Ci sono di quelle questioni cliniche di cui discuti per tutta la vita e non fai mai pace coi colleghi. Ti appassioni, litighi, ne fai roba di principio, ti convinci da solo di quello che dici, ti ci arrabbi, te ne inorgoglisci, ti senti frustrato e sotto sotto temi di sbagliare.
Un problema che mi ha dato non pochi pensieri, e problemi relazionali, è cosa fare del coping disfunzionale. Mica un problema da poco. Se dico coping disfunzionale suona generico, se invece lo traduco in ciò che è in pratica il concetto arriva. Si parla di: aggressività auto-diretta, aggressività etero-diretta e insomma tanta rabbia, sintomi alimentari, evitamento, workaholism, sottomissione compiacente, pensiero ripetitivo sotto forma di rimuginio per esempio. Si capisce meglio ora, vero?
Se il coping disfunzionale diventa “urgenza”
Si tratta di sintomi, comportamenti problematici e forme di pensiero che fanno danni enormi ai pazienti, a chi li circonda. E, naturalmente, sono per il clinico attraenti come il miele per l’orso. Noi psicoterapeuti abbiamo fame di guarire, di risolvere i problemi, cerchiamo sofferenza già attrezzati come Manny Tuttofare – il piccolo aggiustatutto dei cartoni animati per bambini -. Se preferite personaggi più adulti: “Sono Mr. Wolf, risolvo problemi”.
Tutto diventa estremamente difficile da discutere se il clinico nomina la parola d’ordine: “È un’urgenza”. Il termine urgenza ha un suono di per sé minaccioso e evoca pensieri ed emozioni come: catastrofe, responsabilità, imperizia, colpa. Se non risolvo il problema “urgente” il paziente potrebbe farsi male o causare danno agli altri.
Si taglia. Fa esercizio fisico compulsivo, potrebbe infortunarsi. La moglie lo minaccia fisicamente, se non si separa subito rischia la vita. Picchia la compagna. Gioca d’azzardo. Si droga. Non ha il controllo sulla rabbia, rischia di perdere il lavoro.
Di fronte al problema “urgente”, coi clinici si ragiona meno facilmente. Vedono il problema sintomatico, regolatorio, comportamentale e ci si buttano su. Come uno che al secondo giorno di dieta viene portato a forza in una trattoria romana di fronte alla carbonara. Vallo a trattenere.
Potrebbe venire in mente a una persona sana di mente di non considerare il coping la vera priorità del trattamento?
Ehi, ci sono anche prove empiriche al riguardo. Voglio dire, tutte quelle pubblicazioni sull’efficacia della DBT. Target principali: sucidio, atti-autolesivi, rabbia. Coping, coping, coping. Mira il coping, funziona, Giancarlo, che vuoi di più?
E la CBT potenziata per i disturbi alimentari? Funziona pure quella no? Sintomo alimentare, cura del sintomo alimentare, riduzione del problema alimentare. Valla a contestare una logica del genere.
Eppure questa logica non mi ha mai convinto, attirandomi storicamente non poche critiche. Sì, ragioni pure raffinato, ma la priorità è nel sintomo perché bisogna proteggere il paziente.
Il coping disfunzionale nella formulazione del caso
Io la vedo diversamente, è una questione di finezza della formulazione del caso, e se il caso lo formuli bene il trattamento funziona. L’esercizio intellettuale fine a se stesso mi disturba, mi irrita: se ragiono sul funzionamento del paziente è perché voglio farlo stare bene prima, in modo più stabile e con più probabilità di successo.
E quindi il coping non è l’obiettivo del trattamento.
Ma come, significa che se il paziente si taglia, si abbuffa, aggredisce la partner, si droga, evita, si dà al sesso compulsivo, magari non protetto, lo lasci fare?
No. Specialmente se il coping è comportamentale ed è pericoloso per il paziente stesso e per gli altri. È necessario come primo passo formulare un contratto in cui il paziente capisca che quel comportamento non è benefico e sappia che in qualche modo la terapia tenderà a ridurlo. Al di là dei casi più estremi (potenziali sucidi o omicidi, anoressiche sottopeso a rischio vita o scompenso metabolico sono alcuni esempi) ragioniamo nel modo che segue.
Il coping disfunzionale è il punto del funzionamento del paziente da cui si imposta la terapia. Ma non per ridurre il coping.
Perché?
Il coping è una forma di gestione della sofferenza. Funziona da schifo, ma è una protezione, uno scudo, un’armatura, filo spinato elettrificato. Lo togliete e cosa ottenete: di mettere la sofferenza a nudo, solo che lo state facendo con persone che non hanno altri strumenti. In altre parole, se riduco la rabbia al paziente e quello è l’obiettivo primo della terapia, perché ho condiviso con il paziente che la rabbia è tossica, danneggia sé e gli altri, cosa sto dicendo? Che è causa del suo mal e pianga sé stesso.
Pensiamo agli autori di violenza domestica. Vogliamo che smettano di essere aggressivi con la partner? Ci mancherebbe! Ma per avere successo, e farlo in modo stabile, bisogna non considerare l’aggressione in sé come problema. L’aggressione è l’emersione del problema, che esiste a monte.
Coping disfunzionale: cosa possiamo fare come terapeuti
E la terapia deve andare a monte. Insomma, non vogliamo depurare l’acqua sporca, ma ridurre la fonte di inquinamento alla sorgente.
Come?
Cosa facciamo?
Partiamo dal coping. Questo sì, necessariamente. Validiamo, qualunque esso sia, il comportamento di coping. Capisco che lei si tagli per calmarsi. Capisco che se si sente ferito e umiliato provi una rabbia feroce per la sua compagna e abbia il desiderio di sottometterla, fargliela pagare. Capisco che voglia essere magrissima e bella ed essere accettata. Capisco che lavori come un dannato per avere successo o per evitare gli errori. Ci sta, lo farei anche io.
E poi l’esercizio: che succede se, in una circostanza precisa, solo per curiosità, la settimana prossima, prova a non farlo? Non mi interessa che ci riesca, voglio solo che ci provi e si annoti in qualche modo cosa le passa per la mente in quei momenti. E ne parliamo nella prossima seduta.
Il paziente deve avere chiarissimo che non vogliamo fare sparire il coping, non ci interessa. Vogliamo solo capire cosa la causa e lo rende automatico, potente, imperativo, indispensabile.
Vogliamo quindi migliorare il monitoraggio metacognitivo, la consapevolezza delle cause dell’azione.
Un mio paziente, Matteo, soffriva di dipendenza sessuale e affettiva. Stava impazzendo dietro una donna impossibile. E nel frattempo aveva la straordinaria capacità di rimorchiare una quantità di donne impressionante. Gli ho proposto un semplice esercizio. Nella settimana prossima, quando sta per prendere il telefonino per vedere se Veronica le ha scritto, provi a non farlo. E mi dica che le succede. Nelle settimane successive l’esercizio diventerà: quando torna a casa dal lavoro sappiamo che le viene lo stimolo a scrivere a qualche donna per uscirci la sera. Provi a non farlo, per 5 minuti, 10, mezz’ora. Solo per capire come si sente in quei momenti.
Dopo due mesi la relazione con la donna impossibile è finita. La dipendenza sessuale si è ridotta. Cosa è successo. Il paziente ha scoperto che prima di cercare relazioni era preda di un’idea di sé come: incapace, inferiore, solo. Era governato da emozioni di: ansia, vergogna, colpa. E ha capito che la strategia di dipendenza o rimorchio compulsivo servivano a: staccare la testa dalle emozioni dolorose, evitare di affrontare i problemi sul lavoro e restaurare in modo narcisistico l’immagine di sé che i genitori avevano sempre minato. A quel punto la terapia non era mirata sulla riduzione del coping. Ma: quando contattiamo le idee nucleari di sé incapace, inferiore e solo, come possiamo trattarle.
Ostacolando il coping si accede alle parti sane: scopri che in quei momenti in cui ti astieni dal comportamento problematico puoi entrare in contatto con altre idee di te, più benevole. O puoi farle emergere col terapeuta. O puoi regolare in modo più sano le emozioni dolorose che le accompagnano. A quel punto il coping diventa un problema secondario, la terapia mira a smontare gli antecedenti di meccanismi protettivi e i comportamenti protettivi non sono più necessari.
Ora se il paziente continua ad adottare il coping, succede di fatto, sotto forma per esempio di evitamento o pensiero ripetitivo, lo si può bersagliare: il paziente sa perché lo adotta, sa che è un meccanismo protettivo ma insieme al terapeuta è consapevole che è necessario un lavoro specifico per abbandonarlo.
In Terapia Metacognitiva Interpersonale abbiamo sempre lavorato per modificare gli schemi interpersonali maladattivi alla radice della sofferenza soggettiva (Dimaggio et al., 2013).
I primi studi di efficacia che abbiamo pubblicato, apparsi negli ultimi due anni (Dimaggio et al., 2017; Gordon-King et al., 2018; Popolo et al., 2018) ci hanno detto una cosa in più: eravamo capaci di ridurre i sintomi e migliorare le strategie regolatorie. In altre parole, lavorando sulle strutture di personalità andavamo a cambiare il coping e ridurre i suoi effetti nocivi. Puntando alla radice della sofferenza. La logica ha un senso.