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Freud (forse) è morto, ma la psicoanalisi è viva e vegeta

Freud e Jung per la psicoanalisi sono come Giotto e Raffaello per l’arte, o Galileo e Newton per la fisica: un inizio che apre a molteplici possibilità..

Di Alessandro Raggi

Pubblicato il 01 Feb. 2016

Aggiornato il 06 Lug. 2016 12:34

Freud e Jung per psicoanalisi e terapie psicodinamiche sono come Giotto e Raffaello per l’arte, o Galileo e Newton per la fisica: un punto d’inizio che apre a molteplici possibilità. Da allora però la psicoanalisi è molto cambiata pur riconoscendo il suo debito verso i “padri fondatori”.

A chi fa ancora paura la psicoanalisi? Questa è la domanda che mi sono posto dopo aver letto gli interventi di Giovanni Maria Ruggiero pubblicati su State of Mind (Goodbye Freud, 29.01.2016 e Non è più il tempo dell’inconscio e dell’underground nella psicoterapia moderna, 30.10.2015). Ruggiero è uno studioso a cui non può mancare la conoscenza circa le rielaborazioni della psicoanalisi, già presenti nei numerosi rimaneggiamenti nel pensiero e nell’Opera di Freud che coprono un lasso temporale di circa mezzo secolo. La psicoanalisi ha poi continuato a ridefinirsi e svilupparsi sino ai nostri giorni in maniera pressoché incessante.

Immaginare la psicoanalisi attuale come una sorta di contenitore in cui un impassibile analista scavi nel passato con la speranza che il solo ricordare consenta il cambiamento, è proporre un’idea macchiettistica della psicoanalisi. Con questo non voglio negare che possano essere sopravvissuti alcuni psicoanalisti “dinosauri”, del tutto avulsi dalle evoluzioni che la psicoanalisi ha compiuto a livello teorico e clinico negli ultimi 100 anni, ma pensare che questi rappresentino “la psicoanalisi” è un po’ come credere che i terapeuti cognitivo-comportamentali che, ad esempio puniscono e premiano i pazienti con disturbi del comportamento alimentare impedendo loro di telefonare ai genitori durante il trattamento con rigide regole skinneriane, a tutt’oggi non annegati nella “terza onda”, siano paradigmatici della TCC attuale.

Già nel primissimo Freud, invero, vi è il superamento della prospettiva catartica ideata e messa a punto con Breuer, ossia il tramonto dell’idea che per cambiare possa essere sufficiente ricordare gli eventi traumatici del passato magari obliati nell’inconscio. In realtà già Freud comprese e mostrò che “conoscere ed essere coscienti di ciò che prima era inconscio non è sufficiente per cambiare”. Che la catarsi fosse insufficiente, non è certo una scoperta della “psicologia di oggi” come sostiene Ruggiero, ma un’evidenza che la psicoanalisi degli esordi aveva ben presto reso nota. L’idea che il passato fosse la causa delle nevrosi del paziente è stata già superata in Freud nel 1917 con il suo “Introduzione alla psicoanalisi”, dove veniva riportato il concetto di “nevrosi attuale”, per il quale il disagio psicologico poteva ben lungi dall’essere una cieca ripetizione di un passato relegato nell’inconscio: per questi motivi il presente nel rapporto terapeutico con l’analista divenne ben presto per Freud la vera relazione ristrutturante.

La rievocazione dei traumi del passato è peraltro, oggi, alla base di alcune metodiche terapeutiche contemplate in tecniche più vicine al mondo cognitivo-comportamentale che alla psicoanalisi, come ad esempio nel caso dell’EMDR per il trattamento dei disturbi post-traumatici da stress. Stupisce pertanto, in qualunque caso, un rifiuto che se non adeguatamente argomentato rischia di apparire aprioristico, circa l’esplorazione del passato, che in alcuni casi può essere utile e terapeutica.

Nella pratica psicoanalitica di oggi, ricordare ciò che era sepolto nell’inconscio, il far riemergere il passato, non è più considerato necessario, al contrario può risultare in alcuni casi persino fuorviante, se finalizzato all’evitamento da parte del paziente (o dell’analista) delle situazioni difficili attuali.

I lavori di Freud e Jung sulla traslazione e la contro-traslazione, la funzione metaforica dell’Edipo come elemento archetipico e non necessariamente come fatto concreto, la consapevolezza che molti dei racconti dei pazienti emersi durante l’analisi non erano ricordi di fatti realmente avvenuti ma elaborazioni della loro fantasia, erano già tutte riflessioni della prima psicoanalisi, ossia quella di Freud e Jung. Persino il re-orientamento in chiave relazionale era già “in nuce” nei lavori di Freud (Lutto e melanconia ad esempio) e certamente esso permea tutta l’opera di Jung, che con il suo concetto di “proiezione attiva” anticipò di molti anni alcune teorizzazioni della Klein come l’”identificazione proiettiva”. Le varianti delle teorie psicoanalitiche basate sulle relazioni oggettuali (Klein, Fairbairn, Winnicott, Bowlby), che hanno dato l’abbrivio alle prospettive relazionali (Mitchell, Greenberg), i tentativi di ricomposizione delle varie differenze teoriche operate da Bion e dai suoi allievi, sino alle più attuali concettualizzazioni della psicoanalisi del campo (Baranger, Ogden, etc.), sono solo alcuni dei filoni di dibattito teorico in ambito psicoanalitico.

Il pensiero psicoanalitico è particolarmente vivo e fecondo, al limite del conflitto tra orientamenti nella stessa psicoanalisi.

Altra cosa però, rispetto alla psicoanalisi, sono le terapie psicodinamiche che, pur provenendo dalla psicoanalisi, al di là dei vari orientamenti teorici, hanno in comune una più marcata propensione alla ricerca clinica, alla sperimentazione empirica. Ricerca scientifica e sperimentazione appaiono – su questo ha pienamente ragione Ruggiero – il vero anello debole della clinica terapeutica basata sulle teorie psicoanalitiche. Per troppo tempo, infatti, gli psicoanalisti hanno snobbato la ricerca scientifica svolta secondo i rituali standard della pratica Evidence Based e pagano oggi lo scotto di una lunga strada ancora tutta da recuperare. I risultati degli ultimi 15 anni, come ben saprà Ruggiero, sono però soddisfacenti e su questa strada occorre proseguire senza incertezze.

Le differenze con le terapie cognitivo-comportamentali, ad oggi, sono a mio avviso molto più teoriche ed epistemologiche che puramente cliniche, specialmente se si verifica l’operato quotidiano di terapeuti esperti con il disturbo psichico, indipendentemente dal modello di riferimento dei terapeuti. Resta ad ogni modo una profonda differenza circa il modo in cui la psicoanalisi e gli orientamenti cognitivo-comportamentali guardano all’uomo, alla psicopatologia, ai concetti di salute, malattia e guarigione e da ciò probabilmente anche la differente propensione a basarsi su agglomerati statistici (più tipica dei modelli cognitivo-comportamentali), oppure delle ricerche single case (più tipica dei modelli psicodinamici). Gli stessi concetti di efficacia ed efficienza vanno in tal senso contestualizzati. Una terapia è efficace (o meno efficace) rispetto a cosa? Per definire il nostro parametro di efficacia ci atteniamo alle statistiche dei vari DSM, che cambiano drasticamente di anno in anno, o abbiamo un’idea più complessa della psicopatologia e del vissuto soggettivo di chi soffre psicologicamente? Queste sono domande su cui vale la pena confrontarsi, avendo tuttavia cura, a volte, di distinguere il piano clinico da quello più teorico e speculativo.

Di fronte al paziente, al soggetto, in ogni caso, il più delle volte si azzerano gran parte delle differenze teoriche e restano i terapeuti nella loro esperienza e competenza, oltre che nella loro umanità. Anche per questo, nella pluralità dei modelli e dei possibili interventi proponibili, occorre sempre saperci porre con l’umiltà di chi sa di non sapere tutto sulla psiche e sulla complessità della mente umana.

 

Alessandro Raggi
Psicoterapeuta, psicoanalista,
Didatta Scuola di psicoterapia analitica AION
Responsabile nazionale Centri ABA
www.psicheanima.it

 

LEGGI LA RISPOSTA DI GIOVANNI M. RUGGIERO:
Freud è morto, la psicoanalisi vive

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