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ADHD: un disallineamento tra individuo e ambiente?

L’ADHD si manifesta in modi diversi a seconda del contesto in cui una persona vive, combinando aspetti genetici e influenze ambientali

Di Alessandro Ocera

Pubblicato il 19 Giu. 2025

ADHD: un disturbo del neurosviluppo tra genetica e contesto ambientale

L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività) è uno dei disturbi del neurosviluppo più comuni in età evolutiva, caratterizzato da difficoltà di attenzione, impulsività e iperattività motoria (APA, 2022). Studi epidemiologici internazionali stimano che circa il 5% dei bambini nel mondo presenti un ADHD (Faraone & Larsson, 2019; Agenzia Italiana del Farmaco [AIFA], 2015). In Italia, si attesta una prevalenza intorno al 3% tra i bambini e adolescenti in età scolare (AIFA, 2015). Il disturbo tende a persistere nel tempo: circa i due terzi dei bambini con ADHD continuano ad avere sintomi significativi anche da adulti, con una prevalenza stimata nel 2-4% nella popolazione adulta (Faraone & Larsson, 2019; AIFA, 2015). Tradizionalmente l’ADHD viene descritto come un disturbo neurobiologico con una forte base genetica ed evidenze di alterazioni in specifici circuiti cerebrali deputati alla regolazione dell’attenzione e del comportamento (Faraone & Larsson, 2019). Tuttavia, accanto a questa prospettiva medica, sta emergendo una visione più ampia che considera l’ADHD anche come il possibile risultato di un disallineamento tra le caratteristiche individuali della persona e le richieste del contesto ambientale in cui si trova. Le difficoltà attentive e comportamentali potrebbero dipendere non solo da fattori intrinseci (cervello e genetica), ma anche dal modo in cui tali caratteristiche si incastrano – o, in alcuni casi, non si incastrano – con l’ambiente circostante.

ADHD: sviluppo teorico ed empirico

Numerose ricerche confermano che l’ADHD ha una forte componente neurobiologica (Chen et al., 2008; Chen et al., 2016). Gli studi sui gemelli mostrano infatti un’elevata ereditarietà del disturbo (stimata intorno al 74-80%), indicando che fattori genetici spiegano gran parte della vulnerabilità all’ADHD (Faraone & Larsson, 2019). Inoltre, indagini di neuroimaging hanno rilevato differenze sottili ma consistenti nella struttura e nel funzionamento del cervello di individui con ADHD, in particolare a livello delle aree frontali e delle connessioni cerebrali coinvolte nei processi di autoregolazione, attenzione sostenuta e controllo degli impulsi (Faraone & Larsson, 2019). Tali differenze neurobiologiche supportano l’idea che l’ADHD sia un disturbo del neurosviluppo con basi concrete nel cervello. Allo stesso tempo, però, evidenze empiriche suggeriscono che l’espressione dei sintomi dell’ADHD varia in funzione del contesto (Lasky et al., 2016). Ad esempio, molti giovani adulti con ADHD riferiscono che le proprie difficoltà di attenzione e iperattività si manifestano in modo diverso a seconda dell’ambiente lavorativo o scolastico: in contesti stimolanti, dinamici e adatti alle loro inclinazioni essi riescono a concentrarsi meglio e trasformano l’“eccesso” di energia in un punto di forza, mentre in ambienti monotoni o molto strutturati i loro sintomi tendono ad aggravarsi (Lasky et al., 2016). Questa visione contestuale trova eco anche in prospettive teoriche più ampie, come quella evoluzionistica: alcuni autori propongono che i tratti associati all’ADHD possano essere considerati adattativi in un diverso ambiente ancestrale, ma risultino meno compatibili con le richieste della vita moderna, dando luogo a un disallineamento evolutivo (Swanepoel et al., 2017). Ad esempio, in un’epoca preindustriale un bambino molto attivo e curioso avrebbe potuto apprendere efficacemente esplorando l’ambiente, mentre oggi gli si chiede di stare seduto e attento per ore in classe – una situazione per lui “innaturale”. In quest’ottica, l’ADHD emergerebbe dall’interazione tra una predisposizione individuale e un contesto poco allineato a tale predisposizione, piuttosto che da una disfunzione puramente “interna” all’individuo. Importante sottolineare che riconoscere il ruolo del contesto non significa negare la base biologica del disturbo, ma piuttosto integrare i due aspetti: l’ADHD va compreso come risultato di fattori neurobiologici che si esprimono in modo diverso a seconda dei fattori ambientali (Lasky et al., 2016). 

Implicazioni clinico-educative dell’ADHD

Adottare una visione dell’ADHD come disallineamento individuo-contesto ha importanti ricadute pratiche per clinici, genitori e insegnanti. In primo luogo, sottolinea la necessità di interventi multimodali e personalizzati. Sul versante medico, i farmaci stimolanti come il metilfenidato restano un trattamento di provata efficacia nel ridurre i sintomi nucleari di disattenzione e iperattività (MTA Cooperative Group, 1999) da affiancare comunque a interventi psicosociali mirati. Una vasta meta-analisi ha confermato che i programmi comportamentali (ad esempio, tecniche di rinforzo positivo, token economy, training per genitori e insegnanti) producono miglioramenti significativi nel comportamento dei bambini con ADHD, dimostrando un’efficacia robusta e paragonabile a quella dei trattamenti farmacologici nel medio termine (Fabiano et al., 2009). In ambito educativo, ciò si traduce nell’importanza di creare un ambiente scolastico “ADHD-friendly”: strategie come suddividere le consegne in compiti brevi e vari, alternare le attività cognitive con pause di movimento, usare supporti visivi e routine prevedibili, possono aiutare il bambino con ADHD a esprimere al meglio le proprie capacità. 

Allo stesso modo, l’insegnante può implementare sistemi di ricompense per rinforzare i comportamenti adeguati e tecniche di gestione della classe che riducano le distrazioni. Anche a casa, i genitori possono adottare accorgimenti educativi (stabilire regole chiare ma poche e coerenti, premiare i piccoli successi, fornire sbocchi per l’energia fisica) che adattino l’ambiente domestico ai bisogni del bambino, invece di limitarsi a correggere il bambino affinché si adatti all’ambiente. Questo cambio di prospettiva – dall’adeguare il bambino al contesto, all’adeguare in parte il contesto al bambino – favorisce un clima più positivo in cui le difficoltà vengono gestite in modo collaborativo. In ambito clinico, significa anche ampliare la valutazione diagnostica considerando i fattori contestuali: il professionista dovrebbe indagare in quali situazioni i sintomi peggiorano o migliorano, coinvolgendo attivamente scuola e famiglia nel processo di raccolta delle informazioni. Infine, considerare l’ADHD in termini di interazione con l’ambiente incoraggia a valorizzare anche i punti di forza spesso presenti in questi individui: creatività, curiosità, pensiero “fuori dagli schemi”, energia e intraprendenza possono diventare risorse preziose se incanalate in contesti appropriati. Un sistema clinico-educativo sensibile al contesto cercherà dunque non solo di ridurre i sintomi, ma anche di promuovere l’adattamento reciproco tra individuo e ambiente: ciò può implicare sia aiutare la persona a sviluppare abilità di coping e organizzazione, sia lavorare sul contesto (classe, famiglia, posto di lavoro) affinché diventi più inclusivo e favorevole.

ADHD tra cervello e ambiente: una visione integrata

In conclusione, guardare all’ADHD come a un equilibrio dinamico tra neuroscienze e ambiente arricchisce la comprensione di questo complesso disturbo. Da un lato, le evidenze scientifiche supportano la realtà neurobiologica dell’ADHD: si tratta di un disturbo con basi genetiche e differenze cerebrali ben documentate, che può comportare significative sfide evolutive se non adeguatamente riconosciuto e trattato. Dall’altro lato, una lettura critica e aggiornata evidenzia come il contesto di vita giochi un ruolo cruciale nel modulare la gravità e l’impatto dei sintomi. L’ADHD non è una entità statica confinata nel cervello del bambino, ma un processo interattivo tra un individuo (con le sue caratteristiche neuropsicologiche) e il suo ambiente (con le sue richieste, aspettative e supporti). Questa prospettiva integrata ha il potenziale di ridurre le polarizzazioni nel dibattito pubblico – spesso diviso tra chi vede l’ADHD solo come un “difetto neurobiologico” da medicalizzare e chi lo liquida come una semplice “invenzione” dovuta a scuola o genitorialità inadeguate. Riconoscere che biologia e ambiente co-determinano il quadro clinico dell’ADHD consente invece di superare tali dicotomie sterili e di concentrare gli sforzi su ciò che davvero importa: sviluppare interventi efficaci e individualizzati. 

Riferimenti Bibliografici
  • Agenzia Italiana del Farmaco (2015). Concept Paper AIFA su ADHD: Prosegue la verifica delle richieste pervenute. Roma: AIFA. 
  • American Psychiatric Association. (2022). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed., text rev.).
  • Chen, Q., Brikell, I., Lichtenstein, P., Serlachius, E., Kuja-Halkola, R., Sandin, S., & Larsson, H. (2017). Familial aggregation of attention-deficit/hyperactivity disorder. Journal of child psychology and psychiatry, and allied disciplines58(3), 231–239. 
  • Chen, W., Zhou, K., Sham, P., Franke, B., Kuntsi, J., Campbell, D., Fleischman, K., Knight, J., Andreou, P., Arnold, R., Altink, M., Boer, F., Boholst, M. J., Buschgens, C., Butler, L., Christiansen, H., Fliers, E., Howe-Forbes, R., Gabriëls, I., Heise, A., … Asherson, P. (2008). DSM-IV combined type ADHD shows familial association with sibling trait scores: a sampling strategy for QTL linkage. American journal of medical genetics. Part B, Neuropsychiatric genetics : the official publication of the International Society of Psychiatric Genetics147B(8), 1450–1460. 
  • Fabiano, G. A., Pelham, W. E., Jr, Coles, E. K., Gnagy, E. M., Chronis-Tuscano, A., & O’Connor, B. C. (2009). A meta-analysis of behavioral treatments for attention-deficit/hyperactivity disorder. Clinical psychology review29(2), 129–140. 
  • Faraone, S. V., & Larsson, H. (2019). Genetics of attention deficit hyperactivity disorder. Molecular psychiatry24(4), 562–575. 
  • Lasky, A. K., Weisner, T. S., Jensen, P. S., Hinshaw, S. P., Hechtman, L., Arnold, L. E., W Murray, D., & Swanson, J. M. (2016). ADHD in context: Young adults’ reports of the impact of occupational environment on the manifestation of ADHD. Social science & medicine (1982)161, 160–168. 
  • Swanepoel, A., Music, G., Launer, J., & Reiss, M. J. (2017). How evolutionary thinking can help us to understand ADHD. BJPsych Advances23(6), 410–418.
  • The MTA Cooperative Group. A 14-Month Randomized Clinical Trial of Treatment Strategies for Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder. Arch Gen Psychiatry. 1999;56(12):1073–1086. 
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