Psicologia Ambientale & Entità Ecologiche: Un ponte verso nuovi orizzonti sostenibili
«Si fa un gran parlare di come aiutare il nostro pianeta cambiando ciò che facciamo: usare la bicicletta al posto dell’automobile, montare le nuove lampadine fluorescenti a risparmio energetico, riciclare le bottiglie e adottare altri facili accorgimenti» (D. Goleman, p. 17).
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Sostenibilità e comportamenti ecologici sembrano argomenti sulla bocca di tutti ma, dopo anni di campagne informative, promozioni ed incentivi, la maggioranza degli italiani si è limitata ad incrementare la raccolta differenziata e a mangiare più cibi biologici (FISE – UNIRE, 2010; Coldiretti, 2012). Sicuramente meglio di niente ma la strada per diminuire le emissioni di carbonio è ancora lunga.
La paura di perdere il voto dei cittadini impedisce ai responsabili delle politiche per l’ambiente di operare soluzioni drastiche. Perciò, al momento, la ricerca si concentra sullo studio di nuovi meccanismi, non troppo invasivi, in grado di produrre cambiamenti ecologici sostanziali nella vita delle persone. Per esempio, in Inghilterra, il DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs) ha promosso delle indagini sui cosiddetti “comportamenti catalizzatori” (catalyst behaviours), prendendo come punto di riferimento un modello teorico sociale classico secondo cui l’adozione di un certo comportamento (per esempio, il riciclo) aumenta la probabilità che un soggetto ne accolga un altro simile (per esempio, il compostaggio) (Whitmarsh, 2010).
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Alcuni gruppi di psicologi studiano già da qualche anno questi comportamenti che vanno “a braccetto”. Barr e colleghi, per esempio, hanno identificato tre gruppi distinti di azioni ecologiche: “decisioni di acquisto” (shopping, compostaggio e riutilizzo), “abitudini” (risparmio domestico di acqua ed energia) e “riciclo”, che sembrano essere collegate a diversi stili di vita (come, per esempio, specifiche caratteristiche socio-demografiche o valori).
Tuttavia, la maggior parte di queste ricerche non è in grado di estendere i risultati alla totalità dei comportamenti sostenibili: le persone non agiscono in modo coerente e non sembrano esistere motivazioni comuni per le loro azioni ecologiche. Inoltre, gli studi non sono ancora capaci di spiegare fenomeni opposti come lo spill-over effect, per il quale l’assunzione di un certo comportamento comporta l’esclusione di un altro ad esso associato (per esempio, riciclo e prevenzione dello spreco). In particolare, sembrano essere sistematicamente esclusi i comportamenti legati al trasporto e alle politiche energetiche, per i quali, probabilmente, influiscono maggiormente i fattori esterni, come la disponibilità economica o l’esistenza di alternative accessibili.
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Lo scrittore ambientalista Derrick Jensen (2006) scrive che non è possibile creare una cultura della sostenibilità senza possedere un’anima ecologica. Da un punto di vista psicologico, questa affermazione racchiude uno spunto interessante. L’identità “green”, più che l’anima, potrebbe essere un valido punto d’appoggio per costruire un certo livello di coerenza nei nostri atteggiamenti e nelle nostre azioni. Quello che unisce una certa identità con la messa in atto di un particolare comportamento, infatti, è l’esistenza di significati comuni ai due elementi. In relazione ad una certa identità di sé, i comportamenti che condividono con l’identità in questione una serie di significati sociali hanno una probabilità maggiore di essere messi in atto. Per esempio, è possibile che coloro che si considerano dei “consumatori verdi” acquistino del cibo biologico, in quanto quest’azione è coerente, in termini di significato, con l’identità di sé come consumatori verdi (Sparks, Shepherd, 1992).
In particolare, sembra che ci siano almeno due livelli in cui identità può operare: rinforzare un comportamento ecologico specifico (per esempio l’identità del tipico riciclatore) o stimolare, in modo generico, una serie di sotto-azioni ecologiche (per esempio promuovere l’“eco-shopping”). Secondo gli studi più recenti, la prima potrebbe essere utile per spiegare la persistenza nell’eseguire uno specifico comportamento pro-ambientale (e quindi sarà strettamente legata al comportamento passato), mentre la seconda può chiarire le ragioni dell’effetto spillover (Whitmarsh, 2010).
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L’identità si qualifica quindi come ponte tra vari comportamenti ecologici, sottolineando la necessità di stimolare aspetti rilevanti di quest’ultima (ad esempio, attraverso informazioni mirate), o mirare a specifici gruppi (per esempio, tramite la segmentazione della popolazione), per ottenere dei cambiamenti durevoli nel tempo.
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DOCUMENTI PER APPROFONDIMENTI:
BIBLIOGRAFIA:
- Barr, S., Gilg, A. W., & Ford, N. (2005). The household energy gap: examining the divide between habitual- and purchase-related conservation behaviours. Energy Policy, 33, 1425–1444.
- Derrick, J. (2006). Endgame, Vol. 1: The Problem of Civilization. Seven Stories Press, New York.
- Goleman, D. (2009). Intelligenza ecologica. Rizzoli, Milano
- Sparks, P., & Shepherd, R. (1992). Self-identity and the theory of planned behaviour: Assessing the role of identification with green consumerism. Social Psychology Quarterly, 55(4), 388–399.
- Whitmarsh, L., O’Neill, S. (2010). Green identity, green living? The role of pro-environmental self-identity in determining consistency across diverse pro-environmental behaviours. Journal of Environmental Psychology, 30, 305–314.