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L’ alleanza terapeutica nel trattamento del disturbo borderline di personalità

La terapia del Disturbo Borderline di Personalità si basa anche sulla fiducia del paziente verso il terapeuta: centrale diventa l' alleanza terapeutica

Di Guest

Pubblicato il 15 Mar. 2017

Aggiornato il 12 Feb. 2018 13:27

Nella relazione con pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità, la flessione dell’ alleanza terapeutica raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo terapeutico: rievocare tale obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza.

Maddalena Goffredo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

L’ alleanza terapeutica, nonostante sia soltanto una delle variabili della relazione clinica, è probabilmente la più importante ai fini dell’efficacia terapeutica ( Lingardi, 2002, Nocross, 2011, Safran, Muran, 2000).

Essa rappresenta, infatti, il fattore terapeutico aspecifico, ovvero non correlato all’uso di tecniche proprie di specifici orientamenti e modelli psicoterapeutici, con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Diversi autori hanno tentato di dare una definizione specifica del costrutto. In questo articolo tenterò di descriverla e definirla attraverso la rassegna dei vari studi condotti su di essa, nello specifico condotti nelle terapie del disturbo borderline di personalità, il quale risulta essere, per le sue varie caratteristiche, il più vulnerabile alla formazione delle rotture dell’ alleanza terapeutica e delle interruzioni di trattamenti terapeutici (né seguirà una descrizione nella seconda parte dell’articolo).

 

Alleanza terapeutica: definizioni e caratteristiche

Bordin (1979) definisce l’ alleanza terapeutica sulla base dell’esistenza di tre componenti:  l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta, la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento e il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto. Considera il terzo elemento, il legame affettivo quindi, come costitutivo dell’ alleanza terapeutica, e fattore aspecifico di grande efficacia clinica.

Secondo l’autore esso emerge dall’interazione tra due variabili principali: da un lato i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, d’altro lato le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’ alleanza terapeutica e nella conduzione di una terapia avente buon esito; la condivisione degli obiettivi e la chiarezza, circa i diversi compiti del terapeuta e del paziente, assumono maggiore importanza rispetto al legame emotivo, nell’empirismo collaborativo di Beck (1976).

Safran e Segal (1990), come Bordin (1979), hanno indirizzato il loro lavoro alla descrizione del terzo fattore della definizione di Bordin (1979), definendolo  come una qualità dinamica della relazione che il terapeuta deve controllare costantemente in quanto in continua oscillazione. Gli autori propongono di analizzare i marcatori interpersonali insieme agli atteggiamenti problematici del paziente, riconcettualizzando il caso perché così facendo il terapeuta cognitivista può accorgersi che l’atteggiamento problematico del paziente dipende dal riemergere di schemi cognitivi interpersonali poco adattivi, che coinvolgono lo scambio col terapeuta (concetto sovrapponibile con il ciclo interpersonale problematico di Semerari, 2000).

La prospettiva cognitiva evoluzionista, che cerca di colmare la mancanza di una teoria della relazione interpersonale e delle motivazioni umane alla relazione (Gilbert,1989; Liotti, 1994/2005), vede nella relazione terapeutica lo scopo di strumento conoscitivo e di processo che cura, sulla base dei SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali). La relazione clinica diventa quindi la sede in cui terapeuta e paziente esplorano gli stati d’animo e i processi di pensiero di entrambi i membri, con lo scopo di aumentare le capacità metacognitive del paziente.

L’incremento di queste capacità permette al paziente di riflettere sui propri contenuti mentali. Secondo questa prospettiva il motore dell’ incrementata capacità è il sistema motivazionale cooperativo, che favorisce la condivisione dell’attenzione per lo stesso oggetto, cioè gli stati mentali di entrambi i partecipanti.

È importante sottolineare che questa prospettiva distingue le dinamiche transferali dall’ alleanza terapeutica. Le dinamiche transferali emergono, secondo questo modello, nelle fasi in cui il paziente percepisce un maggior senso di vulnerabilità e necessita di un maggior sostegno da parte del terapeuta, attivando il sistema di attaccamento motivazionale. L’ alleanza terapeutica invece è coordinata dall’attivazione del sistema motivazionale cooperativo.

L’atteggiamento collaborativo si fonda su strutture di memoria meno problematiche di quelle dell’attaccamento e quando attive nei momenti di alleanza, durante lo scambio clinico, permettono, oltre alla condivisione di obiettivi, anche l’esplorazione congiunta delle difficoltà attuali del paziente. In sintesi, l’ alleanza terapeutica è comprensibile in termini di attivazione del sistema cooperativo in entrambi  i membri della diade terapeutica, mentre le sue flessioni e le sue fratture sono dovute soprattutto all’attivazione, nel paziente, del sistema di attaccamento e dei MOI insicuri e disorganizzati a esso coordinati (e di accudimento conseguente nel terapeuta).

 

Alleanza terapeutica e attaccamento

L’influenza dello stile di attaccamento è stata confermata da numerosi studi tra cui quello di Eames e Roth (2000), dal quale si evince come nei pazienti con stile disorganizzato o invischiato le terapie presentavano frequenti rotture dell’ alleanza, di cui si discuterà in seguito (Liotti, Monticelli 2014).

Si evince quindi che in un contesto terapeutico, ogni volta che nel dialogo clinico affiorino memorie e aspettative di difficoltà e dolore mentale, sia inevitabile l’attivazione del sistema di attaccamento. Il rapporto clinico tra psicoterapeuta e paziente si presenta dunque frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982).

Il paziente, in almeno alcuni momenti del dialogo clinico, racconta la propria sofferenza, paura o angoscia e lo stato mentale che accompagna questa narrazione implica pressoché sempre l’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento appunto. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (MOI degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Se da un lato ciò comporta una minaccia all’ alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da MOI insicuri o disorganizzati, dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’ attaccamento nel dialogo clinico, è una condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

 

Disturbi di personalità e fratture dell’ alleanza terapeutica

Diverse ricerche hanno studiato l’andamento dell’ alleanza terapeutica, soprattutto nei trattamenti dei disturbi di personalità, confermando l’ipotesi iniziale che la definiva come un processo dinamico che può ridursi nelle fasi intermedie della terapia. Questo perché probabilmente durante queste fasi emergono le problematiche interpersonali dei pazienti più gravi che possono compromettere la qualità della relazione terapeutica appunto.

I dati di ricerca longitudinali sono compatibili con l’impressione dei clinici che l’andamento dell’ alleanza terapeutica nel corso del processo terapeutico sia spesso imprevedibile, oscillante tra momenti di grande intesa e altri di perdita di sintonizzazione tra paziente e terapeuta (Horvath, Greenbrg, 1994; Horvath, Marx, 1991; Safran, Crock, McMain, 1990).

Un momento importante della relazione terapeutica è la riparazione delle fratture dell’ alleanza che può essere un fattore terapeutico di importanza fondamentale non solo perché permette la prosecuzione del trattamento, ma anche perché avvia il cambiamento in senso adattivo degli schemi interpersonali più problematici del paziente.

Questi schemi emergono infatti con particolare chiarezza nei momenti in cui l’ alleanza terapeutica è minacciata, e spesso sono identificabili soltanto in questi momenti diventando oggetto di correzione terapeutica solo all’interno della relazione in corso fra paziente e terapeuta.

Come precedentemente accennato, entrambi i membri della diade terapeutica, con la loro storia, le loro caratteristiche di personalità e funzionamento influenzano la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza terapeutica. Tra le caratteristiche del paziente ci sono la capacità di mentalizzare, la motivazione alla terapia, le aspettative di cambiamento, le qualità generali delle relazioni interpersonali, la gravità del disturbo e gli stili di attaccamento. Sono molto significativi e concordanti i dati degli studi sulla relazione tra gravità del disturbo di personalità e fragilità dell’ alleanza (Lingiardi, Croce, Fossati et al. , 2000)

I risultati di questi studi supportano le ipotesi secondo cui gli indicatori precoci di alleanza terapeutica si rivelano utili predittori del dropout. L’obiettivo principale di questa ricerca era quello di segnalare ai clinici che trattano con pazienti con disturbi di personalità l’utilità del costrutto di alleanza terapeutica. L’interruzione prematura del trattamento psicoterapico è frequente nei disturbi gravi di personalità. Una nuova direzione di indagine sul dropout è legata all’ipotesi che un fenomeno così complesso come l’abbandono della psicoterapia dipenda dalle caratteristiche della relazione terapeutica, come interazione reale e processo relazionale (Horvath, 1996). L’ alleanza terapeutica sembra, quindi, un costrutto promettente nell’indagine sul dropout.

 

Disturbo borderline di personalità e alleanza terapeutica

Fino ad oggi però sono state condotte poche ricerche sul ruolo che potrebbero giocare le caratteristiche di personalità, i sintomi psicopatologici, i meccanismi di difesa, sul processo di formazione di alleanza, specialmente con pazienti con disturbo borderline di personalità.

In particolare il trattamento con pazienti con disturbo borderline di personalità è particolarmente difficoltoso per via delle problematiche relazioni che interferiscono con la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza. Gli studi retrospettivi mostrano infatti un’alta percentuale di dropout in fase iniziale della terapia.

Non di rado gli stati mentali relativi alla disorganizzazione dell’attaccamento (Liotti, 1994,/2005, 2007; Liotti, Farina, 2011; Main, kaplan, Cassidy, 1985) sono alla base di sviluppi psicopatologici in particolare dello spettro Borderline/dissociativo(Liotti, farina, 2011).

Soprattutto in questi casi il comportamento del terapeuta viene spesso assimilato alla rappresentazione di un genitore da un lato spaventato, gravemente trascurante, oppure ostile e violento, e dall’altro fonte potenziale di aiuto e conforto. Si può dedurre che il paziente teme allora simultaneamente di perdere la vicinanza emotiva del terapeuta e di mantenere un vicinanza percepita come pericolosa (paura senza sbocco, Main, Hesse, 1990). Questo conflitto si manifesta in terapia nei confronti del terapeuta il quale sarà oggetto di idealizzazione e svalutazioni da parte del paziente, di fobie opposte e simultanee delle emozioni di attaccamento provate (paura della vicinanza e paura dell’abbandono), il paziente spesso potrebbe attribuire alla vicinanza emotiva significati distorti come persecutori, sentimenti di impotenza propria e attribuiti al terapeuta che conducono a considerare inutile la terapia, e potrebbero emergere condotte paradossali di sollecitudine accudente rivolte al terapeuta.

Lo stato mentale del paziente relativo all’ attaccamento al terapeuta è stato indagato con uno strumento derivato dall’ AAI (Adult Attachment Interview), la Patient – Therapist Adult Attacchment Interview (PT – AAI: Diamond, Stovall-McClough, Clarkin et al.,2003). Le valutazioni al PT – AAI dopo un anno dall’inizio della terapia sono state confrontate con quelle dell’AAI dopo un anno dall’inizio del trattamento. In tutti i casi, tranne uno, lo stato mentale del paziente riguardante l’attaccamento al terapeuta concorda con uno o più aspetti dello stato mentale riguardante l’attaccamento alle figure genitoriali.

Questi dati confermano l’ipotesi di Bowlby (1969) che sostiene che quando si attivano nel paziente, all’interno della relazione terapeutica, bisogni di vicinanza e protezione, emergono anche i MOI (Modelli Operativi Interni) dei suoi originari attaccamenti, cioè le strutture di memoria e aspettative costruite durante l’interazione con le figure di attaccamento (FDA) nell’infanzia.

Se si confrontano i dati di Diamond , Stovall –McClough, Clarkin e collaboratori (2003) con quelli dello studio di Bradley, Heim e Westen (2005), è facile concludere che l’emergere dei MOI dell’attaccamento originario del paziente all’interno della relazione terapeutica è foriero di problemi della rottura dell’alleanza. Infatti il tranfert del paziente corrisponde in maniera sorprendete, secondo i dati di Bradley e,Heim e Westen (2005) al controtasfert del terapeuta, e le configurazioni di trasfert- controtasfert identificate nella ricerca appaiono molto lontane dal garantire le condizioni di sicurezza, reciproca fiducia e collaborazione caratteristiche dell’ alleanza terapeutica. Diventa così comprensibile il dato di ricerca, ripetutamente confermato, che l’ alleanza terapeutica e il modo di riparane le rotture sono fortemente influenzati dal tipo di attaccamento del paziente.

Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie controllanti rendono difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e collaborazione tipico delle relazioni di aiuto efficaci (Liotti, Farina, 2011).

L’attaccamento disorganizzato è frequentemente correlato alla psicopatologia in generale e al Disturbo Borderline di Personalità con stati dissociativi in particolare, come è stato precedentemente accennato; nelle terapie con questi pazienti il rischio di rotture dell’ alleanza terapeutica anche gravi, fino all’interruzione del trattamento è elevato.

 

Emozioni e relazioni nel Disturbo Borderline di Personalità

La diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità (DBP), prevista nel DSM-V fornisce ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantisce, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato.

Il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Queste modalità di pensiero coinvolgono diverse sfere di vita e le persone con questo disturbo spesso ne sono poco consapevoli, faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Ulteriori caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità sono la variabilità e l’eterogeneità, nessun tratto è sempre presente, periodi di sofferenza oscillano con fasi di benessere e buon adattamento sociale e un quadro clinico grave può cambiare rapidamente per un efficace intervento terapeutico o per un evento favorevole  (Semerari, Di Maggio, 2003). Tuttavia il Disturbo Borderline di Personalità ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Il Disturbo Borderline di Personalità è stato ed è tuttora oggetto di studio di diversi autori e sono stati ideati appropriati approcci e protocolli psicoterapici.

Secondo Kernberg (1995), il soggetto con Disturbo Borderline di Personalità presenta un deficit di integrazione che lo caratterizza attraverso oscillazioni opposte delle rappresentazioni di sé e dell’oggetto visto come o tutto positivo o tutto negativo, o buono o cattivo che causa inoltre l’instabilità dell’immagine di sé e delle relazioni interpersonali.

Chi soffre di Disturbo Borderline di Personalità presenta inoltre un deficit di mentalizzazione  (descritto precedentemente nella teoria dell’attaccamento e dei SMI di Liotti): il bambino è alle prese con Figure Di Attaccamento (FDA) spaventate e spaventanti e tende quindi a costruirsi una memoria della rappresentazione dell’altro come responsabile persecutorio della paura sperimentata e del sé come vittima. Contemporaneamente però può percepire la FDA come salvatore che lo conforta, ma anche come vittima da confortare. La problematicità di queste rappresentazioni non sta soltanto nell’incompatibilità dei ruoli, quanto nel loro presentarsi simultaneamente e nel loro succedersi caotico. Il discorso del paziente è infatti confuso, oscilla da un argomento all’altro senza che sia possibile identificare un tema sovraordinato che dia senso a quanto detto e guidi il comportamento in modo coerente. Il senso di inferiorità si alterna alla rabbia e al timore per il giudizio negativo, ruoli seduttivi si alternano a immagini di competizione, memorie piacevoli si alternano con l’idea di un futuro vuoto.

Linehan (1993) identifica come nucleo disfunzionale del Disturbo Borderline di Personalità la disregolazione emotiva e gli aspetti di padroneggiamento degli stati interni, noto come deficit di regolazione emotiva. Secondo l’autrice i border sono caratterizzati da una forte vulnerabilità emotiva e da una difficoltà a regolare le emozioni, reagiscono intensamente e rapidamente di fronte a stimoli emotivi anche minimi e a causa della disregolazione sono incapaci, una volta attivata l’emozione, di compiere operazioni necessarie per ridurne l’intensità e ritornare al tono emotivo di base.

Tra le cause di sviluppo della disregolazione emotiva, secondo l’autrice, ci sarebbe la crescita in un ambiente invalidante dove la comunicazione interiore riceve risposte caotiche, inappropiate ed estreme. Anche l’autrice come Kernbreg (1995), riconduce la stessa stabilità del senso di sé al susseguirsi di stati mentali caotici ma tutti di intensità estrema. Nel modello della Linehan la disregolazione emotiva rappresenta l’elemento patogenetico fondamentale del Disturbo Borderline di Personalità ed è in grado di spiegarne gli aspetti fondamentali: i comportamenti impulsivi, il disturbo d’identità e il caos interpersonale, l’affettività disregolata.

Come ha scritto Linehan (1993) “la bravura del terapeuta sta nel scorgere un raggio di sole senza negare l’oscurità del paesaggio”. È fondamentale sottolineare e non sottovalutare le molte risorse personali e relazionali di cui dispongono i pazienti borderline. Essi sono capaci di instaurare, pur nella loro caoticità, relazioni intense e significative (Semerari, Dimaggio, 2003). Possono instaurare cicli interpersonali positivi in cui ottenere validazione e accettazione di sé e un senso di aiuto protezione e conforto; grazie a queste capacità si può ipotizzare l’attivazione di un potenziale circuito terapeutico in cui un senso di sé positivo emerge all’interno di una relazione di fiducia attraverso cicli validanti e cicli protettivi. Il problema è che questi cicli tendono ad essere brevi, fragili ed esposti a fratture di invalidazione proprio a causa del deficit di metarappresentazione che fa sì che l’investimento sull’altro sia scarsamente realistico, idealizzato, carico di aspettative eccessive che possono essere facilmente invalidate.

Si evince quindi che nella relazione terapeutica con questi pazienti, la flessione dell’ alleanza, raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo durante le fasi iniziali del trattamento come sostenuto da diversi autori. Rievocare l’obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza terapeutica. Nello specifico, il contratto è l’estensione di quello che si definisce progetto di cura, ma ne differisce in modo sostanziale perché è elaborato insieme al paziente e posizionato al livello effettivo della possibile motivazione verso il cambiamento (M. Sanza, 2015).

Infatti l’atto in sé di chiamare in causa la persona nel definire gli obiettivi del proprio percorso di cura determinerebbe un immediato coinvolgimento di entrambi gli attori nella relazione terapeutica: il terapeuta (o l’equipe) diverrebbe esperto dei processi di cambiamento, lasciando alla persona il ruolo di principale esperto di sé, della propria storia e delle proprie problematiche; una dimensione maggiormente simmetrica, cooperativa e collaborativa (come la definisce Liotti, 2008) pertanto, senza implicare con ciò un disconoscimento della diversità dei ruoli e delle relative differenti responsabilità. Interrogarsi e condividere gli obiettivi a breve e medio termine del trattamento diverrebbe, così, un processo che responsabilizza il paziente riducendo il rischio della delega e favorendo l’ancoraggio delle aspettative ad un piano il più possibile realistico, predefinito, negoziato e verificabile nel tempo.

Un tale coinvolgimento attivo della persona potrebbe avere quindi una valenza di per sé terapeutica in riferimento, ad esempio, alla potenzialità di incrementare il senso di autodeterminazione ed i bisogni di autonomia del paziente stesso, influenzandone positivamente la motivazione. La prassi del contratto terapeutico può essere uno strumento per incrementare il senso di empowerment dei pazienti nei confronti della propria salute, uno dei fattori più frequentemente associati alla compliance ed alla buona riuscita dei trattamenti.

 

L’ alleanza terapeutica nella Terapia Dialettico Comportamentale

Anche l’ideatrice del protocollo “Terapia Dialettico Comportamentale dedicato al trattamento dei pazienti con disturbo Borderline di Personalità, M.Marsha Linehan, sottolinea l’importanza della relazione forte e salda che il terapeuta deve instaurare con il paziente partendo dalla definizione del patto iniziale. Questo è essenziale poiché a volte la relazione con il terapeuta è l’unico rinforzo efficace con un soggetto borderline nella gestione e nel cambiamento del suo comportamento.

Con i pazienti ad elevato rischio suicidario, ad esempio, l’autrice vede nella relazione con il terapeuta, a volte, l’unica cosa che lo tiene in vita nei momenti di crisi acuta. La Terapia Dialettico Comportamentale si basa sulla premessa per cui l’esperienza di sentirsi accettati e accuditi e validati ha una valore di per sé (Linehan, 1989). Nella Terapia Dialettico Comportamentale in particolare, mentre all’inizio il paziente può credere che se fosse guarito avrebbe perso il terapeuta, quest’ultimo può applicare la tecnica del ricatto, e esplicita che nel caso in cui non migliorasse perderebbe il terapeuta ancora più velocemente in quanto “la prosecuzione di una terapia inefficace è un comportamento antietico”.

La tipica sequenza di eventi nella terapia del Disturbo Borderline di Personalità prevede difficoltà iniziale del paziente a fidarsi del terapeuta, a chiedergli aiuto e a raggiungere un equilibrio ottimale tra dipendenza e indipendenza. È probabile infatti che inizialmente il paziente mostrerà una scarsa fiducia nel terapeuta, rinuncerà a contattarlo telefonicamente, anche quando sarebbe opportuno farlo e tenderà a oscillare tra un atteggiamento di estrema dipendenza da un lato e di assoluta indipendenza dall’altro. Durante le fasi iniziali della terapia pertanto, gran parte del lavoro terapeutico è finalizzato a rinforzare la capacità di chiedere aiuto al terapeuta quando non riesce ad affrontare efficacemente la situazione.

Tuttavia se tale capacità non viene estesa all’ambiente circostante, al di fuori del contesto terapeutico, e se al paziente non viene insegnato ad aiutare sé stesso e a tranquillizzarsi da solo, la conclusione della terapia rappresenterà un evento altamente traumatico. Il processo di transizione dalla fiducia del terapeuta alla fiducia in se stesso e negli altri deve iniziare sin da subito. L’obiettivo finale è imparare a confidare in sé stessi e nelle proprie forze e il rispetto di sé con il superamento dei sentimenti di vergogna e odio. A volte il riemergere di intensi sentimenti di vergogna, o delle angosce legate alla conclusione della terapia, può essere tale da precipitare una regressione a comportamenti della fase iniziale o a reazioni di stress.

Il processo terapeutico parte quindi dallo sviluppo di un contratto terapeutico collaborativo: preparare il paziente ad una vita senza Terapia Dialettico Comportamentale, creando un’atmosfera emotiva in cui il paziente si senta sicuro di interagire apertamente e che lo protegga per quanto possibile da reazioni emotive incontrollabili una volta terminata la seduta. Un compito essenziale durante le sedute dedicate alla contrattazione del patto è costituito dall’instaurazione di una positiva relazione interpersonale. Queste sedute offrono al terapeuta e al paziente l’opportunità di esplorare problemi che possano interferire con l’ alleanza terapeutica. Compito del terapeuta è trasmettere competenza efficacia e credibilità. Un genuino interesse verso il paziente come persona piuttosto che solo come cliente o soggetto di una ricerca.

La terapia del borderline in sintesi, come tutte le terapie, si basa su alcuni principi fondamentali, tra i quali la fiducia che il paziente prova nei confronti del terapeuta, nessuna terapia infatti potrà funzionare se il paziente non ha fiducia nel terapeuta. Ciò significa che la relazione deve essere al centro dell’interesse del terapeuta.

Non si può però sottovalutare l’ipercoinvolgimento a cui i terapeuti sono sottoposti nelle terapie con questi pazienti e spesso ciò è difficile da sopportare per un singolo terapeuta. Ecco perché anche Liotti (2001) ritiene necessaria la presenza di un secondo terapeuta con cui il paziente è meno coinvolto, essa favorisce l’elaborazione delle rappresentazioni non integrate che minacciano la prima relazione. Infatti dato l’impegno, la disponibilità e la tensione emotiva che queste terapie richiedono esse possono portare il terapeuta ad una condizione di insopportabilità.

Il poter condividere il carico con altri e l’aver definito il patto e i confini del setting con il paziente, sono due importanti fattori che proteggono i trattamenti dal più maligno dei rischi: il rifiuto del terapeuta. Relativamente a questo è esplicativo ciò che Semerari scrive: “Non c’è crisi peggiore dell’ alleanza di quella in cui il terapeuta non desidera più fare terapia” (Semerari, 2003)

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