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Giù la maschera! La sindrome dell’impostore: un’inconsapevole alleata dell’effetto Dunning-Kruger?

Chi soffre della sindrome dell'impostore crede che i propri successi siano dovuti più a fattori esterni che interni e non si sente degno di riconoscimenti.

Di Marina Morgese

Pubblicato il 12 Apr. 2019

La sindrome dell’impostore è un mix di senso di colpa per i traguardi raggiunti, mancata introiezione del successo, paura della valutazione e sentimenti di indegnità e inefficienza professionale e formativa.

 

Spesso funziona così: un gruppo di persone, un tema, delle opinioni. I primi due cambiano di volta in volta: il gruppo di persone può essere composto da utenti del web o dai parenti in fase post-prandiale a Natale; il tema può essere l’ultimo referendum oppure cosa sia meglio per lo sviluppo psicologico dei bambini.

Il copione delle opinioni invece resta per lo più invariato: c’è chi sostiene fortemente la sua opinione, ostentatamente, spesso attaccando chi la pensa in modo diverso, giocandosi sempre quei dati dall’attendibilità ambigua a proprio favore (il famoso “cugino di mio cugino che è un esperto in materia”) e poi ci sei tu, magari con una laurea, una specializzazione, o forse un master o un dottorato nel tema di cui si dibatte che resti in silenzio, non ti senti pronto a intervenire, chissà magari ricordi male, potresti dire cose di cui non sei proprio sicuro, e allora preferisci stare a guardare gli altri che dibattono dal monitor del pc o dalla sedia alla destra del nonno quasi invidiandolo per quella levetta sull’off del suo apparecchio acustico.

Perché, molto spesso, “chi non sa insegna” ma chi sa non interviene?

Negli ultimi anni si è sentito parlare di effetto Dunning-Kruger, ovvero quel fenomeno per cui molte persone tendono a sovrastimare le proprie conoscenze, nonostante queste siano davvero molto limitate. I due ricercatori hanno sottoposto i soggetti del loro studio a dei test di umorismo, grammatica e logica. Hanno poi selezionato gli individui con punteggi inferiori (punteggio medio reale 12) e hanno chiesto loro di fare una stima dei punteggi ottenuti ai test. I soggetti hanno notevolmente sovrastimato i propri risultati, fino ad ottenere un punteggio medio stimato pari a 62!

Dunning e Kruger hanno spiegato questo effetto proprio alla luce della stessa incompetenza dei soggetti: quanto più qualcuno è incompetente su un tema, tanto più questi non è in grado di padroneggiare quelle strategie metacognitive che permetterebbero una maggiore consapevolezza dei propri limiti.

Oltre all’effetto Dunning-Kruger.. la sindrome dell’impostore

Ciò che forse non molti sanno è che, purtroppo, esiste un altro fenomeno che non permetterebbe all’ effetto Dunning-Kruger di ridimensionarsi: molto spesso chi è davvero competente, formato e informato, soffre della cosiddetta sindrome dell’impostore.

La prima a parlare della sindrome dell’impostore è stata Pauline Clance (1978) che ha identificato il fenomeno in un gruppo di donne di successo, le quali non si sentivano meritevoli del prestigioso ruolo ricoperto. Successivamente è stato osservato come la sindrome dell’impostore non si diffonde solo tra le donne, ma tra una vasta fetta di popolazione colta e istruita che ricopre ruoli in diversi settori, tra cui istruzione, assistenza sanitaria, contabilità, finanza, legge e marketing (Arena & Page, 1992; Byrnes & Lester, 1995; Clance & Imes, 1978; Crouch, Powell, Grant, Posner-Cahill & Rose, 1991; Fried-Buchalter, 1997; Huffstutler & Varnell, 2006; Mattie, Gietzen, Davis & Prata, 2008; Parkman & Beard, 2008; Zorn, 2005).

Numerosi studi e articoli hanno documentato la prevalenza del fenomeno in coloro che hanno un’istruzione superiore: studenti e docenti universitari sono particolarmente propensi a manifestare la sindrome dell’impostore (McDevitt, 2006).

I soggetti colpiti da questa sindrome credono che i loro successi formativi e lavorativi siano dovuti più a fattori esterni (nonostante le prove a supporto siano contrarie) che a fattori interni: non credendosi degni di promozioni, riconoscimenti e ricompense, preferiscono credersi dei cialtroni piuttosto che vedersi come persone meritevoli di successo e in gamba. Spesso chi si crede un impostore giustifica i propri successi minimizzando gli standard raggiunti (“E’ stato un esame facile, per questo ho preso la lode!”), chiamando in causa il lavoro di rete o il proprio aspetto fisico (“Se ho avuto il posto sarà perché altri miei amici lavorano lì” oppure “perché hanno visto il mio aspetto da bravo ragazzo!”) (Clance, 1985; Cowman & Ferrari, 2002; Fried-Buchalter, 1997; Kets de Vries, 2005; Kumar & Jagacinski, 2006).

La sindrome dell’impostore è dunque un mix di senso di colpa per i traguardi raggiunti, mancata introiezione del successo, paura della valutazione e sentimenti di indegnità e inefficienza professionale e formativa (Clance & Imes, 1978; Clance & O’Tool, 1988; Young, 2003).

Tutto ciò porta l’individuo a mettere in atto delle “auto-pressioni” affinché non venga mai smascherata la sua reale incapacità e non venga mai scoperto il suo grande bluff. Così facendo è estremamente facile, per chi soffre della sindrome dell’impostore, andare incontro a perfezionismo e a un controllo maniacale del proprio lavoro, concentrando eccessivamente la propria attenzione sugli errori e le relative conseguenze a lungo termine. Lo stress e l’ansia diventano compagni costanti, aumentando notevolemente anche il rischio di burnout (Cowman & Ferrari, 2002; Kets de Vries, 2005; Kumar & Jagacinski, 2006).

Si crea in questo modo un circolo vizioso: l’individuo non si sente meritevole dei riconoscimenti professionali e, cercando di non farsi smascherare, aumenterà il suo controllo e il suo perfezionismo al lavoro, alzando di gran lunga gli standard da raggiungere e ponendosi obiettivi irrealistici che di fatto sono irraggiungibili; il lungo sforzo per raggiungerli porterà l’individuo a sentirsi in ansia, frustrato e incapace e ciò aumenta la percezione di non meritarsi il successo e i traguardi raggiunti (Cowman & Ferrari, 2002; Sakulku & Alexander, 2011; Thompson, Foreman, & Martin, 2000, Clance & Imes, 1978; Cowman & Ferrari, 2002; Harvey & Katz, 1985; Hutchins, 2015; Kets de Vries, 2005, Clance, 1985).

Uno degli atteggiamenti più tipici di chi soffre della sindrome dell’impostore è, secondo Kolligian e Sternberg (1991), il ricorso all’umorismo, sotto forma di autodeprecazione, per rispondere agli elogi e al riscontro positivo da parte degli altri.

Per concludere

Verrebbe quindi da chiedersi cosa porta una persona a non avere abbastanza fiducia nelle proprie capacità. Chi soffre della sindrome dell’impostore è a conoscenza di come viene visto dagli altri ma non lo sente vero, i meriti che gli vengono attribuiti non sono altro che una falsa riconoscenza (Clance, 1985; Sakulku & Alexander, 2011).

Il fenomeno è stato collegato al background familiare (Castro, Jones, e Mirsalimi 2004; King & Cooley, 1995; Sakulku & Alexander, 2011; Sonnak & Towell, 2001). Harvey e Katz (1985) hanno trovato che la sindrome dell’impostore è più frequente negli individui che per primi in famiglia riescono a raggiungere importanti traguardi nella carriera o nell’istruzione e a superare le aspettative degli altri.

Anche gli stili genitoriali sembrerebbero incidere sul fenomeno: negli studenti universitari che presentano tale sindrome i ricercatori hanno riscontrato una correlazione con la mancanza di cure genitoriali nell’infanzia (Sannak e Towell, 2001) ma anche con la presenza di un padre eccessivamente controllante (Li, Hughes e Thu, 2014; Sonnak & Towell, 2001; Want & Kleitman, 2006).

Come è facilmente comprensibile, la sindrome dell’impostore risulta anche negativamente correlata ai livelli di autostima (Ghorbanshirodi, 2012). Ross e colleghi inoltre (2001) hanno messo in luce come gli impostori possono mostrare due tipi di disturbi di personalità: disturbo di personalità evitante e disturbo di personalità dipendente.

Se dopo anni di esami, voti, pubblicazioni, menzioni e aperte manifestazioni di stima da parte di superiori e colleghi, togliervi la maschera che credete di indossare vi risulta ancora molto difficile, si può sempre iniziare da piccoli passi: ripercorrete con la mente il vostro percorso formativo e lavorativo, individuate i momenti in cui vi siete sentiti riconosciuti e i momenti in cui vi siete posti delle aspettative troppo alte. Molto probabilmente combaceranno: forse è il caso di rivedere le vostre aspettative e concedervi finalmente di abbassarle.

Ma prima di tutto, alla prossima discussione post-prandiale in famiglia su cosa sia meglio per lo sviluppo psicologico dei bambini, iniziate col mettere la levetta dell’apparecchio acustico del nonno sull’on e raccontategli di quando quella volta, all’esame di Psicologia dello Sviluppo, avete preso 30!

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Marina Morgese
Marina Morgese

Caporedattrice di State of Mind

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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