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Il disagio psicologico nel paziente con diabete mellito

L’intervento psicologico in casi di diabete mellito è necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per contenere paura, ansia e insicurezza

Di Elena Maggio

Pubblicato il 16 Nov. 2016

Aggiornato il 02 Ott. 2019 15:39

La diagnosi di diabete mellito determina l’insorgere di una situazione di paura e insicurezza che può influire negativamente sulla corretta attuazione delle attività di cura. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di contenimento dell’ansia, l’intervento di uno psicologo è ritenuto necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per progettare gli aspetti formativi del malato.

Elena Maggio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Nell’assistenza alla persona con diabete l’aspetto dell’educazione e dell’empowerment è di importanza fondamentale. La diagnosi di diabete mellito determina, infatti, l’insorgere di una situazione di paura e insicurezza che può influire negativamente sulla corretta attuazione delle attività di cura. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di contenimento dell’ansia, l’intervento di uno psicologo è ritenuto necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per progettare gli aspetti formativi del malato.

Si individuano pertanto le tematiche di interesse psicologico nella fase di comunicazione della patologia diabetica, in quella di definizione degli interventi di cura e nella fase di sostegno al malato che si trova a riprogettare la propria esistenza in funzione di questa patologia.

Il diabete mellito facilita la comparsa di disturbi psicopatologici come depressione e ansia, che a loro volta influenzano la gestione della malattia stessa. Il lavoro dello psicologo risulta di importante supporto nella fase di cura della patologia. La pratica ha dimostrato l’effetto negativo che le dinamiche psicosociali possono avere sulla capacità del paziente di aderire correttamente alle indicazioni terapeutiche. Si tratta quindi di promuovere un atteggiamento di adesione del malato alla terapia e, nello stesso tempo, di sviluppare un coping efficace, facendo sì che il soggetto veda il diabete mellito come un problema piuttosto che come una minaccia. Ne consegue che il buon adattamento alla malattia dipende dal tipo di strategie individuali che il paziente mette in atto per affrontarla.

Il diabete mellito (diabete di tipo 2) è uno dei maggiori problemi sanitari dei paesi industrializzati e la sua prevalenza è in continuo aumento. Secondo l’OMS il diabete mellito indica un gruppo di disordini metabolici caratterizzati da iperglicemia cronica, alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico e proteico dovuti a difetti della secrezione insulinica, dell’azione insulinica o entrambe, e dallo sviluppo progressivo di specifiche complicanze. E’ una malattia provocata da una carenza, totale o parziale, di insulina, un ormone secreto dalle beta-cellule di una zona del pancreas chiamata “isole di Langherhans”.

L’insulina è necessaria al metabolismo del glucosio: la secrezione di una giusta quantità di insulina è una condizione indispensabile per la regolazione del tasso di zuccheri nel sangue. Quando la glicemia sale, il glucosio urinario inizia ad aumentare e causa per osmosi l’eliminazione di acqua, vi è quindi un aumento delle urine prodotte. Il paziente ha uno stimolo ad urinare molto frequente che porta ad una disidratazione dell’organismo. Per compensare questa perdita di acqua e mantenere costante la quantità dei liquidi corporei l’organismo compensa con lo stimolo della sete (Musacchio N., 1999).

Oltre a questa sete intensa, il diabetico ha un aumento della fame che porta a un’iperalimentazione, dovuta al fatto che le cellule non possono utilizzare il glucosio, anche se questo è aumentato nel circolo. Alcuni centri cerebrali, che regolano il senso della fame, non ricevono l’apporto energetico del glucosio e inviano segnali che spingono il soggetto ad iperalimentarsi. La scarsa utilizzazione del glucosio riduce le riserve energetiche dell’organismo e determina un senso costante di stanchezza. L’organismo del diabetico non può utilizzare il glucosio e deve utilizzare i grassi e le proteine corporee determinando una perdita di peso.

La terapia del diabete mellito si basa su quattro presidi terapeutici diversi: l’insulina, gli ipoglicemizzanti orali, la dieta, l’esercizio fisico. La terapia prevede innanzitutto una dieta che permetta di avere un peso corporeo corretto, senza abusare di carboidrati, in secondo luogo è necessaria un’attività sportiva che aumenti la sensibilità all’insulina, riducendo l’insulinemia a riposo. In sostanza bisogna riportare l’organismo in condizioni di efficienza fisica e alimentare per riportare il funzionamento del meccanismo dell’insulina nella normalità.

Per quel che riguarda i farmaci, agiscono in due modi: da una parte stimolano le cellule B a produrre più insulina e dall’altra rendono le cellule dei tessuti periferici più sensibili all’insulina di modo che queste cellule utilizzino al meglio gli zuccheri (Zanussi C., 2004).

 

Gli impatti psicologici di una diagnosi di diabete mellito

Il legame tra diabete mellito e disturbi dell’umore è noto almeno dagli anni ’50. I sintomi della depressione includono la persistente tristezza o l’incapacità di provare gioia, la perdita o l’ incremento d’appetito, l’insonnia, l’apatia, la difficoltà di concentrazione, i sentimenti di disperazione ed inutilità, i pensieri negativi come idee suicidarie, irritabilità, ansietà, nervosismo, sensi di colpa.

A volte le persone depresse trovano difficile fronteggiare i programmi e le attività quotidiane, e riportano rilevanti difficoltà nei vari campi della vita. Mentre la depressione è molto comune fra la popolazione generale, alcuni studi clinici indicano come essa sia ancora più frequente nei malati cronici. Ciò potrebbe essere dovuto a numerosi fattori, tra cui lo stress derivante dal trattamento e dal controllo della malattia, gli effetti sulle funzioni cognitive, gli effetti collaterali o le complicazioni intrinseci alla terapia farmacologica (Rotella C.M., Mannucci E., Cresci B., 1999). Alcune meta-analisi hanno evidenziato una frequente associazione fra diabete mellito e depressione. Si stima che il 15-20% (fino al 30%) di persone con diabete tipo 1 e tipo 2 presenti una sintomatologia depressiva (Barnard K.D., Skinner T.C., Peveler R., 2006).

Lustman e Anderson hanno accertato che i soggetti con diabete mellito hanno una probabilità circa doppia, rispetto alla popolazione non diabetica, di sviluppare una sindrome depressiva (Lustman P.J., Anderson R. J., 2000). Gli stessi autori hanno messo in evidenza che la co-presenza della depressione rappresenta una delle cause principali di insuccesso di qualunque processo di gestione e management della malattia cronica.

Quest’ultimo dato è stato confermato da una meta-analisi di Gonzales e collaboratori che ha accertato che la depressione comune nei pazienti diabetici è associata a mediocri risultati ottenuti dalle cure. Questa meta-analisi ha studiato il rapporto tra depressione e non aderenza al trattamento per il diabete nei pazienti diabetici di tipo 1 e di tipo 2 e i risultati ottenuti da 47 campioni indipendenti hanno mostrato che vi era una significativa associazione tra depressione e non aderenza al regime di trattamento del diabete mellito. Le dimensioni dell’effetto registrano i massimi livelli per gli appuntamenti medici mancati e per le varie procedure dell’autocura (Gonzales J. et coll, 2008).

Il diabete mellito richiede del resto diligenza, cura della malattia, un rigoroso controllo giornaliero dei vari aspetti della vita e della salute. La dieta, l’attività fisica, la terapia, il monitoraggio glicemico, le visite mediche, l’attenzione ad altre malattie e alle complicanze rappresentano una routine e, considerati i sintomi depressivi e le difficoltà che possono creare, è ragionevole presupporre che la presenza di depressione abbia un impatto rilevante sul controllo del diabete.

Oltre alla depressione, il diabete mellito facilita la comparsa anche di altri disturbi psicopatologici come l’ansia e i disturbi alimentari che influenzano a loro volta la gestione della malattia.

L’ansia e lo stress provocati dalla malattia possono raggiungere livelli così elevati da ostacolare il raggiungimento di buoni valori glicemici e di un’autogestione adeguata. È possibile far emergere componenti ansiose più o meno nascoste in varie fasi del diabete (alla diagnosi, a ogni cambiamento di terapia, nel passaggio all’insulina, ecc.). Un discorso a parte riguarda i genitori di bambini diabetici, spesso sono questi adulti, più che i piccoli pazienti, a richiedere un supporto di tipo psicologico, almeno nelle prime fasi di malattia (Ricci Bitti P.E., 2002).

Tra i sintomi dell’ansia c’è la facilità all’affaticamento, i disturbi del sonno, l’irritabilità, l’irrequietezza, la tensione muscolare. Come per i disturbi depressivi, l’ansia rappresenta una barriera importante al trattamento.

 

Diabete mellito e controllo

A livello personale, molti pazienti presentano anche problemi di vario tipo, riguardanti la sfera del “controllo”, ci sono persone che hanno difficoltà ad accettare le regole, a mettere sotto controllo alcuni aspetti di sé. È necessario allora lavorare tenendo conto di questa riluttanza a sentirsi controllati, della difficoltà ad accettare la sensazione di perdere il controllo sulla propria vita (Skinner T.C., Davies M.J., Farooqi A.M., Jarvis J., Tringham J.R., Khunti K., 2005).

Innanzitutto, per alcuni pazienti abituati a tenere tutto sotto il proprio controllo è molto ansiogeno pensare di affidare “per sempre” la propria vita a un medico, o accettare di delegare a un altro la propria cura e le decisioni relative alla propria salute. Allo stesso modo per queste persone è difficile accettare le oscillazioni legate alla malattia (per esempio, gli sbalzi imprevedibili della glicemia),quindi tollerare il fatto che non sia sempre possibile controllare in toto la propria malattia (Ricci Bitti P.E.,2002). Questi pazienti trovano utile ricevere molte informazioni, in modo da avere la possibilità di sapere cosa sta accadendo. Devono essere rassicurati sulla possibilità di tenere la situazione sotto controllo, così come sono stati sempre abituati a fare e nello stesso tempo è necessario lavorare affinché riescano gradualmente a tollerare delle aree di non controllo.

 

Diabete e dipendenza

Un altro aspetto importante è quello legato alla “dipendenza”, proprio perché alcuni pazienti faticano ad accettare di dipendere da altre persone (medici, infermieri), ma anche da un farmaco. Questo problema è comune a molti pazienti insulino-dipendenti, cioè pazienti la cui esistenza “dipende dall’insulina”. In altri, invece, si evidenzia il problema opposto, un’eccessiva dipendenza, un’estrema difficoltà a fare da soli, ad auto-gestirsi, per cui richiedono una costante “supervisione”(Ricci Bitti P.E., 2002).

Lavorando sui comportamenti di questi pazienti, è spesso necessario distinguere e analizzare tre elementi: i pensieri, le emozioni, i comportamenti. Spesso, infatti, questi pazienti raccontano i loro comportamenti, ed è necessario aiutarli a considerare che essi sono correlati a pensieri ed emozioni sottostanti. In effetti, pensieri, emozioni e comportamenti si influenzano tra di loro, ma spesso non ne sono consapevoli, specialmente dell’influenza dei pensieri sulle emozioni e sui comportamenti.

L’analisi dei pensieri e delle emozioni porta spesso ad individuare un atteggiamento di rabbia, una delle emozioni che maggiormente traspaiono dai discorsi dei pazienti con diabete mellito, a volte in modo manifesto, altre in forma più velata, ma sempre significativa. Spesso emerge una rabbia nei confronti della malattia che viene percepita come un “nemico” da combattere, da tenere a bada, un nemico che, però, non potrà mai essere definitivamente sconfitto. I pazienti compiono un passo significativo nel momento in cui passano dalla visione della malattia come nemico da sconfiggere a quella di un elemento di sé con cui “convivere”, con cui giungere a un compromesso (Ricci Bitti P.E., 2002). La rabbia è anche spesso collegata a un altro vissuto tipico, quello di aver subito un danno, di essere stati ingiustamente danneggiati o penalizzati. Da ciò emerge un bisogno di risarcimento, che nasce su basi inconsapevoli e che porta il soggetto ad assumere atteggiamenti apparentemente inspiegabili.

 

L’educazione del paziente diabetico e il ruolo dello psicologo nel team diabetologico

Il processo educativo ha come obiettivo sia insegnare al diabetico a convivere con la malattia, sia raggiungere gli obiettivi clinici della terapia e della prevenzione delle complicanze. Ha quindi due aspetti: uno educativo, indirizzato alla qualità della vita, e uno clinico-biologico indirizzato al mantenimento dello stato di salute fisico. L’informazione fa parte del dialogo tra il curante e il malato ed è costituita da un insieme di consigli, raccomandazioni e istruzioni.

L’educazione è invece “la scelta di obiettivi di apprendimento e l’applicazione di tecniche d’insegnamento e di valutazione” (Lacroix A., Assal J.P., 2005). Tutti questi strumenti permettono al paziente di: conoscere la propria malattia; gestire la terapia in modo competente; prevenire le complicanze.

L’intervento dello psicologo si rivela utile nei Servizi di Diabetologia perché trova applicazione a più livelli, non solo direttamente nei confronti dei singoli pazienti, ma anche attraverso un lavoro da svolgere in sinergia con tutti gli operatori dell’équipe, che devono sempre tener conto dei problemi psicologici in questi pazienti.

Il personale sanitario è abituato ad identificare e rimediare il più rapidamente possibile ad un evento morboso transitorio, per riportare l’individuo ad uno stato di salute. La malattia cronica richiede invece che il medico e l’infermiere debbano accettare di accompagnare per anni persone che non riusciranno mai a guarire, ma piuttosto a stabilizzarsi.  Per curare efficacemente un malato cronico, non è sufficiente limitarsi a interpretare correttamente i sintomi clinici della malattia e prescrivere farmaci o altri rimedi. Un approccio terapeutico completo richiede che tra il curante e il paziente «si stabilisca una vera e propria alleanza terapeutica» (A. Ferraresi A., Gaiani R., Manfredini M., 2004). Per i curanti, la necessità di creare delle solide relazioni umane nasce dai rapporti costanti che hanno non solo con i pazienti e le loro famiglie, ma anche con tutte le altre figure, professionali e non, che gravitano intorno a loro.

In questa patologia l’adesione al trattamento è cruciale e per questo viene posta al centro dell’educazione terapeutica. E’ evidente che solo una buona motivazione consente al paziente con diabete mellito di adottare una strategia di cura, ma che anche ogni operatore sanitario deve imparare a motivare ogni paziente. Lo stile comunicativo, più che la quantità di informazioni trasmesse, sembra influire sulla qualità percepita della relazione tra curanti e pazienti. Uno stile aperto, empatico, non giudicante è fondamentale, la capacità di ascolto partecipe del paziente e di sintonia con i suoi vissuti sono qualità e abilità indispensabili per una relazione di cura efficace e soddisfacente. Il maggior coinvolgimento aumenta il grado di concordanza tra curante e paziente e migliora il grado di autonomia percepita. Il ruolo dello psicologo è valutare i bisogni del paziente, valutare ed effettuare l’educazione infermierisitica, assistere i pazienti nell’attuazione del piano di trattamento e di prevenzione delle complicanze.

Molti pazienti compiono un percorso graduale nell’apprendimento delle modalità di gestione della terapia e nell’affrontare le problematiche del controllo e della dipendenza. Inizialmente la funzione terapeutica è totalmente esterna, poi gradualmente diventa interna, il paziente “fa proprie” le indicazioni dei curanti.

L’aiuto psicologico viene operato soprattutto agendo sull’autocontrollo, sul self-empowerment e sulla self-efficacy. Per autocontrollo si intende la capacità del paziente di misurare parametri come la glicemia capillare, la chetonemia, la chetonuria e la glicosuria. E’ pertanto un requisito centrale per l’autogestione del paziente. La self-efficacy invece fa riferimento all’idea che l’individuo ha delle proprie capacità di agire efficacemente sugli eventi che condizionano la propria vita. Questo costrutto influenza in modo significativo i processi cognitivi, motivazionali, affettivi e decisionali. In ambito diabetologico la self-efficacy rinforza in modo diretto l’adesione al trattamento e sembra mediare gli effetti di altre variabili psicosociali (supporto sociale, stress diabete-correlato, carico psicologico, coping) sui parametri metabolici. Una maggiore self-efficacy è tra gli obiettivi principali dell’empowerment.

Anche all’autostima viene riconosciuta una grande importanza, è un fattore che va valutato con attenzione per la possibile influenza su tutti gli aspetti psicologici legati al diabete. Il raggiungimento degli obiettivi terapeutici concordati rafforza l’autostima nella misura in cui il cambiamento viene vissuto come auto-diretto e in questo caso si realizza un vero empowerment, invece, cambiamenti percepiti come etero-diretti possono anche ridurre l’autostima.

Allo stesso modo, obiettivi “non realistici” o comunque non concordati possono produrre vissuti di frustrazione ripetuti in grado di innescare spirali di auto-svalutazione. Al contrario, livelli elevati di autostima possono costituire delle barriere al riconoscimento della realtà di malattia, che rappresenta una ferita narcisistica. L’empowerment permette ai malati di diabete di prendere consapevolezza del proprio ruolo attivo nel trattamento, è un percorso che impegna curanti e paziente e che ha come obiettivo l’autonomizzazione del paziente.

La collaborazione tra psicologo e medico è finalizzata a integrare gli aspetti più strettamente medici con quelli essenzialmente psicologici con l’obiettivo di individuare insieme le strategie terapeutiche più adeguate che tengano conto contemporaneamente dei problemi fisici e delle dinamiche soggettive in gioco. Questa modalità di lavoro può comprendere sia interventi sinergici nei confronti di alcuni pazienti seguiti contemporaneamente dal medico e dallo psicologo; sia discussioni collegiali su alcuni casi particolari; sia momenti di confronto sulle modalità più efficaci di organizzazione del lavoro nel Servizio.

Il rapporto tra lo psicologo e il personale infermieristico è un lavoro di confronto e attività di formazione finalizzata a fornire alcune chiavi di lettura di ordine psicologico che possono risultare utili al personale infermieristico nella gestione di alcune difficoltà insite nel lavoro di interazione quotidiana coi pazienti. Si cerca così di affiancare alle competenze operative già possedute dagli infermieri alcune competenze relazionali, con particolare riguardo agli aspetti della comunicazione col paziente.

La loro relazione è fondamentale e si basa sull’empatia, sul patteggiamento tra i bisogni della malattia e del paziente, sulla gestione positiva dell’errore, cioè «identificare le possibili situazioni a rischio, lavorare sul sentimento di frustrazione che si genera dopo uno sbaglio, proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili, operare per la risoluzione dei problemi» (Trento M., Passera P. e coll., 2006). L’infermiere aiuta il paziente ad accettare la malattia e favorire la sua motivazione all’autocontrollo identificando il tipo di locus of control del paziente, ovvero la percezione del paziente di riuscire o meno a controllare il proprio destino.

Vi è un locus of control interno e un locus of control esterno, il primo si riferisce alla tendenza a credere di non essere mai responsabile degli eventi e di non poter “controllare” la propria vita; il secondo è riferito a colui che controlla tutto, attore del proprio destino. Queste diverse reazioni sono il risultato delle esperienze ed esprimono la personalità, sono perciò difficilmente modificabili. In ogni caso è importante che l’infermiere identifichi il tipo del locus of control del paziente. Ciò permette di sintonizzarsi più velocemente con lui, ma anche di formulare richieste che siano accettabili. Tra gli altri obiettivi, l’infermiere educa il paziente all’autogestione, evita le complicanze a breve termine e ritarda quelle a lungo termine, educa e coinvolge il contesto familiare e sociale (Macrodimitris S.D., Endler N.S., 2001).

Per quel che riguarda il rapporto tra psicologo e dietista, è un’attività di formazione relativa alle problematiche psicologiche connesse al comportamento alimentare, e che può includere colloqui di tipo psico-educazionale con la copresenza di dietista e psicologo.

Per quanto riguarda la relazione tra psicologo e paziente, come si è visto, lo psicologo ha il compito di valutare e affrontare con il singolo paziente gli aspetti psicologici connessi al diabete mellito, in un processo di presa in carico che tenga sempre conto del lavoro che il paziente sta svolgendo con gli altri operatori dell’équipe. Attraverso questa organizzazione, è possibile fornire al paziente gli strumenti necessari per gestire al meglio la propria malattia, sviluppando quelle capacità che gli consentono di arrivare a una accettazione attiva della patologia, fornendo le strategie cognitive e comportamentali per fronteggiare lo stress, sviluppando un coping attivo, differenziato e di confronto con la problematica, piuttosto che di passività con sentimenti di impotenza e disperazione.

Sviluppando un coping efficace, il paziente riesce a vedere il diabete come un problema piuttosto che come una minaccia, spostandosi da un comportamento di fuga a uno di attacco. L’aspetto importante è quello di applicare le strategie e abilità di coping al raggiungimento di obiettivi scelti dal paziente o comunque concordati tra paziente e curante. Ciò permette di massimizzare l’effetto di self-empowerment e di percezione di efficacia del trattamento.

Lo psicologo deve avere piena consapevolezza, inoltre, delle caratteristiche del conflitto spesso presente nei pazienti, delle problematiche personali e relazionali, il rapporto fra cibo-corpo-io, la sfera del controllo, la dipendenza, l’accettazione del limite, la gestione di pensieri-emozioni-comportamenti, la rabbia, la sensazione di danno subito e il bisogno di risarcimento, la scarsa motivazione a curarsi, i pensieri negativi.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Musacchio N., L’educazione terapeutica nel diabete, in La malattia diabetica, Milano, 1999
  • Zanussi C., Terapia medica pratica, Torino, 2004.
  • Rotella C.M., Mannucci E., Cresci B., Il diabete mellito. Criteri diagnostici e terapia: un aggiornamento, Firenze, 1999
  • Barnard K.D., Skinner T.C., Peveler R., The prevalence of co-morbid depression in adults with Type 1 diabetes: systematic literature review, in Diabet Med., 2006
  • Lustman P. J., Anderson R. J., Depression and poor glicemic control – A meta-analitic review of the literature, in Diabetes Care, 2000
  • Gonzales J. et coll, Depression, self-care and medication adherence in type 2 diabetes, in Diab. care, 2008
  • Ricci Bitti P.E., Aspetti psicologici del giovane diabetico con particolare riferimento alle dinamiche intrafamiliari, in Giornale di Clinica Medica, 2002
  • Skinner T.C., Davies M.J., Farooqi A.M., Jarvis J., Tringham J.R., Khunti K., Diabetes screening anxiety and beliefs, in Diabet Med., 2005
  • Lacroix A., Assal J.P., Educazione terapeutica dei pazienti. Nuovi approcci alla malattia cronica, Torino, Edizioni Minerva Medica, 2005
  • Pellai A., Educazione sanitaria. Principi modelli, strategie, Milano, Angeli, 2002
  • Trento M., Passera P., Miselli V., Bajardi M., Borgo E., Tomelini M., Tomalino M., Cavallo F., Porta M., Evaluation of the locus of control in patients with type 2 diabetes after long-term management by group care, in Diabetes Metab., 2006
  • Macrodimitris S.D., Endler N.S., Coping, control, and adjustment in Type 2 diabetes, in  Health Psychol.,2001
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