La resurrezione digitale: tra memoria, identità e immortalità artificiale
PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 79) Quando i morti tornano in video: lutto, identità e “resurrezione digitale” nell’era dell’intelligenza artificiale
Dopo l’uscita di Sora 2, il modello video-AI in grado di generare filmati iper-realistici da un semplice prompt testuale, alcuni utenti hanno iniziato a “resuscitare” personaggi pubblici deceduti: attori, musicisti, politici. Video diventati virali mostrano volti noti che pronunciano discorsi mai esistiti, persino messaggi “postumi” di scuse o ringraziamento, naturalmente senza alcun consenso (Hunter & Harwell, 2025)
Dietro l’indignazione per la spettacolarizzazione della morte si intravede però un bisogno più profondo: il bisogno umano di non recidere del tutto il legame con chi non c’è più, di restituirgli una voce, un volto, una presenza anche solo digitale. Se nel caso delle celebrità i deepfake riaccendono il dibattito sul diritto all’immagine post-mortem, lo stesso impulso inizia a manifestarsi anche in ambiti privati. Oltre ai cosiddetti Thanabots o Deadbots (sistemi di intelligenza artificiale che permettono di dialogare con versioni digitali dei defunti) si moltiplicano gruppi online, soprattutto su Facebook, dove familiari chiedono di “rianimare” i propri cari tramite video generati dall’intelligenza artificiale (Rodríguez Reséndiz & Rodríguez Reséndiz, 2024).
In questa sorta di “resurrezione digitale”, la tecnologia non si limita a ricordare i morti, ma ne trasforma la percezione, modificando il modo in cui i vivi fanno esperienza della perdita. La spinta verso la digital immortality nasce dal desiderio umano di prolungare l’esistenza oltre la morte biologica trasferendo memorie, dati e frammenti di identità in sistemi di intelligenza artificiale ospitati nel cloud (Talati, 2025).
Le nostre tracce digitali
Ognuno di noi lascia dietro di sé una scia di dati: fotografie, messaggi, post, registrazioni vocali, qualsiasi cosa facciamo online sono delle “tracce informazionali” che gli algoritmi utilizzano per ricostruire personalità, voce, lessico e risposte emotive. Su questa base operano piattaforme come HereAfter AI, che promuovono veri e propri servizi di conversazione con l’avatar del defunto. I Thanabots, chatbot creati a partire dai dati raccolti in vita, nascono con l’intento di lenire il dolore della perdita grazie a un dialogo che continua oltre la morte.
Non si tratta solo di preservare la memoria, ma di produrre una nuova identità postuma, ibrida e dinamica, che continua a interagire con i vivi. L’intelligenza artificiale si trasforma in mediatore tra l’assenza e la presenza, restituendo al lutto una dimensione dialogica che fino a pochi anni fa apparteneva solo alla sfera religiosa o simbolica (Degni, 2025). Rodríguez Reséndiz & Rodríguez Reséndiz (2024) definiscono questo fenomeno technocephalic mimesis: l’imitazione computazionale dei processi cognitivi umani che rende possibile la comunicazione “oltre la morte”. Tuttavia, questa continuità può avere un effetto paradossale: prolungare la negazione della perdita e sostituire al processo di separazione psicologica un legame simulato con una copia algoritmica. 
Il lutto mediato dalle macchine
La teoria dei continuing bonds (Klass et al., 2014) descrive la continuità come una forma sana di adattamento: si continua a dialogare interiormente con chi non c’è più ma entro una nuova cornice simbolica. Le tecnologie del lutto spostano però questo legame dall’interno all’esterno, rendendolo tangibile e interattivo. Gli avatar digitali possono contribuire al meaning making, creando uno spazio di espressione controllato e continuo, ma possono anche cristallizzare la relazione e usare la simulazione per sfuggire alla realtà della separazione (Degni, 2025). Sentire ancora la voce o vedere il sorriso del defunto può dare sollievo nell’immediato ma rischia di sospendere l’elaborazione del trauma. Il punto è che le tecnologie dell’afterlife non sono neutre: modificano i processi emotivi e ridefiniscono ciò che intendiamo per lutto, memoria e presenza, poiché capaci di sostituire le pratiche tradizionali di commiato con interfacce algoritmiche che generano empatia e risposte emotive.
Etica della rappresentazione postuma
Sul piano etico dovremmo poi chiederci chi può decidere al posto di chi non c’è più, cosa significa rappresentarli e dove si colloca il limite tra memoria e appropriazione. Degni (2025) propone un modello di consenso post-mortem basato su consapevolezza, limiti temporali e possibilità di revoca. Tuttavia, l’evoluzione rapida delle tecnologie rende difficile prevedere in vita tutti gli usi futuri dei propri dati. L’assenza di direttive chiare apre così la strada a ricreazioni non autorizzate, sia in ambito privato sia, come mostra il caso di Sora 2, in quello mediatico. C’è poi il discorso dell’autenticità. I modelli generativi non riproducono persone reali, ma costruzioni statistiche basate su frammenti digitali. Queste simulazioni possono generare false realtà, creare ricordi distorti e ridurre la complessità dell’esperienza umana a una rappresentazione coerente ma artificiale. Infine, vi è la mercificazione del lutto. L’industria del Digital Afterlife promette “vita eterna in cloud” e trasforma la memoria in un servizio a pagamento: abbonamenti per mantenere “attivo” l’avatar del defunto, interazioni a consumo, profili digitali perpetui, con effetti psicologici e sociali ancora difficili da prevedere (Talati, 2025).
Dalla morte biologica alla vita digitale
La resurrezione digitale ridefinisce i confini culturali della morte e inaugura una società post-mortale, in cui la fine biologica non coincide più con quella sociale. Il defunto continua a esistere online, ma una simulazione che evolve autonomamente può ancora essere considerata la stessa persona? Inoltre, la “vita digitale” può essere aggiornata o interrotta a piacimento, l’avatar può essere abbandonato o cancellato, in una forma di immortalità reversibile; cosa ne è a quel punto del defunto? Di tutta la sua complessità ricreata ad hoc?
Per questo, le applicazioni basate sull’intelligenza artificiale dovrebbero ispirarsi ai principi del thanatosensitive design e riconoscere il valore emotivo e culturale del morire e garantendo trasparenza e consenso (Rodríguez Reséndiz & Rodríguez Reséndiz, 2024). 
Il caso di Sora 2 evidenzia l’urgenza di un confronto pubblico: quando un avatar di un attore defunto pronuncia parole mai dette, si altera non solo il diritto d’immagine, ma anche il patto di realtà su cui si fonda la memoria collettiva (Talati, 2025). 
Nell’era dei Deadbots, elaborare il lutto significa accettare la morte come reale anche quando lo schermo la smentisce. Lo scopo non dovrebbe essere rendere immortale l’essere umano, ma preservare la dignità della sua scomparsa.
 
                                
                             
                   
															  													   
          