più ridotto potere di mantenimento da parte della telomerasi (l’enzima che “ripara” la struttura dei telomeri).

Come precedentemente descritto questo accorciamento accelerato predispone nel medio/lungo termine a molte malattie cardiocircolatorie, immunitarie ed oncologiche (Prinz, 2011).

La ricerca delle due colleghe ha dimostrato inoltre un fattore di proporzionalità negli effetti telomerici sia rispetto l’esposizione allo stress negativo percepito sia rispetto il numero di anni di assistenza ai figli e quindi di stress cronico vissuto. Maggiore era il numero di anni in cui le madri si erano prese cura dei propri figli ed avevano vissuto la situazione con grande disstress psicologico (stress cronico), minore era la lunghezza dei loro telomeri e l’attività della telomerasi ma, combinando i dati di entrambi i due gruppi di madri, è emerso anche che le donne che erano riuscite a gestire più efficacemente lo stress mostravano telomeri più lunghi e una telomerasi più attiva rispetto coloro che gestivano lo stress meno efficacemente.

Personalmente sono convinto che questo studio sia una pietra miliare di quella che definisco Psicologia Epigenetica perché segna una svolta nella storia sia della biologia che della psicologia.

Per Psicologia Epigenetica intendo lo studio scientifico delle influenze che gli aspetti psicologici, nelle loro componenti cognitive, emotive e motivazionali, operano sull’espressione selettiva dell’informazione genetica (Epigenetica).

Lo studio citato ha dimostrato scientificamente per la prima volta, ed in un gruppo di persone, la connessione tra uno specifico stato psicologico esperienziale legato al vissuto personale ed il livello considerato dalla biologia come il più intimo e profondo, rappresentato dalla memoria genetica contenuta in tutte le cellule del nostro organismo.

Mai prima di questo studio si era verificata la connessione tra la capacità di gestire e percepire lo stress, aspetti strettamente mentali in genere considerati dall’ambiente biomedico come fattori anche causalmente incapaci di indurre un cambiamento sulle strutture fisiche organiche, e lo stato di longevità cellulare (per opera dei processi telomerici).

Ad essere originale in questa ricerca è proprio l’estensione e la tipologia della connessione tra gli estremi di un continuum definito da due codici e due linguaggi contemporaneamente così importanti per l’essere umano quanto distanti dal punto di vista delle dinamiche causali: i nostri processi psicologici/esperienziali ed il nostro codice genetico (Agnoletti, 2018).

Naturalmente ricerche epidemiologiche avevano già indagato, ad esempio, la connessione tra il concetto di stress cronico e la vulnerabilità in termini di incidenza di cardiopatie o problemi oncologici (si veda per esempio Rosengren et al. 2004) ma questo significativo legame era puramente statistico e non prendeva in considerazione il meccanismo fisiologico/cellulare attraverso il quale si realizzava questa relazione.

Nella ricerca condotta nel 2004 dalla Epel e dalla Blackburn una delle variabili più interessanti è invece proprio la connessione tra l’efficacia della gestione dello stress e la modificazione dell’espressione genetica per opera dei telomeri. Questa originale connessione rende questo studio inedito e ricco di conseguenze rilevanti per il settore della psicologia sia clinica che non.

Un altro punto molto importante di questa ricerca è la magnitudo dell’impatto cellulare epigenetico correlato alla variabilità relativa la gestione dello stress: una media di 13 anni di longevità cellulare.

In altre parole, a parità di altre condizioni, chi soffre di stress cronico ha un’aspettativa di vita di almeno 13 anni inferiore rispetto chi non ne soffre. Questo ordine di grandezza è assolutamente rilevante anche se considerato in maniera comparativa con le medie riscontrate negli studi che hanno preso in considerazione l’attività motoria e la nutrizione (Puterman et al., 2010; Puterman et al. 2011; Jang & Serra, 2014; Park et al., 2017).

Psicologia Epigenetica: i successivi studi sullo stress

Da questo studio pioneristico si sono succeduti molti altri studi che possiamo ascrivere alla Psicologia Epigenetica perché accomunati dal fatto che l’oggetto delle ricerche è l’esplorazione delle conseguenze a livello epigenetico di aspetti psicologici.

In vari studi successivi condotti sempre dalla Epel e dalla Blackburn (Epel et al., 2009; Conklin, et al., 2015) è stato dimostrato ad esempio anche che, coloro che praticavano regolarmente specifiche tecniche di gestione dello stress insegnate durante l’esperimento, sono caratterizzati dall’avere un processo di invecchiamento cellulare rallentato (per l’effetto positivo sull’attività della telomerasi).

Altri studi similari hanno inoltre riscontrato che l’essere ansiosi per una possibile futura situazione negativa accelera l’invecchiamento cellulare riducendo la telomerasi (Puterman et al. 2009), hanno confermato che la meditazione e la conseguente percezione di controllo che un gruppo di persone acquisiva adottando quotidianamente questa pratica incrementava l’attività dell’enzima della telomerasi (Jacobs et al., 2011; Schutte & Malouff, 2013) così come hanno accertato gli effetti positivi della pratica yoga sui telomeri di caregivers con sintomi depressivi (Lavretsky et al., 2012).

Tra le tante altre ricerche degne di nota del settore della Psicologia Epigenetica cito ancora gli interessanti studi sull’impatto degli eventi traumatici sui telomeri dei bambini (Price et al. 2013, Kananen et al. 2010), la ricerca che ha verificato il cambiamento epigenetico relativa il controllo dell’insulina, il metabolismo energetico e della gestione delle infiammazioni conseguente la pratica del rilassamento autoindotto “relaxation response” (Bhasin et al. 2013), lo studio sulle differenti ricadute epigenetiche delle esperienze psicologiche edonistiche rispetto quelle eudaimoniche (Fredrickson et al. 2013) e quello dove si evidenzia che l’atteggiamento pessimistico è correlato con l’accorciamento telomerico (O’Donavan et al., 2009).

Le prospettive della Psicologia Epigenetica

Come si può facilmente capire la Psicologia Epigenetica permette di comprendere un’originale comunicazione tra il mondo della Psicologia, spesso confinato e considerato importante unicamente dal punto di vista esperienziale ma incapace dal punto di vista causale di impattare nel mondo fisico e tangibile delle cellule, e proprio il mondo della Biologia, dell’espressione genetica delle cellule che compongono il nostro organismo e quindi del riferimento che generalmente consideriamo e riconosciamo culturalmente (almeno in Occidente) come più significativo e fondamentale per migliorare il nostro stato di salute ed il nostro benessere.

La Psicologia Epigenetica si distingue da altri settori scientifici come, ad esempio la Genetica Comportamentale o le Neuroscienze, per il fatto che indaga le relazioni tra le dimensioni squisitamente psicologiche (cognitive, emotive e motivazionali) ed i processi epigenetici della Biologia Molecolare.

In estrema sintesi gli studi appena citati relativi la Psicologia Epigenetica dimostrano come la quantità e qualità delle esperienze che facciamo, sia determinate dai nostri processi decisionali intenzionali che non, stabiliscono gli stati mentali ed i comportamenti che conduciamo influenzando l’espressione del livello biologicamente più intimo del nostro organismo, quello genetico modificandone anche la longevità cioè l’aspettativa di vita dell’organismo.

Diversamente da quanto considerato in passato, la consapevolezza che gli stati psicologici sia positivi che negativi hanno un impatto così rilevante sulla fitness cellulare e sulla fisiologia del nostro organismo deve ottenere maggiore spazio all’interno delle future pratiche cliniche, delle politiche e delle istituzioni finalizzate a migliorare la salute ed il benessere delle persone.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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