Sonnambulismo: tra veglia e sonno, il paradosso del corpo che agisce senza coscienza
Il sonnambulismo è quel particolare disturbo in cui, pur in una condizione di sonno profondo, si verificano attività compatibili con lo stato di veglia, quali, in primo luogo, un’attivazione deambulatoria. È per questo frequente che un sonnambulo proceda in marcia attraverso luoghi familiari, all’interno dei quali riesce ad orientarsi anche in uno stato di non coscienza, talvolta anche ad occhi chiusi.
Ma per quanto possa apparire sveglio (il soggetto cammina, parla e ove gli si rivolgano delle domande può anche rispondere) l’attivazione motoria non restituisce la consapevolezza dell’azione né un adeguato contatto con la realtà. Alla sintomatologia di base si associano infatti disorientamento spazio- temporale, eloquio lento, attività mentale residua e ridotta risposta agli stimoli esterni, la cui presenza amplifica uno stato di isolamento dalla coscienza.
L’utilizzo dell’apparato vocale, spesso previsto, rende possibile l’emissione di parole o frasi di senso compiuto, di cui al risveglio non verrà tuttavia conservata memoria. È il caso del c.d. sleep talking con amnesia anterograda, un linguaggio automatico espresso durante il sonno e non immagazzinabile in memoria. Da precisare, in proposito, la diagnosi differenziale con il sonniloquio, ulteriore disturbo del sonno REM caratterizzato da un’intensa attività di eloquio durante la fase onirica, ma in questo caso con mantenimento della posizione orizzontale e dell’immobilità (Arkin, 1982; Kavey et al, 1990).
Generalmente gli episodi di sonnambulismo hanno una durata di circa 15 – 20 minuti, al termine dei quali segue un ritorno a letto, compiuto spontaneamente o sotto una leggera pressione esterna: è infatti sconsigliato interrompere lo stato di incoscienza energicamente o con forza (ad esempio scuotendo il soggetto per le braccia) per non suscitarne una destabilizzazione eccessiva, finanche traumatica.
Il sonnambulismo: una controversa eziopatogenesi
Si tratta di un disturbo multi determinato, le cui cause risultano attribuibili ad una serie di fattori genetici, psicologici o fisiologici piuttosto variegata. È più frequente riscontrare il sonnambulismo durante la fase evolutiva, nello specifico verso i 7- 14 anni, o in tutti quei periodi della vita caratterizzati da un intenso coinvolgimento stressogeno, da cui si originano stati d’ansia di difficile gestione.
In età adulta è invece più probabile che l’insorgenza sia collegata ad aspetti psicotici, depressivi o a soverchianti stati d’ansia di natura patologica (Guilleminault et al., 2003).
Sotto un punto di vista organico, la presenza del disturbo può associarsi alla presenza di patologia neurodegenerative, stati febbrili, apnee ostruttive, ipertrofie di tonsille e adenoidi, obesità o stati d’asma, che causerebbero nello specifico l’impossibilità di una respirazione rilassata, necessaria al mantenimento dello stato di sonno ( Crawford, 2023).
Da un punto di vista genetico è stata identificata l’alterazione del cromosoma 20, la cui anomalia causerebbe l’impossibilità di raggiungere una condizione di riposo continuato. Una certa ereditarietà risulta confermata da studi di coorte che riportano come, genitori di bambini sonnambuli, abbiano a loro volta sofferto di sonnambulismo in età infantile (Miller, 2011; Licis et al., 2011).
Studi neurobiologici hanno evidenziato il coinvolgimento della corteccia cerebrale, di cui è stato rilevata una intensa attivazione nei momenti precedenti l’episodio ( Oliviero et al., 2007). Sarebbe proprio questa condizione di iperallerta ad impedire il consolidarsi di uno stato di riposo in grado di favorire il rilassamento cognitivo- motorio. È come se il sonnambulo non riuscisse a disinnescare uno stato di vigilanza che dall’area cerebrale raggiunge quella motoria, spingendola ad un’attivazione non riscontrabile in condizioni di normalità.
Cosa accade nel cervello del sonnambulo: il sonno a metà
Riscontri in neuroimaging hanno dimostrato che, durante l’episodio sonnambulico, si attivano due zone cerebrali differenti: una collegata alla dimensione cosciente, tipica della veglia, ed una collegata alla dimensione onirica, sconnessa dalla realtà e dai processi corticali. Dunque il soggetto dorme a metà, o meglio, dorme destinando al riposo un solo emisfero cerebrale, per lasciare l’altro in uno stato di pseudo attivazione (Tamaki, 2016; Oliviero et al, 2007). Nello specifico l’emisfero più vigile, da cui si innescherà l’attivazione motoria, manifesta un movimento di onde caotico e disorganizzato, laddove l’emisfero non coinvolto nella vigilanza è caratterizzato da un ritmo di onde più lento e sincronizzato, in linea con uno stato che precorre il riposo ( Schenck, 2007; Crawford, 2023). La compresenza inconciliabile tra queste due condizioni (onde lente e coerenti- onde disorganizzate) causerebbe una de sincronizzazione complessa che impedisce sia lo stato di veglia sia quello di riposo, provocando una condizione di “coscienza non cosciente” di cui il sonnabulismo rappresenta l’esito patologico.
Il cosiddetto “sonno uniemisferico”, inteso come la tendenza a dormire facendo riposare un emisfero alla volta, viene riscontrato in alcune specie animali -ad esempio balene o delfini- che, anche durante la condizione di riposo necessitano di mantenere uno stato di vigilanza a scopo difensivo; alcuni uccelli migratori lo impiegano per continuare l’attività motoria durante il sonno e risparmiare energia metabolica (Guarguaglini, 2016).
Questa asimmetria onirica, in base alla quale una parte del cervello risulta sempre più coinvolta nel sonno rispetto all’altra, nell’essere umano è minimamente riscontrabile anche in condizioni di normalità; la sua presenza risulta tuttavia amplificata in tutti quegli stati di iper attivazione- motoria o emotiva- che non consentono di allentare lo stato di guardia ( Tucci, 2024). In questo caso l’emisfero responsabile dell’attivazione motoria risulta specificamente pervaso da una serie di onde discroniche non compatibili con la condizione di quiete, e per questo disfunzionali. Ciò potrebbe confermare l’eziopatogenesi multideterminata del disturbo, nel quale vulnerabilità biologica, disagio di natura ansiosa e contesto ecologico favorente risultano fattori egualmente concorrenti ( Crawford, 2023).
L’aspetto diagnostico e il trattamento del sonnambulismo
L’insorgenza del disturbo sonnambulico è in parte dovuta all’incapacità di mentalizzare (dotare di un significato critico e rielaborato) uno stato emotivo ansiogeno/ stressante, competenza che risulta maggiormente deficitaria durante l’età infantile, data l’immaturità dei sistemi neurologici e cognitivi ( in particolare la corteccia frontale e orbitofrontale) che rendono possibile tale competenza. È forse questo il motivo che lo rende un disturbo più tipico dello stadio prepuberale e puberale, ove si manifesta in alcuni casi in comorbilità con enuresi e marcata sintomatologia somatizzante (Guilleminault et al., 2003).
Con l’affacciarsi della fase adolescenziale, e ancora più dell’età adulta, il sonnambulismo tende a regredire spontaneamente, mentre nel caso in cui faccia parte della sintomatologia secondaria ad un disturbo organico la remissione è direttamente collegata all’efficace trattamento terapeutico di quest’ultimo.
Ma in alcuni casi esso tende a cronicizzarsi, presentandosi ad intervalli regolari o in corrispondenza di momenti di vita particolarmente stressanti, nei quali assume il ruolo di regolatore emotivo, meccanismo di difesa e di gestione del disagio ( Kavey, 1990). Una sorta di coping stabile, per quanto disfunzionale, che il soggetto impiega nelle situazioni di stress eccessivo.Diventa allora necessario un consulto specifico, che sia prima di tutto in grado di fornire una diagnosi in grado di escludere falsi positivi o negativi: sotto questo punto di vista può rivelarsi particolarmente utile l’impiego dell’elettroencefalogramma eseguito durante il sonno, e della polisonnografia, che consente di monitorare le attività cerebrali durante le singole fasi del riposo notturno.
Una volta accertata la patologia, ricorrere ad una terapia farmacologica non sembra opportuno, o almeno non nell’immediato: solo in caso di resistenza o cronicizzazione si può pensare all’assunzione di antidepressivi o ansiolitici, senza tuttavia rinunciare ad un programma di intervento psicoterapeutico da cui una duratura remissione del disturbo non può prescindere.
A questo si associa l’adozione di una serie di accortezze comportamentali in grado di implementare le capacità di automonitoraggio e autoregolazione degli stati emotivi e stressogeni (Jungquist, et al., 2012). Tra queste si segnalano:
- una buona igiene del sonno. Aerare la stanza per mantenere una buona temperatura e andare a dormire sempre alla stessa ora possono favorire la regolazione del sonno;
- evitare attività stressanti prima di addormentarsi può agevolare quegli stati di calma e rilassamento che precorrono il riposo;
- apprendere modalità di regolazione emotiva più funzionali;
- non assumere alcol o caffeina durante le ore serali, per non ostacolare il processo di rilassamento e di produzione della serotonina;
- evitare un ambiente troppo illuminato, per non ostacolare la produzione di melatonina;
- evitare le abbuffate e non cenare troppo tardi: soprattutto nei soggetti predisposti o che già soffrono del disturbo, consumare un pasto abbandonante subito prima di coricarsi può favorire l’insorgenza di stati emotivi non rilassati, soprattutto data il forte legame che unisce il sistema nervoso centrale e l’organo intestinale;
- prendere le dovute precauzioni “ecologiche”: in presenza di un sonnambulismo accertato, sarebbe opportuna la costruzione di un ambiente di riposo protetto, in particolare scevro dalla presenza di oggetti che potrebbero mettere in pericolo la marcia notturna.