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Il processo decisionale in Tribunale: cosa guida il ragionamento del giudice?

Anche in Tribunale come nella realtà quotidiana, scorciatoie di pensiero, pregiudizi, background del giudice possono influenzare il suo processo decisionale

Di Guest

Pubblicato il 07 Giu. 2017

Al di là di quello che immaginiamo debba essere il giudice e come debba mettere in atto il suo processo decisionale in Tribunale, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Giada Fratantonio

 

Essere giudice: tra il ruolo e la persona

L’etimologia della parola “giudice” è da ricercarsi nella lingua latina: iudex, iudicis, orig. ‘colui che pronuncia (da dicere) la formula religiosa di giustizia (ius, iuris)’.

Partendo da qui e pensando a quello che a tanti evoca il termine stesso, non si sbaglia se si dice che il giudice, dall’alto del suo seggio, è sempre stato percepito come portatore sano di razionalità ed imparzialità, caratteristiche che istintivamente si possono attribuire a quella giustizia, che come una formula, il giudice dovrebbe possedere ed essere in grado di restituire.

Al di là di quello che sappiamo o che immaginiamo debba essere il giudice, riflettendo sulle sue caratteristiche, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, che fa il suo ingresso nelle aule del Tribunale con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Si tratta di fattori che solitamente non si palesano, ma guidano, stando un po’ in sordina, le trame del ragionamento che sfocerà nella decisione finale.

Quando la distanza tra la verità storica e la verità processuale diventa significativa, il giudice tenderà ad affidarsi, in maniera automatica, ai propri pregiudizi, alle proprie inclinazioni personali, al proprio sistema di credenze.

È nell’esperienza di tutti noi che il prendere decisioni non è cosa semplice, dalla banalità di scegliere un capo da indossare la mattina al decidere se sposare o meno una persona, etc etc, e ci viene incontro anche la scienza, dimostrando come molto spesso dietro giudizi apparentemente razionali e ponderati, si nascondano in realtà errori cognitivi e fallacie di non facile individuazione.

Alla difficoltà propria dell’essere umano, quale appunto è il giudice, si aggiunge, all’interno del contesto giudiziario, la difficoltà connessa alla variabilità dei dati e all’estrema eterogeneità dell’ambiente in cui le decisioni devono essere prese.

Come funziona il processo decisionale del giudice

Simon, economista, psicologo e informatico statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1978, disse che il processo decisionale è un’attività cognitiva in cui vengono attivati meccanismi volti alla selezione di un corso d’azione tra quelli possibili, che consenta di ottenere un risultato soddisfacente (Simon 1956). I meccanismi coinvolti nella presa di decisione sono del tutto analoghi a quelli implicati nella soluzione dei problemi, ma in quest’ultimo caso non viene selezionata un’alternativa bensì viene generata una strategia idonea al raggiungimento dello scopo indicato dal solutore.

Secondo Simon (1976) tale processo decisionale consta di tre fasi principali. La prima è quella in cui avviene la raccolta di informazioni sul contesto del problema; la seconda fase riguarda l’esplorazione e l’analisi delle formulazioni alternative del problema; la terza consiste nella selezione della situazione problematica che dovrà essere risolta.

Più recentemente (Bonini-Rumiati 1992) sono state meglio articolate le fasi del processo decisionale. La decisione prevede una fase di diagnosi, corrispondente ad una sorta di categorizzazione del problema, una fase di strutturazione o di editing del problema decisionale, in cui il decisore si fa un’idea più precisa riguardo alle possibili azioni da intraprendere, una fase di elaborazione in cui vengono messi in atto quei processi che permettono di adottare le modalità di soluzione del problema decisionale, infine, la scelta e il controllo delle conseguenze della scelta medesima. Analisi, quindi, che ben si adatta all’esame di una situazione cognitivamente complessa come il processo penale.

Le distorsioni nel processo decisionale in tribunale: il ruolo delle euristiche

Nel volume curato da Kahneman, Slovic e Tversky (1982) “Judgment under uncertainly. Heurustics and biases”, viene posto in rilievo il fatto che le prestazioni dei decisori, siano essi ingenui o esperti, non corrispondono alle procedure formali prescritte che dovrebbero garantire un giudizio o una scelta razionali. In termini molto generali, ciò si verifica proprio per il fatto che il sistema cognitivo non consente di trattare tutte le informazioni necessarie e di aggregarle in maniera corretta.

In tal modo si osservano degli errori sistematici (biases) o “illusioni cognitive”. Gli elementi di ogni illusione cognitiva sono:

  • Una regola formale che specifica come determinare una risposta corretta ad una domanda intellettiva;
  • Un giudizio, eseguito senza l’aiuto di strumenti fisici, che risponde all’interrogativo;
  • Uno scarto sistematico tra risposta corretta e giudizio espresso.

Un esempio di trappola cognitiva è dato dall’insensibilità alla “frequenza di base”, da cui discende l’euristica della rappresentatività.

Gli individui, quando devono fare delle previsioni, possono agire in due modi: o fondano i propri giudizi a partire dalla frequenza con la quale è stato osservato l’esito critico (analisi delle serie storiche), oppure facendo ricorso ad un qualche dato specifico relativo al caso in esame (Tversky-Kahneman 1982).

Ad un’attenta analisi si può vedere come gli individui tendano ad incappare nell’euristica della rappresentatività per cui le stime di un certo evento dipendono dal grado con cui esso è simile nelle sue caratteristiche essenziali alla categoria di appartenenza oppure riflette le caratteristiche salienti da catturare l’attenzione dei soggetti da indurre questi ultimi a pensare che la testimonianza nel processo venga resa in un modo simile a quello in cui i risultati della prova del testimone sono stati generati.

Negli anni settanta del secolo scorso gli studi degli psicologi cognitivi Amos Tversky e Daniel Kahneman dimostrarono che, nell’adozione di decisioni complesse, ogni individuo fa ricorso a precise strategie, definite “euristiche”.

Un esempio di euristica, applicabile al mondo della giustizia, è stato documentato da uno studio di ricercatori dell’Università di Trento che hanno dimostrato l’esistenza di una tendenza dei giudici donna a liquidare in favore delle mogli somme maggiori, a titolo di mantenimento, rispetto a quelle liquidate ai mariti (C. Bona, B. Bazzanella, 2008).

Si è parlato della cosiddetta euristica della disponibilità che condiziona le decisioni sulla base della salienza degli eventi cioè del loro grado di rilevanza nel ricordo del soggetto. Sarebbe dunque la disponibilità di esempi nella mente del decisore a condizionare le decisioni medesime; è quindi più facile per un giudice di sesso femminile crearsi o recuperare nella memoria l’immagine di una donna in difficoltà piuttosto che non quella di un uomo.

Sistemi e stereotipi nel processo decisionale in ambito giuridico

Due diversi sistemi presiederebbero il processo decisionale degli individui: un Sistema 1 o Sistema Euristico ed un Sistema 2 o Sistema Analitico (M. Mortellini, F. Guala, 2011).

Il primo dei due opererebbe con modalità rapide, intuitive, impulsive, associative ed automatiche, difficili da controllare o modificare, non particolarmente impegnative in termini di sforzo razionale. Il secondo implicherebbe processi consapevoli più ponderati, più lenti e quindi più faticosi. Si ricorre sempre a quest’ultimo quando si affronta un calcolo matematico, quando si deve risolvere un problema che implica una serie di passaggi procedurali. Si ricorre, invece, al primo di tutti gli altri casi e ciò è particolarmente evidente nel cosiddetto ragionamento esplorativo dove si salta velocemente alle conclusioni.

Nel processo decisionale, la tendenza in tutti noi, infatti, è quella di avvalerci del Sistema Euristico, come primo approccio e questo comporta inevitabilmente più errori ed imprecisioni. Tale modalità nel decidere è pervasa dall’enorme influenza delle impressioni di natura intuitiva, inconscia ed automatica. Se lo riteniamo necessario, in un secondo momento dello stesso processo decisionale, utilizziamo il Sistema Analitico, fondato sui criteri della logica formale e destinato ad introdurre elementi più affidabili di giudizio. La maggior parte dei nostri errori decisionali infatti il prodotto dei giudizi intuitivi del Sistema 1 che non sono passati al vaglio del Sistema 2.

Nonostante il Sistema 2 cerchi di giustificare ex post la “razionalità” dei nostri comportamenti, la maggior parte di questi è determinata dal Sistema 1.

E poi ci sono gli stereotipi. Questi possono entrare facilmente in campo anche quando, in sede giudiziaria, si devono prendere delle decisioni e diventano addirittura fattori condizionanti nella valutazione delle prove e nella ricostruzione del fatto oggetto del giudizio. In particolare è stato studiato il ricordo dei dati probatori a favore o a sfavore della colpevolezza di un imputato, a seconda della sua appartenenza etnica, e l’influenza che tale ultimo fattore può avere sul modo in cui i giurati emettono il verdetto finale. Ne è dunque emerso che tutti, in modo inconsapevole, ed a prescindere da fattori di carattere ideologico, venivano condizionati dallo stereotipo come modalità di semplificazione del giudizio. Usavano lo stereotipo come fattore aggregante attorno al quale venivano verificate le prove che fossero coerenti con esso ed erano trascurate sistematicamente le evidenze processuali che lo disconfermavano (G.V. Bodenhasen, M. Lichtesnstein, 1987). Insomma una sorta di “cecità attentiva” nei confronti dei riscontri probatori che potevano falsificare il fondamento del loro pregiudizio etnico che, nello specifico, era rivolto a soggetti di origine ispanico-americana.

Il processo decisionale nel giudice

Quanto precedentemente detto per far capire come anche nel mondo della giustizia come nella realtà quotidiana, scorciatoie di pensiero piuttosto che pregiudizi o background del giudice possono influenzare prepotentemente i suoi processi di ragionamento, ma questo avviene anche per sentimenti ed emozioni.

Troviamo il magistrato analitico, il quale, relatore di un processo, mette in evidenza particolari così minuti da stupire l’avvocato più attento, ma, quando va a formulare il suo giudizio, è deviato da queste dispersioni di attenzione sui punti fulcrali. In questo caso la capacità di comprendere non può confondersi con la capacità a giudicare, proprio perché alcuni soggetti, inclini all’indagine analitica, pur arrivando all’esatta individuazione degli elementi compositori di un avvenimento, non sanno poi graduare gli stessi nella loro importanza così da comporli in un quadro armonico. L’analisi, in questi soggetti, rappresenta un fattore meccanico e superficiale di selezione degli elementi, priva di una loro valorizzazione intelligente che consenta la ricomposizione in una sintesi comprensiva delle circostanze salienti.

Vi è poi il magistrato sintetico che ha la tendenza alla generalizzazione e che è spesso portato a confondere le analogie con le identità.

Giudicare significa pervenire al convincimento attraverso due processi principali: l’analisi, con la scomposizione di tutti gli elementi che vengono assunti, e la sintesi, con l’assimilazione di questi elementi. Dalle percezioni dei fatti, degli avvenimenti, da una loro analisi, da un loro coordinamento, il giudice, attraverso un lavoro di sintesi, perviene alla sentenza.

Nel nostro sistema giuridico (sistema accusatorio) la prova si forma durante il processo. Non si tiene però conto del fatto che il Giudice d’appello comincia molto prima, fuori addirittura dalle regole del gioco processuale, a formarsi una sorta di convincimento. Nel processo d’assise poi il Giudice togato è un giudice che ha una velocità di accesso ai documenti e una possibilità di ispezione dai documenti stessi che non è in concreto, né lo può essere, uguale a quella degli altri sei giudici popolari. Quindi, non solo vi è una pre-cognizione del processo, ma vi sono tra gli stessi giudici (popolari e laici) corsie differenziate di accesso all’informazione che diventano spazi di divaricazione a forbice nella conoscenza, anche in relazione alla dimensione del processo stesso e alla lontananza del Giudice popolare d’assise d’appello dalla sede di giudizio.

C’è poi un ulteriore punto da prendere in considerazione e cioè i rapporti tra opinione pubblica e sentenza: allorquando le sentenze sono in buona consonanza con le opinioni del pubblico, la reputazione dell’amministrazione della giustizia cresce e sulle persone giudicate pesa, oltre che la stigmatizzazione del sistema, la squalifica sociale (Lanza 1988).

Al contrario, però quando il giudice perde il contatto con il popolo e non c’è più questa armonizzazione tra cultura del buon senso e decisione giudiziaria, il sistema repressivo si svilisce e i perseguiti diventano perseguitati e vittime.

Gli individui, nessuno escluso, decidono prima maturando la decisione, poi argomentandola. E così farebbe anche il magistrato del Pubblico Ministero, il quale intuitivamente decide, e poi, a posteriori, cerca di validare la fondatezza del giudizio con argomenti che spesso forzano le evidenze processuali. Il meccanismo è quasi automatico e comunque involontario.

Il magistrato del Pubblico Ministero si fa quindi già un’idea, prende dentro di se, in maniera inconscia una decisione, sentendo le dichiarazioni rilasciate dai vari individui chiamati a testimoniare e poi, va alla ricerca di elementi che possano corroborare la sua ipotesi di partenza, in maniera da poter argomentare la sua decisione.

Arriviamo al cosiddetto “bias egocentrico”, che è  determinato dalla tendenza della gente a sovrastimare le proprie abilità e conoscenze durante un processo decisionale.

Così anche i giudici spesso pensano di essere in grado di prendere decisioni meglio di quanto siano veramente in grado di farlo.

Interessante è lo studio di Guthrie, Rachlinski, Wistrich (2001) che chiedevano a dei giudici quanto ritenevano probabile il rovesciamento in appello della sentenza dagli stessi emessa.

I partecipanti nel 56% dei casi fornivano una stima che si collocava nel quartile più basso e il 31% dei casi si collocava nel secondo quartile più basso. Appena il 7,7% dei partecipanti si collocava nel secondo quartile più alto e il 4,5% al quartile più alto. Quindi circa l’87% dei giudici partecipanti manifestava il bias egocentrico.

Si capisce quindi quanto possa essere difficile scardinare un’idea iniziale per il magistrato del Pubblico Ministero, una volta che questo si è creato tale idea, magari utilizzando delle euristiche e partendo dalle prime dichiarazioni rilasciate dai teste coinvolti in un processo. Dopotutto questo è perfettamente in linea con il concetto di “risparmio cognitivo”, quel risparmio che il nostro sistema cerca sempre di mettere in atto, per il quale è più semplice cedere alle lusinghe della certezza che non arrovellarsi alla ricerca di qualcosa che mini le nostre convinzioni di partenza.

Sutherland, studioso inglese, dice che la razionalità di una decisione dipende dalla completezza del quadro conoscitivo di chi la prende (Sutherland S., 2010).

Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti durante un processo decisionale, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni.

Si apprezza, allora ed ancor di più, il valore fondamentale dell’obbligo di motivazione della decisione giudiziaria (Sutherland S., 2010).

E’ in forza della motivazione che la decisione del magistrato del Pubblico Ministero risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. E’ sempre in forza della motivazione che il giudice dà conto del suo sapere, anche solo opinabile e probabile, ma proprio per questo confutabile e controllabile non solo dall’imputato, ma anche dalla società (Forza A., 2011).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bodenhausen, G.V., & Lichtesnstein, M. (1987). Social stereotypes and information processing strategies. The impact of task complexity. Journal of Personality and Social Psycology, 52, pp. 871-880.
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  • Lanza, L. (2011). Emozioni e libero convincimento nella decisione del Giudice penale. Criminalia, Annuario di Scienze Penalistiche, Edizioni ETS.
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  • Simon, H.A. (1967). Il comportamento amministrativo, Il Mulino.
  • Simon, H.H. (1956). Rational choice and the structure of the environment. Psychological Review.
  • Simon, H.H. (1976). Administrative behaviour: a study of decision-making processes in administrative organization.
  • Sutherland, S. (2010). Irrazionalità, Lindau, Torino, 16.
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