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Promozione del cambiamento e apparenti ricadute. Integrare il lavoro top-down e bottom-up in Terapia Metacognitiva Interpersonale

La psicoterapia dei Disturbi di Personalità prevede la messa in discussione degli schemi disfunzionali e la costruzione di parti di sé più funzionali. Questo secondo obiettivo è spesso più difficile da raggiungere e in terapia corrisponde, nelle fasi avanzate, a ricadute o un rallentamento nel processo di cambiamento.

Di Tiziana Passarella

Pubblicato il 21 Mag. 2018

Aggiornato il 29 Ago. 2019 12:25

Ogni psicoterapia con pazienti con Disturbi di Personalità non segue un andamento lineare e una volta arrivati ad alcuni obiettivi di realizzazione personale, di contatto relazionale e di solidità nell’immagine positiva di sé, il raggiungimento degli obiettivi successivi non è affatto scontato.

 

Giulia ha 40 anni, finalmente ha un lavoro, non ancora uno di quelli in cui utilizzare le sue qualità di biologa, ma discretamente remunerato e in ogni caso un buon trampolino di lancio per cercare il lavoro a cui realmente aspira. Nella sua storia ci sono un padre assente, che nei pochi momenti di presenza le ha ricordato con disprezzo e freddezza quanto poco valesse e quanto lei e sua madre non potessero neanche pensare di ambire a una vita di soddisfazione e successo; ed una madre casalinga, mai realizzata, che non si è mai ribellata e che vive da eterna adolescente. Il senso d’incapacità, inettitudine e impotenza rendevano impensabile l’idea di trovare un lavoro e inarrivabile la sua conquista. Ha lavorato sull’immagine di sé inetta e indegna e oggi non solo ha un lavoro, ha instaurato un ottimo rapporto con la figlia del suo compagno, ha lasciato la casa dei genitori affrontando il senso di colpa per l’ira del padre e la solitudine della madre, sta comprando casa. Fino a due anni fa tutto questo era inimmaginabile. Eppure, anche se accede a sentimenti di contentezza e serenità, quando ci fermiamo ad individuare e descrivere le emozioni e le sensazioni positive alternative allo stato di sofferenza, riesce a malapena a coglierle e prevalgono il senso di colpa quando si paragona a coloro che soffrono, il senso di insoddisfazione per quello che manca ancora al proprio lavoro e sentimenti di solitudine e abbandono nella relazione con il compagno.

Antonio proviene da una storia di abbandoni precoci e ripetuti da parte della figura materna, sanati con comportamenti caotici e colpevolizzanti da parte di quest’ultima. Attualmente ha recuperato quello che lui stesso chiama “il mio proprio mio”, uno stato in cui è a contatto con i propri desideri e mette in atto azioni concrete per perseguirli, ha riscoperto la sua parte creativa, si sta realizzando nel lavoro. Eppure ogni volta che ci fermiamo ad osservare emozioni e sensazioni di contentezza per sé stesso, amorevolezza, sicurezza, orgoglio verso di sé, Antonio entra in uno stato profondamente angoscioso transitando in maniera repentina nel panico.

Sofia negli anni matura un’immagine di sé indegna, insicura, incapace nelle cose pratiche e nelle relazioni, oscillando ripetutamente tra relazioni con uomini presenti ma fragili e dipendenti e relazioni con uomini indisponibili, con i quali vive i momenti intensi che cerca ma che, a causa della distanza emotiva, alimentano l’immagine negativa di sé. Grazie alla terapia, anche Sofia ormai ha strutturato un’immagine di sé nuova incentrata sulla sicurezza, sul senso di amabilità, sul diritto ad esistere, e, nel quotidiano, il senso di indegnità precedente ormai è solo un ricordo. Ma quando conosce finalmente un uomo presente sul piano pratico e sul piano emotivo, solido e amorevole che le conferma l’immagine di sé positiva, le rappresentazioni negative riaffiorano e inizia un dramma in cui, nei modi più creativi e disparati, quasi distrugge la relazione attraverso gelosie, colpevolizzazioni ed esplosioni rabbiose. E dopo essere riuscita ad arginare queste reazioni e ad accedere finalmente ad un senso di sicurezza nella relazione di coppia, inizia a soffrire terribilmente quando decidono di comprare casa e hanno un bambino.

Cosa ci dicono questi esempi? Cosa succede nelle fasi avanzate di psicoterapia?

Questi pazienti si trovano tutti in una fase avanzata di cambiamento in cui il loro modo di vedere sé stessi e gli altri è in gran parte cambiato e diventato più benevolo. Eppure, proprio quella realizzazione tanto desiderata e per la quale hanno lavorato in psicoterapia con motivazione e collaborazione costituisce il fattore scatenante di una nuova sofferenza.

Si tratta di ricadute? Oppure la terapia non è più efficace? O ancora queste persone non possono andare oltre certi obiettivi?

Non si tratta di nulla di tutto ciò. La letteratura ci dice come la psicoterapia dei Disturbi di Personalità preveda, oltre alla messa in discussione e la presa di distanza dagli schemi disfunzionali, anche la costruzione di parti di sé più funzionali (Livesley, 2003) e che questo secondo obiettivo sia spesso più difficile e richieda più tempo rispetto al precedente (Dimaggio et al., 2013). In questa fase i pazienti entrano maggiormente in contatto con i propri desideri, vivono relazioni in cui esprimerli, esplorano nuove realtà e lasciano che la propria azione sia guidata da schemi basati su un’immagine positiva di sé e non patogena. Compito del terapeuta in questa fase è aiutare il paziente a notare, espandere e tenere in memoria le nuove esperienze adattive, cariche di emozioni positive (Fredrickson, 2001; Greenberg, 2002).

Ma, come è facile notare nei casi descritti precedentemente e osservare in molte terapie con Disturbi di Personalità, sottolineare, lasciare spazio, enfatizzare questi aspetti adattivi può non essere un percorso libero da sofferenza, anzi. Ogni psicoterapia con pazienti con Disturbi di Personalità non segue un andamento lineare e una volta arrivati ad alcuni obiettivi di realizzazione personale, di contatto relazionale e di solidità nell’immagine positiva di sé, il raggiungimento degli obiettivi successivi non è affatto scontato.

Siamo sempre nel vivo della psicoterapia, nel pieno della possibile attivazione degli schemi interpersonali patogeni che anzi, quanto più si accede a un reale cambiamento, vengono sfidati e quindi sollecitati.

Nessuna rottura dell’alleanza quindi, nessun fallimento psicoterapeutico, nessun ostacolo che ci dica che più di tanto in là il paziente non possa andare. Stiamo parlando di una nuova fase di terapia che non è in discesa, ma terapia a tutti gli effetti se non, in molti casi, uno dei momenti più difficili e lenti di tutto il processo psicoterapeutico.

Di fatto siamo di fronte ad un apparente paradosso: da un lato la terapia è nel momento di promozione del cambiamento e quindi il focus è su agency, esposizione alle emozioni e immagini positive, sul dare voce ai propri desideri, sperimentare nuove azioni, ampliare le relazioni sociali; dall’altro ci troviamo di fronte ad un paziente che vive un nuovo crollo delle funzioni metacognitive, in particolare della differenziazione ovvero dell’essere preso all’improvviso da rappresentazioni negative di sé-con-gli altri che tende a prendere per vere. Nello stato di malessere, quindi, i pazienti faticano nuovamente ad acquisire distanza critica dalle rappresentazioni patogene.

Cosa facciamo nella Terapia Metacognitiva Interpersonale in questi momenti?

In linea con le procedure decisionali (Dimaggio et al., 2013) riformuliamo il contratto terapeutico (si veda anche l’articolo di Dimaggio: Il contratto terapeutico) su questa nuova fase, iniziamo ad esplorare i contenuti di questa sofferenza, arricchiamo la formulazione degli schemi interpersonali o ne individuiamo di nuovi. Anche l’attenzione alla relazione terapeutica, come in tutte le fasi di terapia, è costante.

Ma questo non basta. Arrivati a questo punto della psicoterapia, il lavoro sulla consapevolezza, sugli schemi e sulla differenziazione è importante ma può fare da sfondo e da contenitore ad un lavoro più specifico: il lavoro sul corpo! In questa fase il lavoro sul corpo diventa centrale ed è finalizzato a sciogliere le memorie corporee legate agli schemi e ad ampliare gli stati mentali positivi per abitarli e renderli più stabili (Ogden, 2016; Van Der Kolk, 2015)

Lo facciamo integrando la psicoterapia individuale con percorsi individuali o di gruppo che abbiano il corpo come principale focus di azione. A seconda, quindi, delle diverse esigenze della persona che abbiamo davanti possiamo spaziare dall’EMDR alla Terapia Sensomotoria, alla Mindfulness, a tecniche importate dalla Terapia Gestalt, in un’integrazione continua tra il cosiddetto lavoro top-down e quello bottom-up.

Il caso di Sofia

Delle tre storie che abbiamo presentato ci focalizziamo per brevità sull’evoluzione della psicoterapia di Sofia.

La paziente, mediante l’integrazione del lavoro di Terapia Metacognitiva Interpersonale con pratiche di Terapia Sensomotoria e di Mindfulness, ha potuto recuperare e sciogliere memorie corporee di allarme a seguito di costanti e ripetute negazioni di vicinanza relazionale da parte dell’altro dopo attimi di contatto intimo. Per prima cosa, Sofia ha esplorato le proprie reazioni corporee in esercizi di osservazione della vicinanza e lontananza relazionale, di orientamento dello sguardo all’esterno per poi restringerlo su di sé, di assunzione nel corpo di atteggiamenti di assertività.

In questo modo ha riconosciuto nel corpo l’attivazione di una spinta a chiudersi nelle relazioni, a sottrarsi al contatto per poi compensare questa chiusura con una spinta altrettanto forte a cercare emozioni intense. Ha inoltre preso coscienza di segnali di un dolore ancora molto vivo nel corpo, di fronte alla percezione del disprezzo su un qualunque viso altrui.

A questo punto, aumentata la capacità di monitoraggio della sofferenza fino a quel momento inaccessibile, abbiamo potuto richiamare il suo schema interpersonale patogeno legato all’idea di sé indegna e Sofia stessa ha iniziato a guardarlo in maniera più distaccata.

Sofia ha visto di nuovo e più chiaramente il proprio desiderio di sentirsi amata ma che esso fosse sorretto da un’immagine nucleare di sé non-amabile. A fronte di questo prevedeva che se avesse mostrato il bisogno di amore e cure l’altro avrebbe risposto allontanandola, rifiutandola, tradendola. Queste anticipazioni generavano come risposta del sé il potenziamento dell’idea di sé come non-amabile e indegno, che portavano Sofia a sentirsi vuota. A questo punto la chiusura relazionale, prendere distanza dall’altro, era il coping patogeno che da un lato la proteggeva, dall’altro aumentava il senso di non amabilità. Il vuoto aumentava a causa dell’assenza di relazione e quindi Sofia per gestirlo adottava come coping la ricerca di emozioni forti come euforia o rabbia.

Abbiamo enfatizzato questa possibilità di osservare l’attivazione del proprio schema interno in quanto evento psichico e non come realtà, attraverso delle pratiche di Mindfulness applicata agli schemi e quindi ai Disturbi di Personalità (Ottavi, Passarella et al, 2016). Continuando con pratiche sensomotorie finalizzate al recupero delle risorse non completamente sviluppate durante la crescita, Sofia ha iniziato ad accedere a stati più duraturi di leggerezza, gioia e calore inizialmente negati o facilmente sostituiti da emozioni negative, poi sempre più duraturi. In altre parole, Sofia ha vissuto esperienze corporee che contrastavano, in maniera viscerale e profonda, il senso di vuoto, l’inadeguatezza, la vergogna e la rabbia fino ad arrivare a quello che ora descrive come “un sorriso interiore”.

Queste sensazioni finalmente più accessibili le abbiamo infine riportate all’immagine di sé percepita questa volta come degna, solita e competente per poi tornare a lavorare sulla messa in atto di azioni in linea con questa nuova immagine di sé e il nuovo stato corporeo ed emotivo. Questo, in ultima analisi, ha ridotto l’intensità della reazione di fronte allo sguardo sprezzante dell’altro.

Sofia farà sempre i conti con il suo schema e le attivazioni corporee ad esso legate? Forse sì. Ma possiamo dire che lo farà in maniera più consapevole e meno intensa e con un bagaglio di nuove memorie corporee e cognitive che le consentono di scegliere in maniera più libera e consapevole come agire.

E così credo sia prezioso constatare quanto da apparenti ricadute possa nascere uno dei momenti più belli e risolutivi dell’intero percorso di guarigione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità. Raffaello Cortina, Milano.
  • Fredrickson, B.L. (2001). The Role of Positive Emotions in Positive Psychology: The Broadenand-Build Theory of Positive Emotions. In American Psychologist, 56, pp. 218-226.
  • Greenberg, L.S. (2002). Emotions-focused Therapy: Coaching Clients to Work Through Feelings. American Psychological Association, Washington, DC.
  • Livesley, W.J. (2003). Practical Management of Personality Disorders. Guilford Press, New York.
  • Ogden, P. (2016). Psicoterapia Sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Raffaello Cortina, Milano.
  • Ottavi, P., Passarella, T., Pasinetti, M., Salvatore, G., Dimaggio, G. (2016). Adapting Mindfulness for Treating Personality Disorder. In Livesley, J., Dimaggio, G., Clarkin, F. (a cura di) Integrated Treatment for Personality Disorders. A modular Approach. Guilford Press, New York.
  • Van Der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffaello Cortina, Milano.
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