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Dallas Buyers Club e l’empowerment individuale – Cinema & Psicologia

La pellicola si focalizza sul tema dell'empowerment individuale, cioè quella capacità di scegliere la strategia migliore per affrontare i problemi

Di Manuela Agostini

Pubblicato il 20 Mar. 2015

Aggiornato il 08 Apr. 2015 10:26

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa.

L’Empowerment (inteso come “potere di”) è un punto cardine per la Psicologia di Comunità. Questo è analizzabile ovviamente in diversi contesti, primo fra tutti quello individuale.

Il self-empowerment nasce da una condizione di disempowerment in cui la persona in questione sperimenta l’inefficacia delle proprie azioni e condizioni rispetto ad un particolare evento. Da questa impotenza appresa si passa alla speranza appresa e quindi all’empowerment vero e proprio, cioè quella capacità di scegliere la strategia migliore per affrontare i problemi i cui tre costrutti fondamentali sono essenzialmente 3:

– Controllo (credere nelle proprie capacità)

– Consapevolezza critica (comprendere e analizzare i contesti di vita)

– Partecipazione

Alla visione del film “Dallas Buyers Club” si ritrovano, scena dopo scena gli elementi chiave di questo processo. Portato sul grande schermo nel 2013, con la regia di Jean-Marc Vallèe,, che gli porta la candidatura agli Oscar come miglior montaggio, una sceneggiatura di Craig Borten e Melisa Wallack liberamente ispirata alla storia vera di Ron Woodroof e interpretato da Matthew McConauughey come miglior attore protagonista, il film seppur parlando di un tema molto importante come quello dell’HIV, centra perfettamente il tema del self-Empowerment.

La storia è quella Ron Woodroof a cui viene diagnosticata l’AIDS nel 1985. Nel film il personaggio di Ron è descritto come un omofobo, rozzo che incarna il perfetto stereotipo texano. Sebbene la veridicità dei fatti nella sceneggiatura sia stata un pò “caricata”, come per il carattere rude di Ron, ed inventata inserendo personaggi che non sono realmente esistiti come la Dr.ssa Saks e l’amico Rayon, passo dopo passo, tono su tono ci descrive perfettamente l’evoluzione della persona e del personaggio.

Ron Woodroof scopre accidentalmente di avere l’AIDS, malattia legata nell’immaginario collettivo degli anni ’80 ad una piccola cerchia di gruppi sociali. Non si capacita dell’accaduto, gli danno 30 giorni di vita e di questi, uno dopo l’altro vede allontanarsi da lui, persone amiche che con atteggiamenti bigotti lo lasciano solo nel suo calvario (chiara condizione di disempowerment).

Incredulo, comincia a documentarsi. Scopre che per poter allungare l’aspettativa di vita dovrebbe assumere un farmaco di nuova sperimentazione, l’AZT, negatogli però, non essendo inserito nella lista dei candidati alla sperimentazione. Non si dà per vinto, riesce a corrompere un portantino che gli fornisce il farmaco di nascosto per un po’. La storia non va avanti a lungo e dopo l’interruzione dell’AZT, Ron si ritrova a combattere con una serie di sintomi che lo stanno portando all’inevitabile fine. Non si arrende, la sua speranza è la sua forza, arriva in Messico e si imbatte in un medico radiato dall’albo che invece di proporgli l’AZT, tossico a parer suo, e che lo sta distruggendo (l’AZT non è infatti il farmaco di prima scelta avendo molte controindicazioni, ma un ottima entrata economica nata da un accordo tra case farmaceutiche e governo contro cui Woodroof combatterà a lungo)  lo cura quindi con un altro farmaco, peptide T.

I trenta giorni sono ormai passati, Ron è ancora vivo (fase di controllo, crede nelle proprie capacità, riacquista fiducia)  e pensa bene di importare la cura alternativa negli Stati Uniti.

Che lo faccia per guadagno, per condivisone o qualsivoglia altro motivo, porta i farmaci e cerca di venderli, ma, la maggioranza dei malati è rinchiusa in quella ristretta cerchia sociale quella degli omosessuali e nulla può con il suo atteggiamento se non dopo l’incontro con Rayon, transgender tossicodipendente, che filtrerà gli incontri e che gli suggerisce poi di fondare un Buyers Club, associazioni parecchio utilizzate all’epoca, i cui membri, grazie alla quota contributiva, possono ricevere, in questo caso, i farmaci alternativi proposti da Woodroof, farmaci che, evidenziando il miglioramento in Ron, sono un ottima alternativa, se non quella di elezione, alla sperimentazione.

Cambia stile di vita, osserva e si prende cura anche delle persone che lo circondano (l’analisi dei contesti di vita, propri della fase di consapevolezza è chiara), che piano piano comincia a conoscere, apprezzare ed aiutare volontariamente, tanto che da questo momento in poi c’è una salita evolutiva del personaggio (arriva quindi alla fase di partecipazione, nel suo caso volontaria, alla sua comunità).

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa, basti pensare alla commovente scena in cui, dopo l’irruzione della polizia e l’esproprio dalla sede inziale del club, due associati propongono e cedono  la loro casa come sede del Club e  non per ultima, alla scena finale, in cui nonostante la tesi di Woodroof sui benefici del Peptide T, sia in effetti giudicata positiva personalmente dal giudice, questi,  nell’udienza con l’FDA, non può convalidarlo in termini di legge, così tornando al Club, amareggiato ma non piegato, Ron è accolto da un lungo applauso che corona ed evidenzia come la crescita  sia ormai diventata evidente e la forza e l’apprezzamento di questo personaggio sono maturati con lui e rispecchiati nella sua comunità. Nonostante il countdown inziale, muore dopo sette anni, forse gli anni, nonostante la triste disgrazia, più importanti della sua vita.

 

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Manuela Agostini
Manuela Agostini

Dott.ssa in Psicologia della salute clinica e di comunità

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