Accade qualcosa. Ne segue un’emozione. Talvolta proviamo a gestirla e a regolarla, soprattutto se molto intensa. A volte ci riusciamo, altre no. E dopo? Cosa accade dopo?
Rimé (2005) identifica il residuo emozionale, “l’emotional remanence”, come l’insieme di tutti quegli aspetti non risolti dell’esperienza emotiva che, spesso, vengono anch’essi sottoposti a meccanismi di regolazione, al pari dell’esperienza emotiva stessa.
Ruminazione: un processo che ci danneggia
Sicuramente ognuno di noi ricorda degli eventi e delle emozioni perché fanno parte del patrimonio mentale in termini di ricordi, immagini e pensieri e le ricerche dimostrano che i ricordi più vividi sono quelli con un’alta valenza emotiva. Ma c’è una modalità molto comune con cui cerchiamo di elaborare, volontariamente, l’emozione o il ricordo di una situazione attivante e questa è la ruminazione (Wells e Matthews, 1996) ossia pensare in modo ricorsivo all’evento che ha generato l’emozione disturbante, alle cause e alle conseguenze. Come affermano Oatley e Johnson-Laird (1996)
Le emozioni negative insorgono nel contesto dell’interruzione di importanti scopi personali e tale circostanza sollecita una ricerca controllata di soluzioni per il ripristino o la sostituzione dello scopo frustrato e, nello stesso tempo, tentativi di spiegazione causale dell’evento stesso, nei quali si cerca di individuare le ragioni, specie personali, del fallimento, con conseguenze importati sull’umore dell’individuo e il suo senso di controllo ed efficacia (Nolen-Hoeksema e Morrow, 1999).
Rispetto all’utilità della ruminazione e al ruolo che tale processo ha nel mantenere vari disturbi psicopatologici, come la depressione e l’ansia, Wells ci ha fornito molti spunti di riflessione in tal senso, soprattutto in termini di trattamento. Ricordiamo, infatti, che la detached mindfulness e il training attentivo sono tra gli strumenti più potenti che un terapeuta deve conservare nella sua cassetta degli attrezzi per aiutare il paziente nel ripristino di uno stato mentale funzionale e adattivo.
Ruminazione e metacredenze sulla condivisione
Tornando alla ruminazione, come tentativo di controllo dell’emozione negativa, essa si associa molto spesso alla “social sharing of emotion”, cioè la condivisione sociale delle emozioni. Secondo gli studi di Rimé essa si verifica rapidamente, di solito nella stessa giornata e ripetutamente, con diverse persone, tutti abbastanza intimi. Basta ripensare ai nostri ultimi due, tre giorni: quante volte ci è capitato di chiamare una persona cara per condividere quel momento emotivamente saliente? E quante volte quello stesso evento è stato raccontato anche ad altre persone?
La condivisione sociale, al pari della ruminazione, rientra tra i tentativi di regolare una perturbazione emotiva allo scopo di alleviare la sofferenza che ne deriva e diventa, quindi, una strategia di coping a tutti gli effetti, come descritte da Lazarus e Folkman (1984). Ma siamo davvero certi che sia di aiuto? Uno studio di Emmanuelle Zech (2000) ha mostrato che condividere le esperienze emozionali negative poggia su una metacredenza positiva relativa al potere risolutivo della sofferenza personale e questo favorisce l’apertura, cioè la disclosure interpersonale ma, in realtà, essa mantiene alta l’intensità emotiva.
Ritornando al nostro esempio, siamo, infatti, davvero certi che quella telefonata di condivisione ci abbia aiutato? Oppure si è trasformata in una co-ruminazione interminabile che, probabilmente, ha anche amplificato l’intensità dell’emozione negativa?
Sembra che vi sia una relazione tra la ruminazione intraindividuale e la condivisione sociale, chiaramente interpersonale: la prima prepara la seconda (Nolen-Hoeksema e Davis, 1999). Nella pratica clinica, infatti, spesso ci si imbatte in pazienti che attuano un coping comportamentale, come ad esempio un evitamento, in seguito ad una ruminazione cognitiva su un tema in particolare. Ad esempio i pazienti evitanti rinunciano ad una festa dopo aver pensato a quanto si sarebbero potuti sentire esclusi oppure pazienti che iperinvestono dopo essersi rappresentati scenari in cui la propria immagine è terribilmente compromessa da un errore.
Ruminazione condivisa: crea affiliazione
In quanto attività sociale, la condivisione può avere degli effetti notevoli anche nel ricevente, cioè in colui che ascolta e assimila le informazioni: l’ascolto dell’evento potrebbe attivare un processo di empatia che può portare l’ascoltatore stesso alla necessità di doversi aprire a sua volta alla condivisione con il rischio, però, che vi sia un’attivazione emotiva anche molto intesa. A racconta qualcosa a B e, a questo punto B, dopo aver ascoltato, si sente di dover condividere qualcosa, magari di affine ma, nel raccontarlo, prova nuovamente rabbia, vergogna, paura.
L’aspettativa di un effetto benefico della condivisione sociale, quindi, non trova corrispondenza nella realtà. Già nel momento stesso in cui rievochiamo l’episodio da narrare, magari con tanti dettagli, e con una serie di immagini vivide, si riattiva la sofferenza emotiva e si deprime l’umore, proprio come quando ruminiamo: il sollievo è soltanto momentaneo e molto difficilmente ci sentiamo davvero sollevati. L’informazione emotiva, infatti, si distribuisce su un livello mnestico sia di tipo verbale-concettuale sia analogico e associativo (Power e Dalgleish, 1997) mantenendo così la riattivazione potenzialmente forte dell’emozione anche in fase di ricordo. Ogni ricordo, quindi, porta con sé non soltanto l’evento ma anche l’emozione e anzi, talvolta, quest’ultima è più forte. I ricordi vanno assimilati e ricodificati in modo da lavorare sulle conseguenze collaterali dell’emozione come il senso di impotenza, di destabilizzazione, perdita di autostima, ecc. Questi effetti, secondo Rimé, sono meno devastanti di quelli centrali ma sono ugualmente presenti e sono quelli che maggiormente conducono al bisogno di condividere socialmente l’esperienza. Per superare l’effetto centrale, bisogna invece modificare gli schemi di realtà ed integrare le nuove informazioni all’interno di schemi preesistenti.
Se quindi la condivisione non porta alla risoluzione emozionale, perché molte persone affermano di trarne beneficio? Pare che si faccia perché spinti da un bisogno di affiliazione e di pura condivisione che è molto lontano dall’elaborazione, dalla ridefinizione e riorganizzazione interna dell’evento e dell’emozione. In altre parole, resta una condivisione sociale con pochi effetti di regolazione vera e propria. Altri autori hanno approfondito il tema della condivisione sociale secondaria e terziaria che segue la condivisone sociale descritta fino ad ora, la cui caratteristica è di attuare un circuito empatico che crea vicinanza e condivisione ma la cui funzionalità in termini di elaborazione emotiva resta discutibile.
In conclusione: in quanto esseri sociali tendiamo a condividere con l’ingenua convinzione che questo possa aiutarci a ripristinare lo stato interno, cioè tornare ad una condizione precedente (recovery) ma questo non sempre accade. Quindi se da un punto di vista sociale, la condivisione sociale aiuta a rafforzare i rapporti umani, quindi dà benefici sociali, non sempre conferisce benefici personali.