La ricerca scientifica ha sviluppato un insieme di teorie che spiegassero meglio questo nuovo approccio all’ invecchiamento, denominandolo invecchiamento positivo.
Manuel Fanì Covelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO
Alcune teorie sull’ invecchiamento positivo
Il concetto di invecchiamento è sempre stato definito con un un’accezione negativa, una fase della vita caratterizzata da una progressiva perdita di interessi e di obiettivi. Di fronte ad una costante crescita della popolazione anziana, si è fatta strada l’ idea di una terza età non solo come un periodo di declino, ma anche come una fase costellata da nuovi progetti, attività e vita sociale.
Di pari passo, la ricerca scientifica ha sviluppato un insieme di teorie che spiegassero meglio questo nuovo approccio all’ invecchiamento, denominandolo invecchiamento positivo.
Tra i primi studiosi a proporre una teoria ci furono Rowe e Khan (1987, 1997): l’ invecchiamento “di successo”, a differenza di quello patologico e quello usuale, è caratterizzato da un’elevata funzionalità a livello generale e da bassi rischi di patologie e disabilità correlate ad esse (ne è un esempio l’osteoporosi, che va ad inficiare la fragilità ossea aumentando il rischio di fratture). Elevate capacità fisiche ed un mantenimento di buone capacità cognitive, come nel problem solving e nell’apprendimento di nuove competenze, permetterebbero un positivo livello generale di funzionamento che getterebbe le basi per una fase di vita attiva e produttiva, due fattori che andrebbero a rinforzare il concetto di autoefficacia percepita (Bandura, 2000), sottostante alla credenza di poter intervenire sulla propria vita in maniera diretta e funzionale.
Uno dei maggiori studiosi dell’ invecchiamento, Baltes, nella sua definizione di sviluppo dell’uomo ha stabilito come principio base la dialettica “guadagni-perdite”: l’età anziana sarebbe predominata da perdite, a differenza dell’adolescente. Queste perdite verrebbero affrontate grazie a due concetti fondamentali della teoria: le risorse e le riserve. Le risorse, fisiche, cognitive e di personalità sono in relazione sistemica, ed in caso di declino esse verrebbero intaccate seguendo un “processo a cascata”. Le riserve invece sono rappresentate da tutte quelle capacità, competenze e nozioni apprese durante l’arco di vita che potrebbero venir sfruttate proprio nella terza età per riorganizzare e rivalutare la propria vita (ad esempio dopo il pensionamento o di fronte ad un importante lutto). Il culmine della teoria di Baltes che spiega come sia possibile un invecchiamento positivo è dato da un insieme di strategie di Selezione, ottimizzazione e compensazione, che applicate in maniera coordinata permetterebbero all’individuo anziano di minimizzare le perdite e massimizzare i guadagni per indirizzare autonomamente la sua vita (Baltes e Baltes, 1990).
La teoria della “selezione socio-emozionale” proposta dalla Carstensen (Carstensen, Isaacowitz, Charles, 1999; Lang, Carstensen, 2002) va a focalizzarsi sulla diversa percezione del tempo da parte dell’anziano rispetto alle altre fasi della vita: una percezione del tempo come limitato porterebbe gli individui a regolare il loro approccio alla vita seguendo una via più “conservatrice”. L’ invecchiamento positivo sarebbe così il risultato di una selezione e ottimizzazione di quelle relazioni più consolidate e capaci di dare una maggior sicurezza e una maggior vicinanza emotiva, “scartando”, invece, quelle più superficiali e negative. Questo processo di ristrutturazione sarebbe mosso da un cambiamento di obiettivi: Se nella gioventù prevalgono obiettivi di espansione del Sè, nell’età anziana vi è una ricerca di conferma del sé e questo può avvenire solo tramite il supporto di una rete sociale capace di fornire un’adeguata intimità relazionale centrata su emozioni positive.
Le teorie illustrate sinora hanno mostrato una certa passività da parte dell’anziano nel suo contesto sociale o, comunque, si sono focalizzate su un intervento compensativo. La recente teoria formulata da Kahana e Kahana (Kahana, Kahana et al., 2002; Kahana, Kahana, Zhang, 2005) vede l’anziano in un’ ottica proattiva, capace attivamente di intervenire sul proprio ambiente. In questo modello teorico due variabili entrano in gioco nell’ invecchiamento positivo: i fattori socio-culturali, come ad esempio l’aver vissuto in prima persona una guerra, e l’esposizione ad eventi stressanti, quali possono essere un divorzio o un lutto. L’anziano riesce a fronteggiare questi due aspetti critici grazie alle proprio risorse interne, come una buona percezione di sé, una buona autoefficacia ma anche una buona motivazione nell’investire il proprio tempo in attività fisiche, e alle proprie risorse esterne come l’avere una buona capacità economica ed una rete sociale. Oggi, inoltre, hanno una particolare rilevanza anche le risorse emergenti quali l’utilizzo del Pc e la navigazione nel Web (come evidenziato dagli stessi autori).
La combinazione di queste risorse permetterebbe l’attuazione di comportamenti e strategie preventive finalizzate ad un invecchiamento di successo e alla prevenzione dei disturbi e delle malattie.
Progettare l’ invecchiamento positivo
Ma come è realmente possibile prevenire quei disturbi e quelle malattie che potrebbero ridurre il proprio benessere fisico, psicologico e sociale durante la terza e quarta età? Quali sono i fattori protettivi della salute che risulterebbero importanti per un adeguato invecchiamento positivo?
Essi possono essere definiti come un insieme di circostanze che contrasterebbero l’azione dei fattori di rischio, fattori che possono aumentare la probabilità di perdere la salute o di comprometterla e possono essere di natura individuale o di natura sociale. Tra i primi vanno annoverati le caratteristiche individuali di personalità, come ad esempio l’estroversione che favorirebbe l’instaurarsi di una buona rete sociale e amicale, permettendo ad un individuo anziano di percepirsi amato e valorizzato.
Un altro fattore protettivo è la capacità di “progettare” la salute e il benessere: secondo Rutter e Rutter (1995) l’uomo mette in atto delle catene longitudinali, cioè delle scelte o dei comportamenti che messi in atto in un preciso momento avrebbero dei vantaggi (o svantaggi) a lungo termine, instaurando una spirale continua di piccoli effetti. Si pensi ad un anziano che inizia a frequentare un’università della terza età: questa scelta comporterà l’accrescimento delle conoscenze, l’allenamento delle capacità cognitive e l’ampliamento della propria rete sociale, o ad un altro che decide di smettere di fumare e seguire una dieta equilibrata.
La resilienza in età anziana, definita da Staudinger et al. (1999) come la capacità di gestire in modo costruttivo gli eventi critici della vita, sarebbe una forza motrice alla base di un comportamento strategico, capace di motivare l’anziano ad investire in nuovi obiettivi di vita, di vedere il futuro lì dove non c’è.
Baltes propone un sistema integrato di risorse, che insieme concorrerebbero a determinare buoni livelli di funzionamento e benessere:
Risorse senso-motorie: intese come una buona autonomia e capacità fisica, ad esempio avere un buon udito o una buona vista;
Risorse cognitive: risorse correlate all’efficienza intellettiva generale: avere una adeguata flessibilità cognitiva per adattare il proprio pensiero a situazioni e problemi nuovi.
Risorse di personalità: dipendenti dai propri tratti di personalità e da come essi vengano espressi;
Risorse sociali: avere il supporto di una buona rete sociale.
Ogni tipologia di risorsa, secondo Baltes e Lang (1997) avrebbe una diversa velocità di declino. Tramite diversi studi effettuati, è stato mostrato come gli anziani con elevate risorse in tutte e quattro le categorie fossero maggiormente attivi e sani.
Conservare le risorse risulta essere di fondamentale importanza per contrastare la vulnerabilità dell’anziano all’esposizione dei fattori di rischio. Ottimizzarle, mantenerle e saperle esplicitare strategicamente, sia a livello personale che sociale, risulta essere alla base di un invecchiamento salutare e positivo.
Molte patologie croniche, come il diabete o i disturbi cardiovascolari, inoltre, possono essere prevenute adottando uno dieta sana. Una dieta mediterranea, basata su cereali, verdure, pesce ed olio d’oliva e sulla riduzione del consumo di carne a favore di un maggior utilizzo di proteine vegetali sembrerebbe ridurre il rischio di malattie neurodegenerative e di tumori (Sofi e collaboratori, 2008).
I centenari
Gli anziani che raggiungono il secolo di vita sono oggi in continuo aumento, solo in Italia se ne contano circa 8000. La psicologia sta mostrando un grande interesse per questa tipologia di anziano: molte ricerche stanno cercando di capire quali siano i fattori psicologici alla base (fattori di personalità, aspetti emotivi, processi cognitivi) per poi tentare di definire un modello teorico generale.
Sinora sono state formulate diverse classificazioni di anziani centenari, utili proprio per definire quali siano i fattori responsabili della centenarietà. Franceschi (2000) distingue tra centenari di classe A, centenari di classe B e centenari di classe C. I primi sono anziani autonomi e attivi, gli ultimi, quelli di classe C sono non autonomi e con uno stato fisico e mentale precario mentre nel mezzo ci sono i centenari che si trovano in una condizione intermedia.
Everet e colleghi (2003) propongono un’ulteriore distinzione:
Centenari “sopravvissuti”: centenari a cui è diagnosticata una demenza o un deficit cognitivo entro gli 80 anni;
Centenari “ritardatari”: centenari ai quali i deficit sono diagnosticati dopo gli 80 anni;
Centenari “fuggitivi”: anziani che hanno compiuto 100 anni “sfuggendo” ad ogni tipo di deficit.
Questi ultimi rappresentano l’èlite dei centenari ed è su questa categoria che si sono focalizzati gli studi per comprendere meglio le variabili (individuali e ambientali) che hanno interagito per permettere ad un individuo anziano di raggiungere tale età, seppure rappresentino una percentuale molto bassa, 15-20%, di tutta la popolazione centenaria.
Perls (2004) propone che questa categoria abbia fatto un largo utilizzo di processi cognitivi di riserva, che abbiano portato a resistere ai cambiamenti patologici dovuti a demenze o ad altri deficit di deterioramento cognitivo. In generale, d’accordo con le teorie sull’ invecchiamento, possiamo dire che nei centenari rimangono intatte le abilità cristallizzate, come ad esempio le conoscenze procedurali, a discapito di quelle fluide. Rimane quindi fondamentale mantenere attive ed allenate le abilità cognitive dedicandosi ad attività intellettive, come ad esempio la lettura di libri, l’apprendimento di una nuova lingua, di uno strumento musicale o ad attività più quotidiane ma che richiedano l’utilizzo dei propri processi cognitivi, come la gestione del proprio libretto dei risparmi.
La memoria, una della abilità cognitive che prima decade nell’anziano e di fondamentale importanza in una vita attiva e dinamica, mostra nella centenarietà un cambiamento più caratteristico e specifico rispetto agli altri processi mentali.
Fromholt e colleghi (2003) nei suoi studi sulla memoria autobiografica hanno mostrato come i centenari avessero una capacità mnestica simile a quella del gruppo di controllo composto da anziani più giovani, ricordando maggiormente eventi delle prime fasi dell’età adulta (15-30 anni) e ricordi più recenti. Un aspetto importante messo in luce da questi studi è quello emotivo: il task dell’esperimento consisteva nell’associare un preciso e singolo ricordo personale ad un’ immagine presentata (un oggetto, un amico, ecc.). I centenari associavano alle diverse immagini ricordi con una valenza neutra piuttosto che ricordi segnati da una valenza emotiva (Mather & Carstensen,2005).
Una spiegazione di tale comportamento potrebbe essere suggerita dalla teoria della gerostrascendenza di Tornstam (1999) secondo cui le persone che raggiungono i 100 anni di vita mettono in atto una ristrutturazione dei propri obiettivi di vita secondo una visione meno materialista e più razionale e trascendentale che comporterebbe una revisione di se stessi e delle proprie relazioni. Emergerebbe un atteggiamento disinteressato verso la vita, considerando il tempo come una variabile ormai limitata e limitante. Di conseguenza, come mostrato negli studi di Fromholt, il ricordo sarebbe distaccato e oggettivo.
Mammarella e colleghi, in uno studio del 2013, confermano ulteriormente la teoria proposta da Tornstam. I partecipanti, durante la prima fase di tale esperimento dovevano apprendere una serie di immagini randomizzate, immagini sia con una valenza emotiva che religiosa, mentre nella seconda dovevano riconoscere le immagini come vecchie, cioè se rientravano nel gruppo di immagini precedente apprese, o nuove. Il gruppo sperimentale era composto da 18 centenari con un’ età media di 100 anni, quello di controllo da 18 anziani con età media di 75 anni. Le ipotesi furono confermate: se per gli “anziani giovani” vi era una migliore performance con le immagini emotive, i centenari ricordavano un maggior numero di immagini religiose. Come ipotizzato da Tornstam, un cambiamento di atteggiamento e di priorità di vita dopo gli 80 anni influenzerebbe la codifica delle informazioni: per i centenari le immagini religiose diventerebbero più salienti rispetto a quelle emotive, correlate ad un atteggiamento più positivo ma anche più concreto.
Non sono molti gli studi sul linguaggio, l’attenzione e il ragionamento nei centenari, ma in generale è emerso come i centenari non presentino forti differenze con gli anziani più giovani in compiti di fluenza verbale (Searl, Gabel e Fulks, 2002) e di attenzione visiva (Silver e colleghi, 1998).
Tuttavia, una vita longeva non può dipendere solo dai fattori cognitivi, ma anche dalle caratteristiche di personalità, i centenari fuggitivi sono estroversi, energici, capaci di gestire i propri stati emotivi in maniera coscienziosa: essi ottengono punteggi bassi su scale di valutazione dell’ansia, mostrandosi capaci di applicare strategie di coping funzionali di fronte ad eventi stressanti e debilitanti. Non può prescindere nemmeno da un adeguato sostegno ambientale, una figura amica che possa prendersi cura dell’anziano nei momenti di bisogno. Inoltre la componente familiare delle centenarietà è molto forte, un pool di geni condivisi all’interno di una famiglia sarebbero cruciali per raggiungere il secolo di vita senza patologie debilitanti (tant’è che nei centenari si riscontrano meno mutazioni nei geni regolanti lo sviluppo delle disabilità).
Ogni singolo fattore esposto da solo sarebbe insufficiente a garantire la centenarietà, ma un’ interrelazione tra loro potrebbe garantire il raggiungimento del secolo di vita. Si attendono nuove ricerche visto il crescente interesse verso questa tematica della psicologia dell’ invecchiamento che possano meglio spiegare come i diversi fattori possano influire sulla complessità del processo.