Urla nello sport: tra tradizione marziale e benefici sulla performance
L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, recita il titolo di una pellicola del 1972, diretta e interpretata da uno dei più eminenti esperti di kung fu: Bruce Lee. In effetti, a molti di noi sarà capitato di assistere dal vivo o in TV a un incontro di arti marziali in cui gli atleti emettono intensi suoni vocalici chiamati kiai, che convogliano energia e concentrazione durante l’attacco all’avversario. Grida e grugniti possono essere uditi anche nei tennisti, nei sollevatori di pesi e negli sportivi in generale. Come dimenticare le urla della tennista Maria Sharapova, che superavano i cento decibel?
Un filone poco esplorato di studi evidenzia una relazione tra queste “urla atletiche” e un miglioramento delle prestazioni sportive in aspetti come forza muscolare, potenza aerobica e ossigenazione (Callison et al., 2014; Chen et al., 2016; Takarada & Nozaki, 2022). Urla e grugniti possono avere anche benefici psicologici, oltre che fisiologici? Un articolo del New York Times suggerisce di sì (Vance, 2024).
Benefici psicologici e fisiologici del grunting nello sport
Urla e grugniti nello sport (grunting è il termine inglese) possono contribuire alla vittoria per vari fattori. Una ricerca condotta dall’Università delle Hawaii (Sinnett et al., 2018) sostiene che riuscire a percepire in modo accurato l’azione di un avversario risulta fondamentale per il successo in quasi tutti i domini sportivi. È importante, tuttavia, distinguere tra due possibili vantaggi che il grunting può fornire: un aumento di forza o potenza per il “grugnitore” – per così dire – e la distrazione dell’avversario stesso.
Per quanto riguarda il primo, gli studi sul kiai nelle arti marziali supportano l’ipotesi che la forza fisica possa essere aumentata se un’azione è accompagnata da una forte espirazione (il grunting, appunto), indipendentemente dal livello di competenza dell’atleta (Welch & Tschampl, 2012). Uno studio del 2014 su giocatori di tennis a cui era stato chiesto di colpire dritto e rovescio con e senza grunting, ha rilevato che si verificava un aumento della velocità della palla del 4,9% circa durante i dritti e i servizi in presenza di grunting, rispetto a quando i tennisti non emettevano alcun suono (O’Connell et al., 2014).
Il grunting può rappresentare anche un’importante strategia psicologica per canalizzare le emozioni, focalizzare l’attenzione sui movimenti da intraprendere e sul proprio corpo, favorendo inoltre il mantenimento del ritmo durante l’attività aerobica. Non a caso, tendiamo generalmente a vocalizzare al culmine di uno sforzo fisico. Secondo il New York Times, le vocalizzazioni emesse nel corso della pratica sportiva possono avere effetti paragonabili a quelli della respirazione nella mindfulness e di altre tecniche di consapevolezza corporea, rendendoci più sintonizzati sul nostro corpo mentre ci alleniamo. Per questo motivo, molti artisti marziali abbinano al kiai pratiche di meditazione.
Alcune urla sportive possono assicurare un vantaggio competitivo a chi le effettua, come nel caso del tennis, in cui coprendo il rumore della pallina, impediscono all’avversario di udire la traiettoria della palla colpita dalla racchetta e rispondere con minore prontezza. Il suono, dunque, può costituire una parte determinante del match, fungendo persino da fattore distraente a livello acustico per il nostro contendente (Sinnett & Kingstone, 2010).
Il grunting femminile nello sport è stato lungamente oggetto di critiche da parte del pubblico e di stigma sociale, nonostante costituisca un fenomeno presente anche negli atleti maschi (Vance, 2024).
Nick Bollettieri, leggendario coach di tennis statunitense, che aveva allenato sia le sorelle Venus e Serena Williams che Maria Sharapova, non era così convinto del vantaggio competitivo garantito dal grunting: “Se grugnire potesse far vincere titoli, allora tutti nel mondo grugnirebbero il più forte possibile. Bisogna avere anche talento“, aveva affermato all’età di 83 anni.
Urlare, dunque, può essere utile, ma per vincere può non essere sufficiente.