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Più tristi ma più realisti?

Uno studio del 1979 ha indagato il realismo depressivo (l’associazione tra stati depressivi e maggior realismo) ma uno studio più recente è giunto a risultati differenti

Di Alessio Mantovani

Pubblicato il 08 Nov. 2023

Sadder=wiser? Il realismo depressivo

Un ampio dibattito è avvenuto all’interno del mondo accademico a partire dall’interrogativo “più tristi = più realisti?” (ndr: nell’articolo originale “sadder = wiser”?). Una discussione a suon di articoli scientifici i quali hanno riportato risultati contrastanti. Ma quindi è possibile che le persone che provano una tristezza maggiore possano, in un certo qual modo, essere più “realiste”? 

Per capire il quadro generale occorre fare un passo indietro lungo 44 anni.

La visione realistica della depressione

È il 1979, quando i ricercatori Alloy e Abramson pubblicarono l’articolo che avrebbe creato una netta spaccatura all’interno del mondo psicologico. Un articolo che ha riscosso una discreta fama, annoverando più di duemila citazioni (Dev et al., 2022).

L’obiettivo dei due giovani psicologi fu quello di porre sotto la lente di ingrandimento l’ipotesi del realismo depressivo, ovvero l’idea per cui gli stati depressivi potessero esser associati ad un maggior realismo, nel senso della percezione della propria influenza sugli eventi. Ipotesi molto contro corrente rispetto alla letteratura scientifica dell’epoca e anche a quella odierna, nella quale viene riportato come i soggetti che soffrono di depressione sottostimino le loro reali capacità (Fu et al., 2005, 2012; Stone et al., 2001). 

Difatti originariamente i ricercatori (Alloy & Abramson, 1979) ipotizzarono che gli individui che soffrono di depressione sottostimassero la propria influenza rispetto all’ambiente, e che le persone non depresse d’altro canto sovrastimassero la propria influenza. Il campione era composto da studenti depressi e da studenti non depressi (valutati attraverso un questionario autosomministrato). Per valutare la percezione soggettiva del proprio controllo sull’ambiente, entrambi i gruppi erano stati randomizzati e sottoposti al medesimo problema: ciascun individuo doveva affrontare una serie di prove nelle quali aveva la possibilità di scegliere tra due condizioni (premere o non premere un pulsante) e la possibilità di ricevere uno dei due possibili risultati (luce verde o nessuna luce verde).

Al termine, il soggetto doveva valutare il grado di contingenza tra la pressione del pulsante e l’accensione della luce verde. I problemi si differenziavano tra di loro per il grado di controllo che l’individuo poteva esercitare sulla luce tramite la pressione o la non pressione del bottone.

Gli studenti depressi hanno riportato dei giudizi di contingenza più accurati in tutte le condizioni sperimentali. A partire da questo risultato nasce il concetto di realismo depressivo, l’ipotesi per cui la depressione sia correlata a una visione più realistica del mondo, oppure che le persone più realistiche sarebbero maggiormente vulnerabili alla sintomatologia depressiva. Gli stessi ricercatori hanno riportato la necessità di ulteriori studi e la possibile influenza di bias cognitivi

Realismo depressivo: la controprova

Ad esattamente 43 anni di distanza, Dev e collaboratori (2022) mettono in discussione le conclusioni di Alloy e Abramson (1979). Partendo dal concetto del realismo depressivo, pongono particolare enfasi sulla ricerca che mostrava come gli individui depressi fossero predisposti a bias cognitivi, a sottostimare le proprie capacità e fare esperienza di pensieri eccessivamente negativi verso sé stessi (Dev et al., 2022). L’obiettivo dei ricercatori è stato quello di andare a valutare se le persone più tristi sono davvero più realiste replicando la ricerca originale di Alloy & Abramson (1979), ma aggiungendo delle misurazioni per rendere la ricerca maggiormente accurata ed estendendo notevolmente il bacino campionario. La ricerca ha preso in considerazione due campioni differenti così distribuiti:

  • Il primo era costituito da 246 partecipanti che secondo la somministrazione della scala IDD – C (Rogers et al., 2005) (Inventory to Diagnose Depression – Current) riportavano sintomi depressivi di diversa gravità (lieve, media, grave).
  • Il secondo era costituito da 136 laureandi che secondo l’utilizzo della medesima scala di valutazione (IDD – C) riportavano sintomi depressivi di diversa gravità (lieve, media, grave).

Tutti i partecipanti hanno completato rispettivamente il compito della contingenza, il compito dell’eccesso di fiducia e hanno completato diversi questionari.

Il compito della contingenza consisteva in una versione rivisitata dell’originale compito della ricerca di Alloy e Abramson (1979). A differenza dell’originale il campione veniva sottoposto a due prove in cui non vi era alcuna relazione tra l’azione (bottone) ed il risultato (luce), e ad una situazione in cui la luce aveva la possibilità del 75% di apparire dopo la pressione del bottone. Inoltre, ogni 10 tentativi, il soggetto doveva stimare la probabilità dell’accensione della lampadina alla pressione del bottone, o alla non pressione, nel turno successivo (secondo una scala che andava da 0% a 100%). Alla fine di tutto il pacchetto di prove al soggetto veniva chiesto di indicare quale fosse il suo controllo percepito (percezione di controllo) sulla luce da 0 (nessuno) a 100 (controllo completo).

Il compito dell’eccesso di fiducia consisteva nel rispondere a 10 Item della scala Raven’s Progressive Matrices (RPM; Raven, 1963) seguito dalla valutazione della propria e altrui performance sulla stessa: tramite un punteggio da 0 a 10 dovevano valutare il grado di risposte corrette fornite e stimare quante risposte corrette aveva fornito un altro soggetto selezionato casualmente.

In questa occasione le variabili misurate erano:

  • La sovrastima dei punteggi corretti, andando a confrontare il numero di risposte corrette stimate con l’effettivo risultato ottenuto dall’individuo;
  • Secondariamente è stata presa in considerazione la stima di quanto il soggetto ipotizzava di aver risposto in maniera più corretta rispetto all’altro individuo confrontandola con l’effettiva performance rispetto all’altrui valutazione;
  • Il livello di certezza con il quale l’individuo valutava il punteggio dell’altro soggetto.

Infine, nella sezione dei questionari, i partecipanti erano tenuti a valutare il proprio umore su una scala da 0 (per niente negativo) a 100 (veramente negativo), completando inoltre alcuni questionari auto somministrati.

Dopo aver eseguito tutte le misurazioni, aver sottoposto il campione ai compiti sperimentali, implementando delle condizioni in modo da ottenere una maggior validità, i risultati parlarono chiaro: i ricercatori non trovarono nessun supporto per l’ipotesi del realismo depressivo.

In conclusione, lo studio più recente, (Dev et al. 2022) risulta nettamente più accurato dal punto di vista metodologico, implementando delle misurazioni che permettono di avere una misurazione più ampia relativa al costrutto del realismo depressivo. Nell’articolo di Alloy era ipotizzato perciò che i soggetti con diagnosi di depressione fossero più realisti (“Sadder but wiser”, Alloy & Abramson, 1979), ma quello che emerge dalla ricerca più recente è che non vi sia effettivamente una correlazione coerente tra sintomi depressivi e maggiore realismo nella percezione del controllo personale.

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