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La sintonizzazione affettiva in psicoterapia come strumento di cambiamento

La sintonizzazione affettiva indica un processo di condivisione di stati affettivi e caratterizza sia la relazione madre-bambino che paziente-terapeuta.

Di Guest

Pubblicato il 12 Mag. 2017

Obiettivo dell’articolo è quello di analizzare uno specifico aspetto della relazione, ossia il processo di sintonizzazione affettiva e riflettere sul potere che essa può assumere, sia in quanto strumento di conoscenza, che di cambiamento.

Lorenza Gabrielli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle (Stern, 2005, p.64)”.

È opinione diffusa che la psicoterapia non sia solo la “terapia della parola”, ma come, in quanto relazione profonda e significativa, possa esplicarsi a livello implicito, poggiando su aspetti che vanno al di là delle verbalizzazioni e che richiedono al terapeuta la capacità di utilizzare la relazione stessa come strumento di lavoro. Nuove prospettive terapeutiche mettono in evidenza come non siano solo le parole la chiave per la modifica dei contenuti mentali disfunzionali alla base della sofferenza psichica (Tarantino & La Mela, 20013), ma che la relazione stessa offra le possibilità di vivere esperienze correttive, fondamentali sia per il cambiamento che, per costruire quelle condizioni di base che possono rendere più efficaci i vari interventi psicoterapeutici.
Obiettivo dell’articolo è quello di analizzare uno specifico aspetto della relazione, ossia il processo di sintonizzazione affettiva e riflettere sul potere che essa può assumere, sia in quanto strumento di conoscenza, che di cambiamento.

La sintonizzazione affettiva nella relazione madre-bambino

Il concetto di sintonizzazione affettiva è stato sviluppato principalmente all’interno della precoce relazione madre-bambino (Stern, 1985; Tronick, Bruschweiler-Stern, Harrison, Lyons-Ruth, Morgan, Nahum, et al., 1998; Jonsson, Clinton, Mazzaglia, Novak, & Sörhus, 2001). Osservando una madre ed un neonato che interagiscono, si rimane immediatamente meravigliati, da come lo scambio non riguardi parole o pensieri, ma stati affettivi che vengono mutualmente condivisi e regolati, quasi come una danza armoniosa, che porta il neonato ad integrare e regolare i propri stati e le proprie sensazioni verso livelli di maggiore complessità, alla conquista della propria identità ed integrità.

Nello specifico, l’osservazione precoce dello scambio interattivo di questa diade ha portato a chiedersi in che modo la madre riesca a comunicare al proprio figlio non solo che ha capito i suoi segnali, ma che ha colto il vissuto emotivo sottostante a quel comportamento e lo utilizza per regolare lo stato affettivo dell’altro. Secondo Stern (2005) il processo chiave che permette questo tipo di comunicazione è proprio la sintonizzazione affettiva, un processo trasmodale, continuo e, in parte, inconsapevole che permette di condividere gli stati affettivi. Pur prendendo le mosse dal processo di imitazione, che caratterizza i bambini fin dalle primissime settimane di vita (Melzoff & Moore, 1977) e che permette loro di coordinare il proprio comportamento a quello del caregiver sulla base dell’interpretazione dei comportamenti visibili, la sintonizzazione appare un processo qualitativamente diverso che, a partire dagli 8 mesi, permette una connessione profonda degli stati affettivi. Studi successivi (Jonsson et al., 2001) hanno dimostrato come il passaggio dal processo imitativo a quello di sintonizzazione affettiva avvenga già a partire dal sesto mese di vita e che si tratti di un processo transculturale ed innato.

Gli studi di Tronick et al. (1998), rendono evidenti gli effetti negativi che la mancata sintonizzazione affettiva può determinare. Se viene chiesto ad una madre di mantenere un’espressione del volto neutra e cercare di non rispondere alle sollecitazioni del bambino, quest’ultimo ne appare subito turbato: cercherà inizialmente di attirare l’attenzione della madre, di sollecitare in lei una risposta, ma se anche questi tentativi falliranno, distoglierà l’attenzione e mostrerà uno stato di forte disagio. Il processo è chiaramente esplicato nel classico esperimento eseguito con il paradigma dello Still Face.

https://www.youtube.com/watch?v=apzXGEbZht0

Come sottolinea Tronick et al. (1998), singoli momenti di mancata sintonizzazione nella relazione diadica sono normali e non determinano di per sé effetti negativi sullo sviluppo, purché l’individuo possa comunque vivere esperienze di riparazione e sintonizzazione. Tali esperienze sembrano rappresentare la base per lo sviluppo di un attaccamento sicuro tra madre e bambino, oltre a favorire un senso di benessere e di crescita verso la resilienza (Siegel, 2013). Nel momento in cui un neonato vive l’esperienza di una sintonizzazione all’interno di un sistema diadico, la sua mente raggiunge stati di maggiore coerenza e arricchimento e quest’esperienza di connessione fornisce la sensazione di “essere visti” e di sentirsi al sicuro.
Se questo avviene nella precoce relazione diadica madre-bambino e offre la possibilità di sviluppare stati mentali di maggior integrazione, una maggior regolazione e sicurezza emotiva, in che modo può essere utile all’interno del processo psicoterapico?

La sintonizzazione affettiva nella relazione terapeutica: uno strumento di conoscenza

La possibilità di sintonizzarci sugli stati affettivi dell’altro, ci offre uno strumento di conoscenza molto potente, che va al di là delle parole e che ci permette di entrare in contatto profondo con gli stati affettivi dell’altro.

Secondo Siegel (2013) il modo in cui un terapeuta porta se stesso in connessione con il proprio paziente rappresenta uno dei fattori cruciali che può spiegare il motivo per cui le persone rispondono positivamente agli sforzi terapeutici; il terapeuta stesso con la sua presenza, e con la sua capacità di mantenere la mente aperta a flussi di informazione che vanno al di là delle parole e con un continuo monitoraggio dei propri stati interiori, diventa esso stesso strumento di cambiamento. Secondo l’autore la sintonizzazione affettiva presenta due principali dimensioni: il lato fisico, che implica la capacità di prestare attenzione non solo alla dimensione verbale, ma a tutti quei segnali non verbali, come il contatto visivo, l’espressione del volto, il tono della voce, la postura, i movimenti del corpo, i tempi e l’intensità delle risposte, e il lato soggettivo, ossia la risonanza che questi segnali hanno in noi e che permettono di vedere profondamente il nostro interlocutore e di offrire a lui l’esperienza di “sentirsi sentito” (Siegel, 2013 p.29). Ciò richiede una sorta di elaborazione implicita, che va al di là delle parole e del ragionamento verbale e che per tal motivo richiede al terapeuta la capacità di rimanere “aperto” all’altro e a se stesso, attento al momento presente e a tutto quel flusso continuo di informazioni in entrata, che avvengono nel qui ed ora senza lasciare che idee preconcette distolgano l’attenzione.
Ma come avviene questo? In che modo il terapeuta può, con la sua presenza, offrire al paziente l’esperienza di “sentirsi sentito”?

Le basi neurobiologiche della sintonizzazione affettiva

Le neuroscienze possono offrirci una spiegazione di questo processo: seppur la ricerca sia ancora solo all’inizio, la scoperta dei neuroni specchio ha offerto le basi fisiologiche per la comprensione del processo di sintonizzazione. Il nostro sistema nervoso sembra aver plasmato un canale affettivo diretto, che ci permette di entrare in risonanza con l’altro; come sottolinea Stern: “Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle (Stern, 2005, p.64)”.

I neuroni specchio rappresentano un particolare tipo di cellule della nostra corteccia cerebrale che si attivano non solo quando eseguiamo un certo atto motorio finalizzato ed intenzionale (ad esempio afferrare), ma anche quando osserviamo un’altra persona compiere quelle stesse azioni. Ciò significa che, nel momento in cui osserviamo un’altra persona compiere un atto motorio finalizzato ed intenzionale, si attiva in modo automatico la stessa rete neurale che si attiverebbe se fossimo noi a compiere effettivamente quell’azione (Gallese, 2001); tale meccanismo ci permette quindi di comprendere l’intenzionalità di un atto motorio altrui (Tarantino & La Mela, 2013).

Alcuni studiosi (Gallese, 2001; Carr, Iacoboni, Debeau, Mazziotta & Lenzi, 2003; Iacoboni, 2008) sostengono che i neuroni specchio sono essenziali anche per spiegare il modo in cui ci sintonizziamo con gli stati interni degli altri. Nello specifico Gallese (2001) parla di “simulazione incarnata” (embodied cognition) per definire quel processo di riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, degli stati mentali dell’altro, che vengono compresi perché sono condivisi a livello neurale.

Iacoboni (2008) sostiene che le aree dei neuroni specchio ci aiutano a comprendere le emozioni dell’altro attraverso una sorta di imitazione o simulazione interna dell’espressione facciale osservata. Quando osserviamo l’espressione emotiva facciale del nostro interlocutore, i neuroni specchio, attraverso l’insula, inviano dei segnali al sistema limbico, che a sua volta produce in noi la sensazione dell’emozione osservata (simulazione). L’insula nuovamente raccoglierebbe le informazioni corporee e le porterebbe all’insula posteriore che registra gli stati corporei nella corteccia, ma non nelle aree prefrontali. Tale processo ci permetterebbe di avere una percezione corticale dello stato del corpo, pur senza consapevolezza (Siegel, 2013).

Ma se la sintonizzazione affettiva passa attraverso una sorta di imitazione interna dell’espressione facciale, come facciamo a non confondere le nostre reali sensazioni da quelle che osserviamo negli altri? Come facciamo a non rimanere coinvolti in uno stato di confusione emotiva senza confini io-tu?

Solamente nell’uomo sembra che l’attivazione dall’insula posteriore venga trasmessa a quella anteriore la quale, connessa con le regioni prefrontali mediali e del cingolato anteriore, ci porta ad avere una rappresentazione secondaria (ossia una rappresentazione della rappresentazione posteriore), che ci permette di mantenere un certo distacco dal senso diretto del corpo e di averne consapevolezza (enterocezione) (Siegel, 2013); tale processo offrirebbe quindi la possibilità di conoscere in profondità lo stato emotivo dell’altro, pur non confondendoci con esso. Ecco come “un atteggiamento del terapeuta mirato al costante sintonizzarsi sulle espressioni corporee e in particolare facciali del paziente” (Tarantino & La Mela, 2013 p. 257) ci permetterebbe di conoscere lo stato affettivo dell’altro.

La sintonizzazione affettiva nella relazione terapeutica: uno strumento di cambiamento

Abbiamo fin qui visto come la sintonizzazione affettiva possa rappresentare un potente strumento che, poggiando su meccanismi neurali, ci permette di conoscere ed entrare in profondo contatto con i vissuti dell’altro. Si tratta di uno strumento potente e come tale va utilizzato con consapevolezza. Cosa succederebbe infatti se la madre nel video di Tronick, dopo essersi sintonizzata con il figlio scoppiasse anche lei in lacrime in seguito all’attivazione dei suoi neuroni specchio? Che utilità potrebbe avere un terapeuta che si dispera con il proprio paziente, o che si arrabbia con esso in risposta ad eventuali attacchi di quest’ultimo?

Per rispondere a questa domanda è bene considerare come il processo simulazione incarnata (Gallese, 2001) faccia parte dell’essere umano e pertanto è sempre bidirezionale: terapeuta e paziente si influenzano costantemente in modo reciproco.

Nuovamente l’esempio della relazione madre- bambino ci può essere utile: nel momento in cui un neonato esprime un determinato stato mentale, la madre, sintonizzandosi con esso, reagisce nei suoi confronti; quando le madri si sintonizzano con il loro bambino, si attiva anche un’altra area corticale denominata pre-SMA che permetterebbe loro non solo di rispecchiare le emozioni, ma di attivare anche una serie di progetti motori allo scopo di interagire con il figlio nel modo più efficace (Iacoboni, 2008). L’osservazione da parte del bambino della reazione della madre attiva a sua volta in lui una simulazione automatica del comportamento della stessa. Se la relazione della madre è sintonica con lo stato del bambino, quest’ultimo avrà la possibilità di dare continuità e coerenza ai propri stati mentali, e ciò avrà influenze positive sul suo sviluppo.

Allo stesso modo il terapeuta non rispecchia letteralmente gli stati mentali del paziente ma dà risposte empatiche congruenti che offrono al paziente la possibilità di vedere ed internalizzare la risposta modulata, aiutandolo a regolare, comprendere e trasformare l’esperienza emotiva; in poche parole il paziente esperisce se stesso rappresentato con sicurezza nella mente del terapeuta (Gallese, 2001). Come sottolineano Tarantino e La Mela (2013) ciò potrebbe fornire una prima base neurobiologica di come le emozioni, anche in psicoterapia, siano segnali comunicativi capaci di attivare in sè e nell’altro piani comportamentali impliciti e scopi evoluzionisticamente significativi, e ciò potrebbe essere in sintonia con altre teorizzazioni relative allo scambio relazionale, quali ad esempio la teoria dei sistemi motivazionali (Liotti, 2014).

Conclusioni

In questo breve articolo si è cercato di analizzare una piccola, ma potente componente della relazione terapeutica, ossia la sintonizzazione affettiva, osservandone le basi neurobiologiche e il significato evolutivo che essa assume nella relazione madre- bambino. Come abbiamo visto la sintonizzazione affettiva avviene all’interno di scambi comunicativi ricchi, in larga misura al di fuori della consapevolezza e quasi in modo automatico e, in questo, si distingue dall’empatia, che richiede invece la mediazione di processi cognitivi (Inzani, Cazzaniga, Martelli, & Salina, 2004)

Poggiando su aspetti così fondanti dell’esperienza umana e meccanismi non verbali è bene sottolineare come si tratti di un processo che richiede al terapeuta una profonda capacità di ascolto, di focalizzazione sul momento presente e di conoscenza di se stesso, per utilizzarla come strumento terapeutico e per evitare di rispondere in modo automatico e inconsapevole al paziente, con il rischio di perpetuare le sue esperienze problematiche.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Carr, L, Iacoboni, M. Debeau, M.C., Mazziotta, J.C. & Lenzi, G.L. (2003). Neural mechanisms of empathy in humans: A relay from neural systems for imitation to limic areas. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 100, 5497-5502.
  • Gallese, V. (2001). The “Shared Manifold”: Hypothesis from mirror neurons to empathy. Journal of Consciousness Studies, 8, 33–50.
  • Iacoboni, M. (2008). I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
  • Inzani, L., Cazzaniga, I., Martelli, P. & Salina, P.R. (2004). Il contagio emotivo: quando le emozioni “passano” tra le persone. Rivista di Studi Rogersiani. Ricavato il 29 maggio 2016, da http://www.acp-italia.it/rivista/2004/
  • Jonsson, C.O., Clinton, D.N., Mazzaglia, G., Novak, S. & Sörhus, K. (2001). How do mothers signal shared feeling-states to their infants? An investigation of affect attunement and imitation during the first year of life. Scandinavian Journal of Psychology,42, 377-381.
  • Liotti, G. (2014). I sistemi motivazionali nella prospettiva evoluzionista. In G. Liotti & F. Monticelli (eds.). Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista (19-39).
  • Meltzoff, A.N. & Moore, M.K. (1977). Imitation of facial and manual gesture by human neonates. Science, 198, 74-78.
  • Siegel, D. (2013). Il Terapeuta consapevole. Guida per il terapeuta al Mindsight e all’Integrazione neurale. Sassari: Istituto di Scienze Cognitive Editore.
  • Stern D.N. (1985). Il mondo interpersonale del bambino. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
  • Stern D.N. (2005). Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Tarantino, L. & La Mela, C. (2013). La relazione come strumento nella prospettiva cognitivo-evoluzionista. In G.M. Ruggiero & S. Sassaroli (Eds.). Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Tecnica e pratica clinica (pp.253-272).
  • Tronick E.Z., Bruschweiler-Stern, N., Harrison, A.M., Lyons-Ruth, K., Morgan A.C., Nahum, J.P. et al. (1998). Dyadically expanded states of consciousness and the process of therapeutic change. Infant Mental Health Journal, 19(3), 290–299.
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