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Che ruolo ha l’empatia nell’attuazione di condotte etero-lesive?

La mancanza di empatia non sarebbe un deficit generale e rivolto ma chiunque, ma sarebbe indirizzato solo verso persone o gruppi specifici - Psicologia

Di Roberta Cattani

Pubblicato il 31 Ago. 2015

Aggiornato il 10 Ott. 2019 11:40

Roberta Cattani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

L’empatia consiste nella capacità di assumere la prospettiva altrui e quindi di comprendere quelli che possono essere i sentimenti di una persona in una certa situazione, e nella capacità di risuonare emotivamente, immedesimandosi nello stato emotivo dell’altro e rispecchiandone interiormente le emozioni.

In letteratura esistono numerose evidenze del fatto che l’empatia non è un tratto stabile ma che può invece essere considerata come una risposta di stato volontaria.

La maggior parte della discussione clinica relativa al costrutto di empatia e soprattutto la maggioranza delle sue misurazioni sperimentali si sono infatti per lungo tempo occupate di indagarne le manifestazioni in base all’assunzione che la capacità empatica fosse una disposizione trasversale a tutte le situazioni emotivamente salienti, stabile nei confronti di tutte le persone e costante nel tempo. Cottrell (1942) fu il primo ad avanzare invece delle critiche a questo approccio, ritenendolo inadeguato e sostenendo la necessità di identificare un contesto situazionale di riferimento, le cui caratteristiche fossero l’elemento cruciale in base al quale definire il peso dei processi empatici e quindi l’eventuale possibilità di sospensione degli stessi in determinate situazioni.

L’importanza di una contestualizzazione dell’empatia è stata sostenuta anche da Hoffman (1982), sulla base dell’idea che se gli esseri umani non fossero in grado di inibire volontariamente le loro naturali risposte empatiche in determinati momenti, essi esperirebbero un eccessivo coinvolgimento nella maggior parte delle situazioni quotidiane. Da ciò si evincerebbe perciò, secondo l’autore, l’importanza per la specie umana di essere in grado di reprimere talune spinte empatiche nelle situazioni che lo richiedano, allo scopo di funzionare in modo più adattivo ed efficace nelle interazioni sociali.

Nell’esperienza quotidiana sarebbe infatti possibile trovare numerose tracce di momenti in cui un funzionamento adattivo ed efficiente richieda una minimizzazione del rispecchiamento empatico, come negli esempi offerti da attività di evasione quali romanzi o film, i quali basano un sano coinvolgimento nella loro trama tanto sulla capacità di identificazione del lettore e dello spettatore nelle vicende e nei sentimenti dei protagonisti, quanto sulla possibilità di relativizzare tale partecipazione empatica all’artificiosità degli avvenimenti proposti.

La ricerca recente, superando la precedente concezione dell’empatia come tratto stabile e non condizionato da elementi esterni, sta in effetti fornendo sempre maggiore supporto all’idea che si tratti piuttosto di una risposta di stato, conseguente alla volontaria scelta del soggetto di agire secondo scopi più o meno prosociali, sulla base di una varietà di fattori contestuali.

Studi effettuati su campioni di sexual offenders hanno infatti dimostrato con particolare evidenza il fatto che la mancanza di empatia non risulti necessariamente un deficit generale ed esteso nei confronti di tutte le persone, ma che possa piuttosto verificarsi in maniera selettiva nei riguardi di una precisa vittima o di un gruppo.

Marshall e colleghi (1995) hanno infatti riscontrato in aggressori sessuali e in molestatori infantili deficit di empatia specificatamente circoscritti nei confronti rispettivamente di donne e di giovani ragazzi. A conferma di questa ipotesi, Fernandez e colleghi (1999) hanno testato un gruppo di soggetti pedofili resisi rei di molestie a danno di giovani vittime, attraverso l’uso di vignette raffiguranti tre diversi tipi di situazioni stressanti, in cui venivano coinvolti dei bambini: nel primo caso, il bambino protagonista dell’immagine risultava sfigurato a seguito di un grave incidente stradale; nel secondo caso, un bambino subiva molestie sessuali da parte di un estraneo ed infine, in una terza vignetta, veniva rappresentata la vittima stessa del soggetto testato. Una volta mostrate ai partecipanti tali vignette, veniva loro chiesto di scegliere lungo un elenco le emozioni attribuite ai bambini protagonisti di ciascuna immagine. In un secondo momento veniva poi chiesto di indicare nello stesso modo anche le emozioni da loro provate a fronte di ciascuna immagine.

Dai risultati sono emersi livelli empatici nella norma ed analoghi a quelli del gruppo di controllo nei confronti dei bambini sfigurati in incidenti stradali e punteggi solo leggermente più bassi durante l’osservazione delle vignette raffiguranti una generica violenza sessuale su minori. Significativamente, invece, tali livelli di empatia risultavano azzerarsi quasi completamente nel caso in cui l’immagine avesse per protagonista la loro stessa vittima.

I dati di questo studio hanno così confermato la presenza, in un campione di molestatori infantili, di una normale capacità di empatia nei confronti di bambini in generale, ma della possibilità di una sua inibizione selettiva nei confronti delle proprie vittime, ovvero in casi in cui determinati stimoli possano far prevalere la motivazione a subordinare il benessere altrui al prioritario soddisfacimento di piacere personale.

Anche Fernandez e Marshall (2003) hanno individuato analoghe soppressioni di empatia vittima-specifiche in molestatori autori di violenza su donne adulte. Analogamente ai risultati della ricerca precedente, anche in questo studio sono emersi livelli di empatia significativamente più bassi nei confronti di donne in cui i soggetti potevano riconoscere le loro stesse vittime, rispetto ai più alti punteggi di empatia emersi invece nei confronti di donne vittime di altri accadimenti violenti.

In considerazione degli analoghi risultati ottenuti da diversi altri studi (Farr et al., 2004; Fisher, 1997; Fisher et al., 1999; Marshall et al., 1997; Webster and Beech, 2000; Whitaker et al., 2006), si può quindi ritenere che tali dati forniscano sostegno alle più recenti ipotesi che fanno ritenere l’empatia come una risposta di stato volontaria, nonché suggeriscano degli elementi di maggiore comprensione clinica di alcune forme di comportamento deviante e di aggressività strumentale, come l’esito di una deliberata scelta di sospensione della risposta empatica in modo vittima-specifico, ossia nei riguardi di una precisa persona o gruppo di individui identificati come bersaglio della propria violenza.

L’aggressività strumentale, tipica ad esempio degli individui psicopatici, si distingue infatti da quella reattiva per il fatto di dipendere meno da aspetti di disregolazione impulsiva e di essere invece maggiormente finalizzata al raggiungimento di scopi e vantaggi personali.

In relazione a questa strategia inibitoria, ricerche di Ward e colleghi (1997) e di Marshall e collaboratori (2001) hanno riscontrato in campioni di molestatori sessuali una significativa correlazione tra il verificarsi di tali sospensioni di empatia in modo vittima-specifico e l’utilizzo di particolari bias cognitivi: questi consistono in modalità distorte e disadattive di ragionamento e di interpretazione della realtà, che permettono di adattare le informazioni ai propri convincimenti in modo coerente ed utilitaristico, giustificando così comportamenti immorali passati e facilitandone il mantenimento in futuro (Marshall et al., 1999).

Tra i bias più comuni nell’ambito delle condotte antisociali figurano soprattutto la dislocazione della responsabilità, attraverso la quale viene operato un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto ad altre persone o alle circostanze, e la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale viene invece operata una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione mentale delle conseguenze positive o negative di un’azione. Tali processi di distorsione cognitiva del contesto e della vittima possono così agire sinergicamente nel determinare un transitorio allentamento delle capacità empatiche ed una loro temporanea sospensione.

Un tipo di meccanismi in base ai quali si ritiene che vengano attuate temporanee soppressioni di giudizio morale sarebbero quindi le distorsioni che agiscono a livello rappresentativo, andando transitoriamente ad inibire le capacità empatiche ed i sentimenti prosociali, momentaneamente messi al servizio di scopi devianti dalla norma, in situazioni in cui vengano meno le motivazioni a dare peso morale ai danni procurati all’altro.

A conferma del fatto che le difficoltà empatiche rilevate in tali casi possono essere la conseguenza di deliberate soppressioni di sentimenti prosociali, alcune ricerche hanno individuato anche nello spostamento del focus attentivo un altro meccanismo rilevante ai fini di agevolare l’attuazione e la perpetuazione di comportamenti immorali: si ritiene infatti che l’evitamento dello sguardo della vittima possa rappresentare un modo per minimizzare volontariamente la percezione della sofferenza procuratale ed allontanare così la possibilità che eventuali accessi empatici di senso di colpa o di rimorso possano avere la meglio e trattenere il soggetto dal portare a termine i propri progetti.

Una serie di ricerche ha dimostrato infatti che la capacità di riconoscere le emozioni altrui è in genere pesantemente influenzata dal focus dell’attenzione e che, nello specifico, l’incapacità di provare empatia per i segnali di disagio espressi dalle vittime si normalizza nel caso in cui tali manifestazioni rientrino nel loro campo attentivo.
In una ricerca di Glass e Newman (2006) condotta su individui psicopatici, non è infatti stata trovata alcuna difficoltà di processamento emotivo nella condizione sperimentale in cui ai partecipanti veniva chiesto di identificare, tra diverse espressioni facciali presentate, quella che rappresentava una certa emozione, ossia nella situazione in cui tale indicazione veniva fornita visivamente in forma di parola circa un secondo prima della presentazione delle espressioni facciali stesse, dando così la possibilità al soggetto sperimentale di prepararsi a rivolgere la propria attenzione su quegli specifici aspetti indicativi di un certo stato emozionale.

In uno studio di Dadds e collaboratori (2006) è stato riscontrato tale fenomeno anche in bambini e in adolescenti con tendenze psicopatiche: è stato osservato che la loro capacità di riconoscimento delle espressioni facciali soprattutto di paura si normalizzava nel momento in cui venivano invitati a guardare specificamente gli occhi delle persone coinvolte nello studio come stimolo sperimentale.

Sostegno a quest’ipotesi proviene anche da un altro studio di Richell e colleghi (2003), nel quale è emerso che la capacità di attribuire stati mentali nel test di lettura degli occhi non appare in genere alterata negli psicopatici e che, quando si rintraccia invece una difficoltà di questo tipo, questa sembrerebbe dipendere proprio dal focus dell’attenzione e dunque, plausibilmente, sarebbe funzione dello stato mentale attivo nella mente del soggetto.

Questi dati dimostrano allora che la minore empatizzazione nei confronti delle vittime, da parte di chi commette azioni devianti o agisce aggressività strumentale, potrebbe dunque essere considerata come la conseguenza di un proattivo dislocamento dell’attenzione dagli elementi che abbiano rilevanza emotiva, tra i quali in particolare lo sguardo della vittima.

Queste ricerche suggeriscono dunque che la capacità di alcuni soggetti di agire in modo gravemente antisociale e lesivo del benessere altrui possa essere spiegabile come parte di una strategia tesa ad inibire l’attivazione di sentimenti prosociali e a poter mantenere un atteggiamento freddo, distaccato ed aggressivo nei confronti dell’altro, senza essere in ciò disturbati da risonanze empatiche che potrebbero sorgere se l’attenzione dovesse soffermarsi sullo sguardo della vittima.

In conclusione, in base ai dati della ricerca emersi, la perpetrazione della violenza e di alcune forme di aggressività sembra essere sostenuta da soppressioni transitorie della sintonizzazione emotiva in modo vittima-specifico, attraverso un insieme di strategie cognitive ed attentive, volte a favorire tale distanziamento empatico.

 

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