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Effetti della violenza domestica su madri e figli: la prospettiva della teoria dell’attaccamento

La figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa.

Di Marika Di Egidio, Federica Di Francesco

Pubblicato il 11 Nov. 2015

Aggiornato il 02 Lug. 2019 12:43

Marika Di Egidio, Federica Di Francesco

 

Nei casi di violenza domestica la figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa.

Sempre più frequentemente ci troviamo ad ascoltare o a leggere di donne vittime di violenza domestica.
Numerosi studi evidenziano che le donne che subiscono abusi, sia fisici che psicologici, risultano spesso depresse, ansiose, possono sviluppare un disturbo post-traumatico da stress (PTSD), abusare di sostanze o tentare il suicidio (Golding, 1999; Taft, Watkins, Stafford, Street & Monson, 2011).
Attraverso la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988) è possibile spiegare i meccanismi che alterano il funzionamento psicologico delle donne vittime di violenza.

Nell’uomo, secondo Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988), esiste una tendenza innata a ricercare la vicinanza con la figura d’attaccamento in situazioni di pericolo, stress e solitudine. Il comportamento d’attaccamento si attua come ricerca attiva della figura di riferimento che accudisce e protegge. Nel tempo le modalità con le quali si entra in relazione con le figure d’attaccamento, inizialmente la madre, si stabilizzano e tendono a generalizzarsi, formando schemi cognitivi interpersonali, che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (MOI). Queste rappresentazioni apprese di sé, della relazione con l’altro e delle figure d’attaccamento s’innestano sulle componenti innate del sistema e costituiscono una caratteristica individuale che modella le relazioni interpersonali, portando alla strutturazione di uno specifico stile di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato.

Durante un evento traumatico, come la violenza, si attiva nella vittima il bisogno di cercare sicurezza e protezione nella figura di riferimento, che nella relazione di coppia è rappresentata dal partner.

Nei casi di violenza domestica, tuttavia, la figura d’attaccamento è la stessa che perpetra la violenza; questo determina lo svilupparsi nella mente della donna di molteplici rappresentazioni drammatiche, dissociate, non organizzate e non integrabili di Sé, dell’altro e della relazione stessa. Tale stato di disorganizzazione psicologica potrebbe portare la donna abusata a esperire deficit di mentalizzazione e stati di disregolazione emotiva molto intensi che contribuiscono a intrappolarla in una relazione disfunzionale con il partner. La disorganizzazione a livello psicologico tende a manifestarsi anche a livello comportamentale, ripercuotendosi in maniera significativa sulle interazioni interpersonali intrattenute dall’ individuo, compresa la relazione madre-figlio (Huth-Bocks et al., 2004; Solomon & George, 1996 in Levendosky et al., 2012).

Numerose ricerche (Levendosky et al., 2006; Lyons-Ruth et al., 2005; Huth-Bocks et al., 2004) evidenziano, infatti, che i bambini cresciuti in ambienti familiari violenti, testimoni di abusi perpetrati ai danni delle proprie madri, tendono a essere maggiormente esposti al rischio di subire violenze in età adulta.
Alla base di tale associazione sono identificabili diversi fattori causali.

In primo luogo, interagire con una madre picchiata e maltrattata, psicologicamente disorganizzata, costituisce un’esperienza traumatica per il bambino. La relazione genitore-figlio si realizza attraverso una serie di comportamenti contraddittori: la figura d’attaccamento è al contempo spaventata e spaventante. In una simile relazione il bambino non può far altro che strutturare rappresentazioni mentali incompatibili del genitore, fonte allo stesso tempo di protezione e di pericolo o paura (per pericoli esterni e invisibili). A queste rappresentazioni del genitore corrispondono rappresentazioni del Sé altrettanto molteplici e incompatibili. Per descrivere le possibili combinazioni di tali modelli operativi interni di Sé e dell’Altro molteplici, segregati o dissociati, Liotti utilizza il concetto di “triangolo drammatico” di Karpman, per cui in un rapporto diadico i due attori si scambiano i ruoli di vittima, persecutore e salvatore.

Il bambino in relazione con una madre abusata tenderà infatti a percepirsi, di volta in volta, come persecutore, ossia responsabile della paura o aggressività manifestate dalla figura di attaccamento; come vittima terrorizzata e impotente dell’aggressività del genitore; come salvatore, il bambino è un conforto e un’ancora di salvezza per la madre. L’attivazione di modelli operativi interni (MOI) contraddittori e incompatibili ostacola gravemente la sintesi mentale di un senso di sé unitario e coerente, impedendo anche il monitoraggio cognitivo delle emozioni relative a questi molteplici MOI, che restano segregati o dissociati dalla coscienza.

Altrettanto importante è il fatto di dover crescere con una madre violentata e traumatizzata, incapace di esercitare in maniera adeguata la propria funzione genitoriale.

Come detto in precedenza, le madri abusate si sentono donne inette e vulnerabili e presentano una forte disorganizzazione a livello psicologico. Tale visione negativa di sé le induce a considerarsi anche madri inadeguate, incapaci di gestire il proprio bambino e le spinge ad allontanarsi dalla relazione con il piccolo, a ritrarsi sul piano emotivo e ad agire comportamenti scarsamente responsivi rispetto ai bisogni espressi dal figlio. Uno stile parentale così trascurante spinge il bimbo alla strutturazione di un accudimento invertito nei confronti di queste madri così sofferenti.

La felicità di un bambino passa attraverso il soddisfacimento, fin dai primi anni, dei suoi bisogni emotivi primari, che vanno dall’amore incondizionato dei genitori al rispetto del suo essere, dal riconoscimento di chiare gerarchie familiari al supporto nell’esplorazione del mondo esterno, dalla protezione all’empatia.
Tutti questi bisogni sono di solito assicurati dai genitori e dai familiari più stretti che forniscono al bambino una “solidità” di base che lo aiuterà ad affrontare la vita ed il mondo circostante senza eccessive paure.

È evidente che nel fenomeno dell’accudimento invertito questi aspetti vengono del tutto o in parte disattesi: i ruoli del genitore e del figlio si invertono e sarà il bambino a fornire cure e protezione al genitore più debole.

I bambini che sperimentano tale forma di accudimento sono spesso percepiti all’esterno come “mini-adulti”, molto responsabili e attenti ai bisogni dei genitori. Spesso non destano preoccupazione e apparentemente l’infanzia sembra procedere per il meglio; tuttavia, negli anni, potranno manifestarsi sintomi anche gravi di ansia e depressione. La forza di questi sintomi sarà direttamente proporzionale al periodo di accudimento invertito: più breve sarà e maggiori saranno le possibilità che il bambino torni a funzionare secondo le modalità tipiche della sua età cronologica; più lungo sarà il periodo e maggiore sarà la possibilità di uno sviluppo distorto della sua personalità.

Il bambino che si trova a interagire con una madre abusata non è pertanto messo nelle condizioni di potersi percepire come un soggetto competente e degno d’affetto; al contrario tende a maturare un’idea fortemente negativa di Sé, a vedersi come un individuo non amato e non amabile. In maniera complementare, il caregiver e l’Altro tenderanno a essere visti come rifiutanti, trascuranti, non accessibili sul piano emozionale. Tali rappresentazioni di sé e del mondo rendono il bambino più vulnerabile alla violenza esponendolo al rischio di essere coinvolto in relazioni con partner abusanti in età adulta.

Il fatto di aver assistito a episodi di violenza durante l’infanzia sembra essere correlato anche al rischio di sviluppare disordini psicopatologici e comportamentali di varia natura.
Varie ricerche (Chan & Yeung, 2009; Evans et al., 2008; Holt et al., 2008; Kitzmann et al., 2003; Sternberg et al., 2006; Wolfe et al., 2003; Martinez-Torteya et al., 2012; Martinez-Torteya et al., 2009 in Levendosky et al., 2012) confermano la relazione tra esposizione a episodi di violenza domestica durante l’infanzia e disturbi comportamentali esternalizzati (aggressività, deficit attentivi, comportamenti oppositivi-provocatori, delinquenza) e internalizzati (depressione, ansia) in adolescenza e in età adulta.

I bambini testimoni di violenze perpetrate a danno delle proprie madri mostrano una particolare vulnerabilità anche nei confronti del Disturbo Post-Traumatico da Stress (Bogat et al., 2006; Graham-Bermann et al., 1998b; Levendosky et al., 2002 in Levendosky et al., 2012).
Una possibile soluzione per interrompere tale circolo vizioso è ravvisabile nella terapia cognitivo-comportamentale. Iverson et al. (2011) mettono in evidenza come le donne abusate che decidono di intraprendere un percorso di terapia cognitivo-comportamentale riducano notevolmente il rischio di sviluppare depressione e Disturbi Post Traumatici da Stress, elaborando il trauma della violenza subita e conservando un’organizzazione psicologica funzionale a garantire il benessere psicofisico dell’individuo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Golding, J. M. (1999). Intimate partner violence as a risk factor for mental disorders: A meta- analysis. Journal of Family Violence, 14(2), 99-132.
  • Huth-Bocks, A. C., Levendosky, A. A., Theran, S. A., & Bogat, G. A. (2004). The impact of intimate partner violence on mothers’ prenatal rapresentations of their infants. Infant Mental Health Journal, 25, 79-98.
  • Iverson, K. M., Gradus, J. L., Resick, A. P., Suvak, M. K., Smith, K. F., & Monson C. M. (2011). Cognitive-Behavioral Therapy for PTSD and Depression Symptoms Reduces Risk for further Intimate Partner Violence Among Interpersonal Trauma Survivors. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 79(2), 193-202.
  • Levendosky, A. A., Lannert, B., Yalch, M. (2012). The Effects of Intimate Partner Violence on Women and Child Survivors: An Attachment Perspective. Psychodynamic Psychiatry, 40(3), 397-434.
  • Levendosky, A. A., Leahy, K. L., Bogat, G. A., Davidson, W. S., & von Eye, A. (2006). Intimate partner violence, maternal parenting, maternal mental health, and infant externalizing behavior. Journal of Interpersonal Violence, 17, 150-164.
  • Lyons-Ruth, K., Yellin, C., Melnick, S., & Atwood, G. (2005). Expanding the concept of unresolved mental states: Hostile/helpness states of mind on the Adult Attachment Interview (AAI) are associated with disrupted mother-infant communication and infant disorganization. Development and Psychopatology, 17, 1-23.
  • Taft, C. T., Watkins, L. E., Stafford, J., Street, A. E., & Monson, C. M. (2011). Posttraumatic stress disorder and intimate relationship problems: A meta-analysis. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 79(1), 22-33.
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