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La cura del Sé traumatizzato – Intervista a Ruth Lanius

Intervista a Ruth Lanius, autrice del libro 'La cura del Sé traumatizzato': le sue parole per meglio comprendere il trattamento di trauma e dissociazione.

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 20 Mar. 2017

Il libro di Ruth Lanius, La cura del Sé traumatizzato, è un compendio della sua esperienza clinica e del suo impegno come ricercatrice in tema di trauma e sintomi dissociativi. Abbiamo intervistato l’autrice per lasciare alle sue parole la descrizione del libro e del suo metodo di lavoro.

 

 

L’ultimo libro di Ruth Lanius e Paul Frewen “La cura del sé traumatizzato” è da pochissimo uscito in Italia, edito da Giovanni Fioriti Editore e tradotto da Giovanni Tagliavini, e offre finalmente ai cultori del tema una nuova occasione di approfondimento, scambio e confronto su trauma complesso e disturbi dissociativi.

Durante il workshop tenutosi a Milano lo scorso 24 e 25 Febbraio, organizzato da Btl Workshop, è stato possibile acquisire dal vivo racconto della Dott.ssa Ruth Lanius una panoramica dettagliata delle tecniche più efficaci nella cura del trauma e delle più recenti ricerche in neuroscienze e neurofisiologia, permettendo a tutti i clinici presenti, seppur appartenenti a diversi orientamenti teorici, di comprendere e fare luce sui meccanismi fisiologici che sottostanno ai sintomi dissociativi e più in generale ai sintomi da stress post traumatico.

Il libro di Ruth Lanius è un compendio di tutto questo: della sua esperienza clinica e del suo impegno come ricercatrice, appassionata e rigorosa, nella comprensione dei fini meccanismi psicologici, biologici  e ambientali che regolano la relazione tra mente, corpo e cervello, in una cornice neuro fenomenologica che tiene conto dell’evoluzione e dell’adattamento individuale e personale alla vita.

 

Intervista a Ruth Lanius

Alle parole di Ruth Lanius la descrizione del libro e del suo metodo di lavoro.

 

Intervistatrice: Come ha sottolineato più volte nel corso del workshop, fare la diagnosi giusta è cruciale per i pazienti traumatizzati ed è cruciale per i clinici nella scelta dei trattamenti più efficaci a disposizione. Spesso è tuttavia difficile intercettare sintomi dissociativi o trauma-correlati, se non si è esperti conoscitori di quest’area della psicopatologia. Quali sono le domande più importanti e significative che esplora durante le primissime sedute, per essere certa di individuare la presenza di dissociazione sotto la superficie dei sintomi depressivi o di ansia o dei tratti di personalità? Come usa il suo Modello quadridimensionale nell’assessment?

Ruth Lanius: Di solito inizio esplorando la dimensione del tempo e chiedo ad esempio “Le capita qualche volta di perdere alcuni momenti della sua giornata?” e cerco di approfondire episodi specifici per quantificarlo; se si tratta di qualche secondo, so che parliamo di episodi non significativi, ma quando i miei pazienti mi riferiscono di perdere minuti, ore o addirittura giorni, subito so che lì c’è un problema dunque di alterazione della coscienza e di non-integrazione. Qualche volta mi capita anche semplicemente di chiedere:  “Mi dica qualcosa sulla sua percezione del tempo?” e se c’è una dissociazione grave spesso ricevo come risposta “Non ho in realtà alcuna percezione del tempo che passa”.

La seconda area che esploro è a dimensione del pensiero e di certo chiedo al paziente se ha avuto o ha attualmente l’esperienza di sentire le voci. Ovviamente i pazienti possono essere spaventati o vergognarsi, perciò quello che chiarisco sempre quando faccio questa domanda è che sentire le voci non vuol dire “essere pazzi”, ma che al contrario si tratta di una esperienza molto frequente quando una persona ha vissuto nella vita situazioni gravemente traumatiche, soprattutto se durante nell’infanzia. Credo che una delle caratteristiche distintive tra voci dissociative e voci più tipiche delle psicosi è la presenza di voci bambine; se è presente almeno una voce bambina, di solito sono più orientata a valutare la presenza di un disturbo dissociativo piuttosto che psicotico.

Poi esploro la dimensione del corpo e chiedo ai miei pazienti se qualche volta capita loro di sentirsi fuori dal corpo o di sentire che il corpo non appartiene affatto a loro e in genere questo secondo tipo di risposte mi suggerisce che c’è una dissociazione più grave e più complessa, poiché credo che la sensazione di non avere o non riconoscere il corpo come proprio abbia più direttamente a che fare con l’identità: è molto diverso dire “Mi sento fuori dal MIO corpo” o dire “Sento di non avere un corpo o che il MIO corpo non mi appartenga davvero”, poiché nel primo caso il corpo è ancora percepito come proprio, nel secondo il corpo non lo è e questo indica più frammentazione. E infine circa la dimensione delle emozioni, chiedo di solito se capita di vivere sensazioni di ottundimento (numbing), o di non sentire nessuna emozione rispetto ad alcuni eventi, ed esploro anche la presenza di compartimentalizzazione emotiva. In questo caso ad esempio chiedo “Le capita qualche volta di vivere intense emozioni, ad esempio rabbia, e di non ricordare affatto di averle provate?”. E’ abbastanza frequente per i pazienti dissociativi non riuscire a ricordare di essersi arrabbiati finché un partner o un familiare non glielo riferisce; più spesso hanno un vago ricordo di aver perso il controllo, ma non riescono a recuperare nella memoria neppure l’innesco del litigio. Come clinici sappiamo che quando le emozioni non sono dentro la coscienza e in controllo consapevole delle nostre aree corticali, può succedere che non venga fissata alcuna memoria cosciente degli eventi che le coinvolgono.

Tutte queste domande sono solo alcuni esempi che possono aiutare a raccogliere una “breve storia di sintomi dissociativi” da approfondire e valutare nel contesto emotivo e relazionale in cui si manifestano. Inoltre questo ultimo esempio mostra come ogni sintomo può essere più significativo se osservato attraverso più dimensioni, come in questo ultimo esempio in cui una grave compartimentalizzazione coinvolge sia la dimensione del tempo (e dunque della memoria) che quella delle emozioni.

 

Intervistatrice: Quale è stata la sua principale motivazione nella scrittura di questo secondo e importante testo sui disturbi della coscienza e sul trattamento del trauma?

Ruth Lanius: Allan Schore mi aveva chiesto di dare il mio contributo ad una collana sulla neurobiologia interpersonale proprio sul tema della dissociazione e dal momento che con il mio gruppo di ricerca avevamo raccolto molti dati di neuroimaging e io stessa avevo maturato molta esperienza clinica diretta nel campo della dissociazione, con Paul Frewen abbiamo iniziato a pensare alla possibilità di organizzare le nostre conoscenze in un libro.

Questo è stato molto importante per noi, perché il tema della dissociazione non è un tema molto trattato, soprattutto in psichiatria e psicologia. La nostra motivazione principale è stata dunque quella di uscire con un libro che potesse guidare direttamente i ricercatori perché penso che abbiamo disperato bisogno che la ricerca sperimentale sulla dissociazione diventi mainstream e più popolare nei sistemi accademici. Il nostro problema, specialmente in Nord America, è che la dissociazione non viene studiata abbastanza nelle università e proprio da questo è scaturito il nostro desiderio di offrire una cornice di riferimento che potesse far emergere di più questo tema. Sono convinta inoltre che per essere buoni terapeuti sia necessario comprendere come funzionano i processi integrativi e le alterazioni della coscienza, mentre al contrario credo che molte persone e clinici ne siano soprattutto spaventati. Insomma, il modello che proponiamo può essere d’aiuto sia a ricercatori che a clinici di ogni orientamento.

 

Intervistatrice: Nel suo libro parla di Neurofenomenologia come metodo, cosa intende con questo?

Ruth Lanius: Io credo che il punto più critico nel nostro lavoro sia comprendere la biologia all’interno delle esperienze soggettive dei pazienti. Per esempio, sulle memorie traumatiche: se quando ricordi un trauma hai improvvisamente flashback e una risposta di iper-arousal, il tuo battito cardiaco aumenterà e avrai attivo uno specifico pattern nel cervello; quando invece si richiama il ricordo di un evento traumatico, questo provoca una reazione di spegnimento (shut down), esperienze fuori dal corpo e finisci per allontanare te stesso da quella memoria perché è troppo soverchiante, dal punto di vista neurobiologico la reazione è completamente diversa. In questo caso il battito cardiaco non aumenterà e anche le reti cerebrali attive saranno diverse.

Quello che penso è che possiamo capire meglio la biologia, se comprendiamo anche le risposte individuali in momenti specifici, come reazioni ad un particolare stimolo. Abbiamo davvero bisogno di combinare le due osservazioni, e penso che qualche volta ci perdiamo nella ricerca e tendiamo a cercare “punteggi medi” di tutto, anche se questo non corrisponde sempre a come funzionano gli esseri umani. Non possiamo come ricercatori ridurre tutto alla ricerca di risposte che siano “nella media”, ma per comprendere meglio la relazione mente-corpo-cervello abbiamo bisogno di considerare contemporaneamente e in modo integrato sia la risposta soggettiva che i pattern neurobiologici correlati ad essa. Questo è il metodo che chiamiamo neurofenomenologia.

 

Intervistatrice: Ha parlato di terapie centrate sul presente e terapie centrate sul passato nel trattamento del trauma. Quali sono, nella sua esperienza clinica e di ricercatrice, le più efficaci ed evidence based terapie presenti nel panorama scientifico attuale?

Ruth Lanius: Credo che sia molto eccitante il fatto che la ricerca stia iniziando a mostrare buoni risultati sia delle terapie centrate sul presente che di quelle centrate sul passato. In generale mi pare che i clinici siano stati a lungo molto poco formati ed è bello vedere che questo sta cambiando. Quello che sappiamo sulle terapie centrate sul presente è che la Mindfulness si è mostrata efficace sullo stress post traumatico, che abbiamo ad oggi anche una versione della DBT riadattata al trauma (Terapia Dialettico-Comportamentale di Marsha Linehan), in cui ci sono parti del protocollo DBT centrati sul presente che sembra aiutino nella cura del trauma complesso. Queste sono le principali evidenze che emergono dalla ricerca, ma credo che presto ne arriveranno molte di più. Stanno emergendo inoltre molte evidenze scientifiche anche sull’efficacia dello yoga come trattamento centrato sul presente.

Rispetto alle terapie centrate sul passato invece abbiamo un ampio numero di trattamenti risultati efficaci nell’elaborazione delle memorie traumatiche: EMDR, la Cognitive Processing Therapy, la terapia dell’Esposizione Prolungata e accanto a queste anche la Terapia dell’Esposizione Narrativa. Più tecniche abbiamo, più riusciamo a personalizzare i trattamenti sulle esigenze dei singoli pazienti.

 

Intervistatrice: Sappiamo che sta conducendo ricerche sull’efficacia del Neurofeedback. Cosa racconta nel libro su questo?

Ruth Lanius: Nel libro menzioniamo uno studio recente che dimostra come il Neurofeedback sia efficace nel trattamento del  Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD). Potremmo dire che si tratta di una terapia centrata sul presente, ma più basata sulla stimolazione neurale e abbiamo raccolto nel nostro gruppo di ricerca alcuni risultati preliminari interessanti: sembra che il Neurofeedback riesca a modificare alcuni circuiti neurali critici responsabili dell’attivazione dei sintomi da stress post traumatico e alcuni network coinvolti nelle attività di mentalizzazione legate al sé e alla valutazione di stimoli interni o esterni rilevanti per l’individuo, valutazione che guida poi i comportamenti. Se il Neurofeedback è in grado di stimolare questi circuiti, allora credo che sia un’altra tecnica utile da aggiungere nelle psicoterapie per il PTSD.

Ormai c’è molto disponibile e molte tecniche validate arriveranno in futuro, quello che ritengo davvero importante è avere un approccio integrato e non lasciarsi guidare da un’unica tecnica, ma di riuscire ad abbracciare un numero ampio di tecniche terapeutiche che possano essere usate in diversi momenti cruciali della terapia. La nostra intenzione con il Modello a 4 Dimensioni descritto nel libro è quella di offrire un modello teorico inclusivo e aperto per tutti, terapeuti e ricercatori, poiché ci piacerebbe che clinici acquisissero più competenze possibili e che mantenessero una approccio integrato rispetto al processo di cura. Credo che questo modo di lavorare renda le vite dei terapeuti più soddisfacenti e porti molti più benefici anche ai pazienti che a loro si rivolgono.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Lanius Ruth, Frewen Paul. La cura del sé traumatizzato. Coscienza, neuroscienze, trattamento. 2017 Giovanni Fioriti Editore, Roma.
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