La Terapia Metacognitiva Interpersonale con la sua costante attenzione alla relazione terapeutica e il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo può essere considerata una valida opzione di trattamento per persone con patologie croniche che non sono in grado di rispettare un’adeguata adesione al trattamento.
L’ adesione al trattamento nelle patologie croniche: lo stato dell’arte
L’ aderenza del paziente alle prescrizioni mediche è una delle condizioni critiche per il successo terapeutico nella gestione delle malattie croniche, come il diabete, l’ipertensione, le cardiopatie, la BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva) e l’asma e nella gestione del dolore cronico, delle nefropatie e delle malattie infiammatorie croniche intestinali.
Una terapia subottimale non riesce a trasferire al paziente i suoi potenziali effetti positivi e comporta quindi conseguenze per l’individuo, in termini di perdita di opportunità di salute e aumento di mortalità e morbilità, e conseguenze per la società, in termini di risorse sprecate, di maggiori carichi per i servizi sanitari e maggior numero di ricoveri ospedalieri.
Solo il 50% dei pazienti in terapia per malattie croniche segue le prescrizioni, mentre nell’asma e nella BPCO le percentuali variano dal 22 al 78%; quando si parla di terapie antiretrovirali per l’HIV, sono stati riportati valori che vanno dal 26 al 94%.
In Europa si stima che la mancata adesione al trattamento causi circa 200.000 morti l’anno e gravi sulla spesa sanitaria per circa 80 miliardi di euro l’anno.
Il miglioramento dell’ adesione al trattamento costituisce un fattore chiave per affrontare il cambiamento demografico e la sostenibilità futura dei sistemi sanitari dal momento che l’aumento dell’aspettativa di vita ha portato ad una maggiore incidenza di patologie croniche e conseguentemente maggiore necessità di terapie a lungo termine.
Le cause della scarsa adesione al trattamento sono molteplici; in particolare sono state individuate 5 dimensioni dell’aderenza: fattori socioeconomici; fattori legati al sistema sanitario ed al team di operatori sanitari; fattori legati alla condizione patologica; fattori legati al trattamento; fattori legati al paziente.
Il modello attualmente più utilizzato valuta le barriere all’ adesione al trattamento come conseguenze delle interazioni tra paziente, operatore sanitario e sistema sanitario, individuando nella centralità del rapporto medico-paziente la chiave dell’aderenza.
Non c’è profilo di paziente aderente o non aderente. L’età, il sesso, il livello educazionale, l’occupazione, lo stato anagrafico, l’etnia, la religione, il fatto di vivere in contesti urbani o rurali non sono stati associati in maniera inequivoca all’aderenza.
La presenza di una comorbidità psichica espone, invece, ad un rischio aggiuntivo. Il paziente si caratterizza per la sua storia clinica e sono numerosi i fattori legati alla patologia che possono avere un impatto sull’ adesione al trattamento farmacologico: la gravità della malattia, la presenza e la gravità dei sintomi, l’andamento della malattia, la storia della malattia, le comorbidità, la percezione del paziente relativamente alla patologia.
Anche le caratteristiche intrinseche del trattamento e la percezione del paziente relativamente allo stesso sono fortemente correlate all’ aderenza.
Ma questi aspetti possono avere impatti diversi su pazienti diversi, a conferma del ruolo centrale del paziente e delle sue condizioni. Caratteristiche del paziente correlate a scarsa aderenza terapeutica sono: i disturbi cognitivi; i disturbi dell’umore; l’abuso di droghe ed alcool e la scarsa capacità di reagire alla malattia.
L’ adesione al trattamento nelle malattie trasmissibili
L’ aderenza alla terapia antiretrovirale è di fondamentale importanza per ridurre la morbilità correlata ad HIV e prolungare la sopravvivenza, migliorare la qualità della vita e prevenire la trasmissione.
Nella realtà clinica un’aderenza non ottimale alla terapia antiretrovirale costituisce un problema rilevante.
In alcuni setting specifici, l’ aderenza alla terapia HAART assume un’importanza maggiore: i primi mesi di terapia, la presenza di marcato immunodeficit, l’infezione sostenuta da virus con mutazioni genotipiche conferenti resistenze ad una o più classi di farmaci, la gravidanza, le coppie sessuali discordanti per l’infezione da HIV, le popolazioni più vulnerabili come i migranti, i detenuti, i tossicodipendenti attivi e le persone senza fissa dimora.
In particolare la depressione, i gravi disturbi d’ansia, l’uso di alcol e sostanze stupefacenti riducono la capacità di adottare e mantenere assunzioni regolari dei farmaci prescritti.
La confidenzialità e il rischio di rivelare il proprio stato sierologico sono aspetti che hanno importanti ricadute sull’ adesione al trattamento. Molte persone sieropositive, infatti, riferiscono difficoltà ad assumere farmaci fuori casa, per esempio nel posto di lavoro o comunque in presenza di altre persone, poiché in tal modo possono segnalare la loro condizione.
Un dato ancora attuale è che una rilevante quota di persone in trattamento riportano ai questionari interruzioni di terapia (drug holidays). Questa specifica tipologia di non aderenza predispone, in base alle caratteristiche farmacocinetiche dei farmaci assunti, al rebound virologico sostenuto più o meno frequentemente da virus resistente.
Tra gli effetti collaterali del farmaco, in grado di ridurre l’ aderenza terapeutica, la lipodistrofia ha un impatto notevole: il paziente stesso accetterebbe un rischio superiore di morte pur di evitare la sindrome lipodistrofica, che può peggiorare o causare disturbi psichiatrici condizionando l’efficacia della terapia.
Anche frequenti disturbi sessuali legati alle alterazioni dell’immagine corporea spesso causano la sospensione e la mancata aderenza terapeutica.
Questo riscontro suggerisce che vi sono ostacoli da ricercare prevalentemente nella sfera psicologica. Recenti studi correlano la presenza del tratto alessitimico nei pazienti sieropositivi ad una maggiore replicazione virale e scarsa aderenza terapeutica. Il deficit della capacità di riconoscimento delle emozioni potrebbe essere indice di una compromissione del funzionamento metacognitivo più ampio, così come della capacità di riflettere e ragionare sugli stati mentali e quindi essere un marker in grado di influenzare negativamente la relazione medico-paziente e la capacità di comprendere il reale impatto della malattia sulla propria vita e sugli altri.
Di contro, la percezione della propria capacità di seguire il regime terapeutico e un buon livello del senso di autoefficacia sono associati ad elevata aderenza.
Infine, sono state descritte esperienze di interventi diretti a coppie discordanti eterosessuali ed omosessuali che prevedevano informazioni sulla terapia e sull’ adesione al trattamento, identificazione delle barriere, sviluppo di strategie comunicative e di problem solving, ottimizzazione del supporto sieronegativo e costruzione della fiducia nelle proprie possibilità di aderire in modo ottimale alle prescrizione. I risultati hanno dimostrato un significativo miglioramento dell’aderenza nelle coppie che avevano partecipato confrontate con i controlli ma tuttavia gli effetti si attenuavano nel tempo.
Accanto all’HIV, l’emergenza di ceppi di tubercolosi multiresistente ha portato ad una recrudescenza della tubercolosi come importante minaccia per la salute pubblica. E’ stato riportato che circa il 3,6% dei nuovi pazienti affetti da TBC nel mondo presentano ceppi MDR.
La maggior parte dei pazienti MDR-TB non viene individuata, esponendo la loro famiglia e la comunità al rischio di contrarre ceppi MDR-TB trasmessi attraverso l’aria soprattutto nelle comunità ad alta densità e tra le persone con HIV.
A livello globale, la percentuale di paziente MDR-TB, che termina con successo il trattamento rimane inferiore al 50%. Tra le cause di non aderenza vi sono soprattutto problematiche psicologiche e sociali quali dipendenza da alcol, depressione e stigma. L’emozione più comunemente riportata dal paziente, una volta diagnosticata la TB-MDR, è la paura.
Ciò si riflette nella sensazione che il trattamento antitubercolare sia l’ultima opzione per loro, il che corrobora le loro paure intrinseche dell’efficacia del trattamento MDR-TB con conseguente perdita della propria identità, riduzione dell’autostima, senso di colpa ed isolamento.
L’ adesione al trattamento nelle malattie non trasmissibili
È da tempo noto che il diabete, in particolare il diabete di tipo 2, è una delle condizioni cliniche nelle quali è più facile registrare un basso livello di adesione al trattamento: per esempio, l’accuratezza nell’eseguire la terapia insulinica oscilla tra il 20 e l’80%, l’adesione alle raccomandazioni dietetiche è all’incirca del 65% e quella dell’automonitoraggio glicemico è di poco superiore al 50%; ancora più bassa (inferiore al 30%) è l’aderenza all’esercizio fisico consigliato.
L’ adesione al trattamento dipende da vari fattori, tra cui preminente è la complessità del trattamento stesso, intesa non solo come numero di farmaci da assumere, ma anche e soprattutto come difficoltà a cambiare lo stile di vita: seguire una dieta, praticare esercizio fisico, monitorare la glicemia e, cosa ancora più complicata di effettuare gli opportuni aggiustamenti terapeutici.
Altro importante livello di criticità è da individuare nella carente informazione/formazione fornita ai pazienti dal medico o dal team di cura. Sicuramente lo strumento più efficace per migliorare l’adesione di un paziente con DMT2 è il suo attivo coinvolgimento nella gestione della patologia, attraverso un percorso educativo adeguato.
Una rassegna sistematica di 21 studi clinici controllati sugli interventi atti a migliorare l’adesione alle raccomandazioni di cura nel DMT2, condotta dalla Cochrane Collaboration ha confermato che gli interventi efficaci in questo senso, erano innanzitutto quello educazionale condotto da personale dedicato ma anche l’uso di sistemi di supporto terapeutico nella vita quotidiana e la semplificazione della terapia.
Dai risultati emersi dallo studio DAWN (Diabetes Attitudes Wishes and Needs) si evince come attitudini negative, difficoltà a comprendere la terapia e problemi psicologici come disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e del comportamento alimentare sono piuttosto comuni in persone che vivono con diabete e possono contribuire al fallimento terapeutico.
Molte delle reazioni considerate anomale derivano dalla sfiducia che il farmaco possa essere efficace, dalla paura di effetti collaterali, dalla paura di dover assumere per sempre un farmaco e quindi di dipendere da esso, dalla mancanza di percezione della gravità della propria condizione e da molti altri fattori. Una recente meta-analisi ha dimostrato che un’attività educativa sul self-management della malattia migliora i livelli glicemici già al primo follow-up, e che dei contatti più prolungati potenziano questo effetto. Tuttavia, i benefici si riducono da uno a tre mesi dopo la prima fine dell’intervento, suggerendo che i comportamenti appresi si modificano nel tempo e che sono necessari ulteriori interventi per mantenere il miglioramento ottenuto.
Schlundt, Stetson & Plant hanno diviso in gruppi i pazienti affetti da Diabete tipo 1, in base ai problemi che incontravano nell’aderire alle diete prescritte, e rilevato che due dei gruppi individuati – i mangiatori “emotivi” e i diet-bingers, cioè quelli che sistematicamente evitavano la dieta – mostravano problemi di adesione ai trattamenti che si correlavano ad emozioni negative come lo stress e la depressione.
E’ stato osservato che tra i pazienti diabetici l’incidenza doppia della depressione sfocia spesso in complicanze legate allo scarso controllo dei valori glicemici e alla minore adesione alla self-care rispetto alla popolazione generale. Ott e al hanno inoltre rilevato l’impatto drammatico che la depressione ha sui pazienti adolescenti: ne risultano compromessi l’autostima, le relazioni con gli altri, la sicurezza sociale, col risultato che lo stigma persistente della terapia insulinica e la perdita di controllo di fronte all’ipoglicemia determinano esiti clinici peggiori del previsto.
Al contrario, affrontare lo stigma migliora gli stati emotivi ed i comportamenti di salute. Un recentissimo studio ha riportato che interventi ambulatoriali di 15 minuti incentrati su episodi autobiografici hanno prodotto un incremento dell’ aderenza terapeutica con miglioramento della qualità della vita dei pazienti diabetici.
Numerosi studi hanno documentato in tutto il mondo una scarsa adesione al trattamento per l’asma. La quota di non adesione tra i pazienti asmatici varia dal 30 al 70%. Il fallimento dell’adesione determina un cattivo controllo della malattia, con ovvie conseguenze da un punto di vista clinico, ricorsi più frequenti ai ricoveri ospedalieri ed ai servizi di pronto soccorso ed un inevitabile aumento dei costi per la sanità.
L’Open Airways Programme (sei sedute mensili di 1 ora) istruiva genitori a basso reddito di 310 bambini asmatici delle aree urbane, il 44% dei quali temeva di non essere in grado di affrontare adeguatamente un attacco d’asma e preferiva portare i piccoli al più vicino pronto-soccorso. La partecipazione al progetto ha ridotto sensibilmente i costi di ospedalizzazione. Un recentissimo studio effettuato su 568 pazienti con asma di età compresa tra i 18 e i 56 ha dimostrato ancora l’influenza che la depressione (e una scarsa attività educativa) avrebbe sulla scarsa aderenza ai farmaci corticosteroidei e quindi sugli esiti complessivi della malattia.
Nell’epilessia l’impatto degli effetti collaterali della terapia sulle funzioni cognitive e delle limitate o compromesse capacità cognitive sull’adesione ai trattamenti richiedono maggiore attenzione.
Le dimenticanze del paziente, legate o meno a disturbi della memoria e il rifiuto di assumere farmaci sono i fattori che più comunemente si associano ad una riduzione dell’ adesione al trattamento.
L’associazione delle somministrazioni del farmaco a determinati eventi quotidiani nello schema terapeutico giornaliero, l’uso di aiuti mnemonici, calendari e richiami sonori collegati all’orologio possono rappresentare strumenti utili per migliorare l’adesione ai trattamenti nei pazienti che regolarmente dimenticano di assumere i farmaci. Tuttavia, nella letteratura presa in esame non è stato trovato alcun studio che dimostrasse quanto appena riferito.
Ci sono forti evidenze che suggeriscono come i programmi di autogestione della malattia forniti ai pazienti affetti da patologie croniche migliorino lo stato di salute e riducano il ricorso ai servizi.
L’educazione terapeutica al paziente dovrebbe permettere secondo al definizione dell’OMS “di acquisire e mantenere la capacità e le competenze che lo aiutano a vivere in maniera ottimale con la sua malattia”.
L’educazione all’ aderenza terapeutica è quindi un processo permanente, integrato alle cure e centrato sul paziente. Tuttavia, i diversi modelli teorici di riferimento ed i programmi disponibili per il supporto psicologico alla terapia suggeriscono che nessuno di essi è in grado di arginare il fenomeno della non aderenza. Nasce l’esigenza di sviluppare interventi che partano dalla conoscenza dei reali aspetti psicologici della non aderenza. Interventi che possono essere adattati al singolo paziente a partire dai suoi bisogni.
La terapia metacognitiva interpersonale: un modello per la scarsa aderenza
La Terapia Metacognitiva Interpersonale sviluppa il percorso terapeutico sulle narrative personali con l’obiettivo di aiutare i pazienti a divenire consapevoli di modalità ricorrenti di costruire significati e sostenerli nell’adottare nuove prospettive per accedere agli scopi desiderati.
La Terapia Metacognitiva Iinterpersonale, principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è già stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma.
Al fine di adattare la Terapia Metacognitiva Interpersonale alle persone affette da patologie croniche ma non aderenti alle terapie, abbiamo introdotto una parte preliminare di psicoeducazione e di attività di pianificazione e strategie volte al mantenimento dell’aderenza terapeutica.
La psicoeducazione include argomenti riguardanti l’efficacia delle opportunità terapeutiche, evidenziando che l’efficacia è strettamente correlata ad una perfetta aderenza ai programmi prescritti e la centralità che deve assumere la cura di sé, della propria salute fisica e psicologica.
Bisogna affrontare diversi aspetti della patologia, compresa la rilevanza degli indicatori di progressione e dell’aderenza ed elencare le modalità di assunzione delle opzioni terapeutiche al fine di porre il paziente in grado di impegnarsi attivamente nella gestione della malattia.
Infine, occorre discutere i possibili effetti collaterali dei farmaci ed il modo di affrontarli ed argomentare le implicazioni di un risultato positivo anche a livello relazionale, sociale e lavorativo.
Una volta chiarito il regime terapeutico, l’intervento comprende azioni specifiche di pianificazione delle attività: potrebbe essere utile iniziare con un “dry run” (periodo di prova con farmaci fittizi per vedere come organizzare la routine); pianificare il regime terapeutico sulla base dello stile di vita del paziente identificando le attività che vengono svolte quotidianamente, utilizzando soprattutto attività che vengono sempre fatte (ad esempio portare i bambini a scuola); stabilire che il farmaco andrebbe preso prima di eseguire l’attività (farsi la barba) e non dopo (anche usare una suoneria per ricordarsi quando assumere le compresse); mostrare al paziente come tenere un diario dei farmaci (una pagina al giorno, segnando quando ha preso le medicine, quando le ha saltate, perché e come si sente); aiutare il paziente ad identificare un momento per contare le compresse (ad esempio domenica sera preparare le porzioni per tutti i giorni della settimana); stabilire un luogo dove prendere le pillole (collocare le pillole dove andranno prese, ad esempio vicino la tazza del caffè), ricordando che le dosi della sera tendono ad essere dimenticate più facilmente rispetto a quelle del mattino; infine programmare per tempo eventuali cambiamenti della routine (vacanza e cambiamenti del lavoro).
Se i pazienti non rispondono alla psicoeducazione e alla pianificazione delle attività si passa alla seconda fase del trattamento in cui, attraverso l’utilizzo del diario giornaliero, si valutano insieme al paziente i momenti ripetuti di non assunzione del farmaco.
Questi momenti diventano il focus della psicoterapia. Il terapeuta esplora costantemente lo stato della relazione terapeutica, al fine di capire se l’alleanza terapeutica è minacciata, caratteristica della Terapia Metacognitiva Interpersonale è infatti adattare gli interventi alle capacità metacognitive del paziente con particolare attenzione alla relazione terapeutica. I pazienti sono invitati a riflettere sugli episodi relazionali accaduti poco prima della mancata assunzione del farmaco con descrizioni accurate della sofferenza e dei fattori nei quali emerge riportando il resoconto dettagliato degli episodi concernenti le relazioni interpersonali. Un episodio narrativo si svolge entro precisi confini spaziali e temporali e devono essere identificati gli attori presenti in scena, il dialogo che la persona intraprende con loro e il motivo per cui la storia si racconta.
Una volta identificate le motivazioni reali della mancata aderenza, l’obiettivo terapeutico diventa duplice: offrire al paziente strategie alternative per affrontare i momenti di non adesione al trattamento (con tecniche che siano coerenti con le capacità metacognitive del paziente) e collegare i problemi relazionali con i modelli di funzionamento di personalità del paziente in modo da aiutarlo ad acquisire una più profonda comprensione del suo mondo interiore e successivamente promuovere il cambiamento.
Abbiamo utilizzato la Terapia Metacognitiva Interpersonale nel caso di un paziente affetto da infezione HIV, con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale.
La scarsa aderenza era confermata dalla costante replicazione virale e dall’insorgenza di patologie opportunistiche AIDS correlate.
Il paziente nel corso della sua vita aveva assunto diversi regimi terapeutici senza mai raggiungere la piena risposta in termini di soppressione virologica. Nel complesso si presentava con gravi difficoltà a ragionare sui suoi stati mentali e le sue abilità per risolvere i conflitti interpersonali erano molto limitate. In una prima fase riportava in seduta esclusivamente episodi di rabbia distruttiva come responsabili della scarsa adesione al trattamento. Dopo una prima fase di gestione del disturbo d’ansia, si cerca di motivare il paziente sul raggiungimento dell’azzeramento virologico come obiettivo primario della terapia ma egli non si mostra sensibile alle tematiche di psicoeducazione poiché non ritiene di essere responsabile della sua condizione clinica ma piuttosto si definisce vittima di un ceppo di HIV particolarmente virulento ed aggressivo, impossibile da controllare.
Attraverso l’utilizzo della scheda pianificata per il monitoraggio terapeutico, individuiamo insieme i momenti di non assunzione della terapia antiretrovirale. Sono momenti serali, legati al rientro a casa, in presenza di una compagna definita “rigida ed austera” ed in grado solo di “sfruttarlo economicamente”.
Realizza di sentirsi costretto in una relazione che non desidera ma che lo allontana dal senso di solitudine e disperazione. Al fine di superare l’angoscia, dedica molto tempo a chat online in cui si presenta con altre identità creando stati temporaneamente piacevoli ma che esasperano i suoi sentimenti di impotenza e vergogna. Sono questi i momenti più frequentemente correlati alle “dimenticanze” delle dosi terapeutiche. Conclusa la psicoeducazione quindi, la procedura di Terapia Metacognitiva Interpersonale consiste in una prima parte denominata formulazione condivisa del funzionamento in cui i pazienti, una volta individuati i momenti di non aderenza, sono aiutati per prima cosa ad identificare e dare un nome ai sentimenti associati a questi episodi, capire gli stimoli emotivi e raccogliere una serie di memorie autobiografiche associate per riconoscere e ricostruire gli schemi interpersonali sottostanti. Nel caso specifico, Il nostro paziente ricorda dettagliati episodi autobiografici di rifiuto sin da bambino. Anche da adulto, al momento della diagnosi di infezione da HIV, il paziente ricorda vissuti di abbandono da parte di familiari e partner. Il desiderio del paziente quindi è quello di essere amato ed accettato, ma la risposta dell’altro è il rifiuto e l’austerità. La sua risposta alla reazione dell’altro è un misto di vergogna, paura di essere abbandonato definitivamente ed umiliazione che lo portano ad utilizzare meccanismi di coping disfunzionali per lenire il dolore.
La formulazione condivisa del funzionamento si considera completata quando il paziente riconosce quel suo schema come generatore di sofferenza e di problemi e desidera cambiare. È a questo punto che il paziente è in grado di differenziarsi dall’immagine di sé come non degno di amore e adottare nuovi comportamenti coerenti con il senso di autostima. Il ruolo del terapeuta diventa quello di aiutare il paziente a comprendere come le proprie idee su quello che succede nelle relazioni con gli altri non sono necessariamente vere ma possono essere diverse se guardate da un’altra prospettiva. In particolare, durante la seduta si aiuta il paziente ad accedere a stati mentali positivi e a parti di sé funzionanti. Nel corso dei mesi di terapia, il paziente è stato sempre partecipe dei suoi parametri biologici, è al corrente dell’incremento dei suoi linfociti grazie all’aderenza terapeutica mantenuta e scopre di essere in grado di avere un controllo della malattia ed un ruolo sulla sua evoluzione. Il paziente comprende, inoltre, che cedere denaro alla compagna ed autosacrificarsi sono modalità ricorrenti utilizzate per sentirsi accettato ma che incrementano la sua rabbia, emozione che riconosce più facilmente.
Il paziente decide di interrompere la relazione con la compagna affrontando il senso di abbandono e la solitudine e si espone a situazioni relazionali prima temute, sperimentando momenti di piacere, calore ed accettazione. Sperimenta il senso di autoefficacia e di appartenenza al gruppo attraverso esercizi di esposizione concordati con il terapeuta.
Il paziente si riconosce come autore degli accadimenti e capace di prendersi cura di sé attraverso la gestione della malattia, il che si traduce in un lento e progressivo cambiamento del modo di porsi rispetto agli eventi della vita quotidiana.
Solo dopo essersi riconosciuto come autore del cambiamento, il paziente è sensibile ai temi di psicoeducazione relativi alla sua patologia, alla loro valenza relazionale e desidera mantenere i benefici dell’aderenza terapeutica acquisendo abilità di problem solving flessibili.
Dopo 2 anni di trattamento, il paziente ha raggiunto la soppressione virologica ed un buon compenso immunologico con remissione clinica delle patologie AIDS correlate.
L’applicazione su un caso singolo sostiene la necessità di replica su popolazioni più ampie ed eterogenee tuttavia gli eccellenti risultati ottenuti confermano che la Terapia Metacognitiva Interpersonale con la sua costante attenzione alla relazione terapeutica e il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo può essere considerata una valida opzione di trattamento per persone con patologie croniche che non sono in grado di rispettare regimi terapeutici complessi.