Il paradosso della noia: disagio, significato e potenzialità psicologica
Questo contributo offertoci da Valerio Pellegrini, Estelle Leombruni, Stefania Iazzetta, Marco Saettoni e Andrea Gragnani è un punto di arrivo di una lunga storia e, auspicabilmente, il punto di partenza di una nuova storia. La lunga storia, come notano gli autori, racconta la noia come uno stato d’animo di una portata letteraria, quasi poetica, che tuttavia tende a sfuggire alle definizioni degli studiosi ed ha finito per essere trascurata nonostante la sua intuibile rilevanza nella sofferenza psicologica. La noia non è semplicemente una condizione penosa derivante da un “vuoto” di stimoli ambientali, è un “vuoto sentito”, che diventa esistenziale segnalando uno scollamento tra il desiderio e la sua possibile realizzazione: “la noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà”.
II più evidente paradosso della noia è che si associa a stati di attivazione opposti, comprendendo sia l’apatia (ipo-arousal) sia l’irrequietezza (iper-arousal), probabilmente in una sorta di oscillazione perpetua. Le altre due caratteristiche distintive che mettono d’accordo gli studiosi sono una mancanza di coinvolgimento e di concentrazione in un’attività significativa, e una specie di offuscamento delle coordinate temporali: il tempo che prima sembra non passare mai e poi è come se fosse andato perduto.
Il terzo elemento presente nella letteratura scientifica è l’associazione con la psicopatologia, in particolare con l’affettività negativa (ansia, depressione, rabbia e apatia), i disturbi somatoformi, le alterazioni dell’umore e la disregolazione emotiva, la tendenza all’impulsività e ai comportamenti a rischio, i disturbi dell’alimentazione e da addiction, e una più generale insoddisfazione esistenziale.
Eppure, nonostante la spiacevolezza dell’esperienza della noia e la sua prevedibile e acclarata connessione con la sofferenza psicologica, il senso comune e le tradizioni contemplative suggeriscono che la noia sia non solo esperienza umana inevitabile, ma utile: che vi sia qualcosa di potenzialmente buono (“adattivo” diremmo, adottando una prospettiva evoluzionistica) nella noia. Immaginate di aver fatto un bel viaggio, un’esperienza intensa e stimolante, e che sulla via del ritorno, in aeroporto, scoprite che il vostro volo ha tre ore di ritardo: come reagireste?
Da qui è possibile individuare il punto di svolta da cui Andrea Gragnani con il suo gruppo di ricerca aprono alla possibilità di considerare la noia sotto una nuova luce. In termini motivazionali, la noia è una condizione legata non tanto all’assenza di stimoli esterni, quanto alla temporanea impossibilità a perseguire obiettivi sufficientemente interessanti – il che, beninteso, è una questione soggettiva. Tuttavia, è molto probabile che l’imprevisto dell’aeroporto e situazioni analoghe generino questo tipo di condizione di “sospensione” degli scopi perseguibili, e che più in generale sia inevitabile, talvolta, non poter perseguire scopi soggettivamente rilevanti.
A questo punto, potremmo ipotizzare, come nella letteratura scientifica prevalente, che le persone tenderanno a vivere le situazioni potenzialmente “noiose” come più o meno penose a seconda della loro propensione a sperimentare la noia o della disponibilità di strategie di coping. Di conseguenza, le misure self-report sulla noia indagavano per l’appunto questi aspetti: per esempio, “Mi annoio facilmente” nella Boredom Proneness Scale, e “Cerco qualcosa da fare per distrarmi”, nella Boredom Coping Scale. Bisogna notare che non sempre le scale di valutazione della noia distinguono chiaramente a livello operativo tra questi due costrutti, e alcuni item, come “Mi capita spesso di sentirmi annoiato e fare qualcosa per distrarmi”, sembrano confondere la frequenza dell’esperienza con le modalità di risposta. Ma, soprattutto, perché alcuni si annoiano più facilmente? E perché alcuni riusciranno a distrarsi, cioè a convogliare l’attenzione su qualcosa di sufficientemente interessante, e altri invece no? Implicitamente, stiamo ragionando come se la noia fosse una malattia alla quale alcuni sono più esposti. Ma se ha senso immaginare che le situazioni di sospensione degli scopi soggettivamente rilevanti siano una parte inevitabile dell’esperienza umana, allora dovremmo includere nel nostro ragionamento la possibilità di una funzione adattiva della noia, e vedere cosa può renderla maladattiva. Questo è il punto di svolta che Gragnani e collaboratori ci indicano, da qui si può iniziare a raccontare una nuova storia sulla noia.
Ricordo i pomeriggi assolati nella casa di campagna di mia nonna, le mosche e le cicale come unica compagnia. Quando dicevo a mia nonna che mi annoiavo, qualche volta lei si offriva di fare una partita a carte o le parole crociate (le “distrazioni” di cui sopra), ma nessuna di queste cose mi interessava veramente: avrei voluto altri bambini con cui giocare a pallone. Allora mia nonna cambiava approccio; già che eravamo destinati ad annoiarci, potevamo dedicarci a pulire grandi quantità di verdure o a preparare la frutta per fare la marmellata; cose così, che impegnano le mani e richiedono un minimo di concentrazione, ma non assorbono più di tante risorse cognitive. Attività noiose, non diverse da quanto previsto in molte pratiche religiose e di “meditazione attiva” (come sgranare un Rosario o un Mala tibetano) o dal concetto benedettino di ora et labora, che coniugano azione e contemplazione, in cui un lavoro manuale semplice e cadenzato diventa uno strumento per abitare il tempo della noia. Ed era appunto questo l’insegnamento: impara a stare nella noia, a tollerarla, e lei diventerà tua amica. Perché “spesso l’infelicità dell’uomo è semplicemente quella di non riuscire a starsene tranquilli in una stanza”.
Tollerare la noia: una nuova prospettiva per comprendere il disagio psicologico
L’idea di costruire e validare una scala della tolleranza alla noia è basata proprio sull’ipotesi, semplice e a mio avviso illuminante, che nella comprensione di quella che potremmo definire “noia maladattiva” sia fondamentale l’incapacità di tollerare la noia, il che apre alla possibilità di una valutazione di secondo livello dell’esperienza della noia. Il focus del problema cambia: non è sentire la noia, ma non saperla reggere. È un invito a ragionare in termini di tolleranza/intolleranza, che implica di considerare anche il versante adattivo della noia, proprio come accade per ogni altro stato emotivo, indicativo dei processi motivazionali in atto, e utile a indirizzarli. Sarà piuttosto l’intolleranza a rendere la noia clinicamente rilevante, cioè potenzialmente disfunzionale.
Un ulteriore pregio non trascurabile di questo approccio è che non si limita ad una descrizione della mente basata su tratti disposizionali (come è la propensione alla noia), quindi tendenzialmente tautologica e sub-personale. Tautologica, poiché dire che uno si annoia perché è predisposto ad annoiarsi è una non-spiegazione, un “principio dormitivo”, come lo definiva Bateson. Sub-personale, perché riduce il funzionamento mentale a una sequenza di meccanismi interni slegati dal contesto e dalla storia del soggetto. Ragionare invece in termini di tolleranza alla noia rimanda a processi di valutazione della condizione di noia, alla capacità di farci i conti, ed implica pertanto una visione intenzionale e dinamica della mente, e ci restituisce l’immagine dell’essere umano nella sua interezza, alle prese con il tentativo di perseguire il proprio piano esistenziale.
Per quanto riguarda lo strumento, vale la pena sottolineare almeno alcune caratteristiche di assoluto pregio. La principale è che, partendo da un lavoro di consenso tra esperti e da un pool iniziale di 20 items, si è individuato un unico fattore (l’intolleranza, appunto) ben rappresentabile attraverso soli 6 items; questo suggerisce che il costrutto è coerente e unitario, a differenza di strumenti precedenti che tendono a presentare strutture fattoriali ambigue. Importante anche che la BIS misuri un costrutto non sovrapponibile a quelli rilevati dai questionari preesistenti: non riguarda la frequenza con cui si prova noia (propensione), né il modo in cui la si affronta (coping), ma la difficoltà a “stare” nell’esperienza stessa senza bisogno immediato di contrastarla o evitarla.
Un ulteriore punto di forza della scala è la sua rilevanza clinica, corroborata dalla conferma di una serie di correlazioni significative con dimensioni psicopatologiche già note: ansia, depressione, disregolazione emotiva, impulsività. Di particolare interesse la relazione inversa tra l’intolleranza alla noia da una parte, e la soddisfazione per la vita e la percezione di un’esistenza dotata di senso dall’altra. Un risultato coerente con l’ipotesi che la capacità di tollerare la noia sia un segno di salute psichica, che si traduce nella possibilità di abitare il tempo in modo più pieno e fedele ai propri valori, anche quando ciò che più intensamente ci motiva, i cosiddetti “scopi irrevocabili”, sembra momentaneamente fuori portata.
Infine, la predisposizione di uno strumento di misura è sempre apprezzabile per il suo valore euristico, ma in questo caso gli autori hanno un merito ulteriore. Offrire un contributo solido e concreto alla possibilità di approfondire la conoscenza su un tema di rilievo non solo per la clinica, ma più in generale per la comprensione della natura umana, e farlo con un “semplice” strumento di 6 items, rivedendo però implicitamente l’agenda dell’investigazione sulla noia da una prospettiva collocabile nel solco della experimental psychopathology, che indaga le continuità e le soglie tra funzionamento adattivo e disfunzionale, è un esempio di quella modestia “Ippocratica” tipica del lavoro di Gragnani e della scuola “Manciniana” a cui fa riferimento: prima si specifica un’ipotesi del funzionamento della mente alla base di un dato disturbo, poi si chiariscono e si operazionalizzano i costruitti (e non c’è modo migliore che costruire un questionario), infine si procede alla verifica empirica della tenuta del modello.
Tollerare la noia: nuove prospettive di ricerca psicopatologica
Tra le prospettive più promettenti di ricerca, ne segnalerei almeno due, entrambe contenute nella scelta di ragionare in termini di intolleranza della noia e presenti in origine nelle linee di ricerca di Gragnani e collaboratori (si consideri, ad esempio, il suo contributo sul disturbo bipolare). Una prima prospettiva riguarda l’investigazione dei processi valutativi di secondo livello sottostanti ad una maggiore o minore tolleranza della noia: quali aspetti del funzionamento individuale rendono così tenace in alcuni la tendenza a ricercare uno scopo su cui investire, e così fallimentare il tentativo di trovare interesse in altro o sospendere la ricerca? Quali processi secondari o meta-emotivi spiegano l’intolleranza, e in quali condizioni o contesti?
Una seconda prospettiva considera implicitamente la tolleranza alla noia come chiave di accesso al suo versante adattivo, cioè alla capacità di attraversare incolumi la sospensione temporanea dell’accesso al desiderio: la “divina indifferenza”, l’atarassia, il nirvana. In anni recenti, gli studi neuroscientifici sul default mode network hanno dato sostanza all’idea che il focus dell’attività mentale possa essere proficuamente distolto dal mondo esterno e convogliato verso l’interno, favorendo il pensiero auto-riflessivo, l’immaginazione, la memoria autobiografica, e la simulazione di scenari futuri. Questo passaggio da una modalità ergotropica ad una trofotropica, adattivo in contesti nei quali ogni investimento nella ricerca di stimoli significativi si rende vano, si accompagna ad un’attività spontanea di mind-wandering. Ed è qui che, con ogni probabilità si rivela decisiva la capacità di tollerare la noia accogliendola come un vuoto fecondo, un vuoto che invece verosimilmente può divenire fonte di angoscia in assenza di una vivificante tensione verso una meta agognata. La condanna di chi non tollera la noia ricorda il supplizio di Tantalo, condannato ad una ricerca tanto spasmodica quanto infruttuosa di stimoli gratificanti destinati a sfuggirgli non appena allunga la mano per afferrarli: “chi vi cerca e vi aspetta il divertimento, non vi trova che noia, e passa quel tempo assai male” Un destino per certi versi opposto e complementare a quello dei daydreamers maladattivi, nei quali l’attivazione del default mode network e il mind wandering diventano una fuga compulsiva in un baudelairiano sogno ad occhi aperti che si trasforma in un daymare: un incubo ad occhi aperti: “E’ la Noia! Con l’occhio grave d’un pianto involontario, sogna patiboli, fumando il suo narghilé”.
Non ci resta quindi che aspettare con curiosità gli sviluppi dello studio empirico di questo stato d’animo che tanto ha appassionato filosofi e poeti e che ora, finalmente, trova una misura concisa e robusta per entrare anche nei protocolli di ricerca e nei ragionamenti clinici. Se, come auspicabile, la BIS darà impulso a nuove riflessioni e indagini, possiamo contare che lo farà in una prospettiva che restituisce spessore alla noia, come una parte dell’esperienza umana con la quale bisogna imparare a fare i conti, perché, come dice Bertrand Russel: “Una generazione che non sa sopportare la noia sarà una generazione in cui ogni impulso vitale finirà per inaridirsi”.