expand_lessAPRI WIDGET

Autocriticismo: da usare a piccole dosi!

Bisognerebbe considerare l’autocriticismo come una sostanza che va usata nelle dosi appropriate e sempre mescolata a una certa quantità di rassicurazione.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 27 Set. 2013

 

Perché siamo eccessivamente autocritici?. -Immagine: © olly - Fotolia.com

Bisognerebbe considerare l’autocriticismo come una sostanza che va usata nelle dosi appropriate e sempre mescolata a una certa quantità di rassicurazione o sdrammatizzazione o compassione nei propri confronti. Altrimenti intossica, non viene smaltito dalla mente e la riempie di una nebbia tendenzialmente depressiva.

L’autocriticismo è un interessante processo mentale. Da un lato è considerato una dote propria dei saggi e degli umili, necessaria per non peccare di superbia o ingenuità e per migliorare sé stessi. Dall’altro molte ricerche hanno suggerito che un uso eccessivo può nuocere gravemente alla salute (Zuroff et al., 1999). Se dovessimo prestar orecchio a entrambi i moniti verrebbe da dire che nella vita o si migliora e si soffre o si sta fermi nella ‘beata ignoranza’.

La soluzione al dilemma sta forse nel considerare l’autocriticismo come una sostanza che va usata nelle dosi appropriate e sempre mescolata a una certa quantità di rassicurazione o sdrammatizzazione o compassione nei propri confronti. Altrimenti intossica, non viene smaltito dalla mente e la riempie di una nebbia tendenzialmente depressiva.

In anni recenti questo legame tra depressione e autocriticismo è stato posto sotto la lente degli ricercatori che hanno scoperto l’esistenza di alcune varianti di questo processo.

La versione più comune e diffusa è l’autocriticismo correttivo (non sono bravo, non combino nulla, ho fallito perché sono un incapace), sostenuto dall’idea, altrettanto malsana, che massacrarsi l’anima possa aiutare a raggiungere obiettivi più alti e a correggere il proprio comportamento. Nei fatti, ciò non aiuta a capire cosa si può fare di meglio ma amplifica la sensazione di inadeguatezza e incapacità.

C’è poi un secondo tipo di autocriticismo, ancor più deleterio: l’autopersecuzione. Si tratta di un vero e proprio attacco violento, simile alle sferzate verbali cariche di disprezzo che scagliamo quando siamo in preda all’ira (mi faccio schifo, sono un essere disgustoso, non merito ciò che ho). Lo scopo di questo attacco spietato è quello di punirsi, purificare qualcosa di profondamente ‘cattivo’ o ‘contaminato’ prendendo le distanze, disprezzandolo o distruggendolo fino a spingersi verso gesti autolesivi (Gilbert et al, 2004).

Infine esiste un’autocritica più timida ma non meno pericolosa. Questa variante prevede l’uso della critica come strategia per evitare di correre dei rischi, giustificando a priori la propria scelta evitante (tanto non sarò mai in grado di farlo, è oltre le mie capacità). In questa forma di autocritica l’individuo preferisce implicitamente l’autosvalutazione all’ansia che comporterebbe affrontare compiti nuovi e forse, potenzialmente, fallimentari con il risultati di restare bloccato e sentirsi costante insoddisfatto.

Insomma è noto che l’autocriticismo, se non mescolato a una forma di autosupporto, può alimentare e sostenere sintomi depressivi. Sappiamo anche che esistono diverse forme e funzioni dell’autocriticismo. Il prossimo passo della ricerca e della psicoterapia è comprendere in modo più raffinato quali sono i diversi impatti e quali specifiche strategie di intervento.

LEGGI:

DEPRESSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Gilbert et al. (2004).British Journal of Clinical Psychology, 43, 31-50.
  • Zuroff et al. (1999). British Journal of Clinical Psychology, 38, 231-250
Si parla di:
Categorie
SCRITTO DA
Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

Tutti gli articoli
ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel