Disturbi dello spettro autistico e selettività alimentare
Nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il ‘Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo‘ (Avoidant/restrictive food intake disorder- ARFID) sembra essere quello che meglio descrive la rilevanza clinica dell’alimentazione selettiva. Esso si sostituisce al Disturbo della nutrizione nell’infanzia o prima giovinezza (FD) individuato dal DSM-IV TR, rispetto al quale si differenzia per la possibilità di essere diagnosticato durante tutto l’arco di vita (APA, 2013).
I bambini con disturbi dello spettro autistico hanno maggiori probabilità di mostrare selettività alimentare e avere un repertorio alimentare più limitato rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico (Ahearn 2001;Bandini et al. 2010; Schreck e Williams 2006). La prevalenza della selettività alimentare è riportata tra il 25 e il 40% dei bambini neurotipici e il 40-85% dei bambini con disturbi dello spettro autistico (Ahearn 2001; Bandini et al. 2010).
La grande prevalenza della selettività alimentare nei bambini con disturbi dello spettro autistico può essere parzialmente attribuita alla mancanza di una definizione standardizzata in letteratura. Nel 2010, infatti, Bandini e collaboratori introducono una definizione standard di selettività alimentare che comprende tre ambiti: rifiuto del cibo, repertorio alimentare limitato e assunzione di singoli alimenti ad alta frequenza.
La maggior parte delle valutazioni comportamentali e degli interventi per la selettività alimentare sono condotti dai clinici (ad esempio, Piazza et al., 2002). Sebbene ricerche precedenti abbiano dimostrato risultati efficaci con i genitori che ricoprono il ruolo di agenti primari di cambiamento durante l’intervento (ad esempio, Anderson & McMillan, 2013), pochi studi hanno incluso la raccolta di dati e l’attuazione dei trattamenti da parte dei genitori direttamente, con la mediazione da parte dei clinici.
Quanti e quali tipologie di selettività alimentare?
Un comportamento alimentare può essere definito appartenente all’ambito della selettività alimentare se si tratta di un comportamento di rifiuto del cibo secondo queste caratteristiche (Williams PG, DalrympleN., Neal J., 2000, in Mazzone, 2018):
- consistenza;
- marca;
- disposizione nel piatto;
- gusto;
- temperatura;
- forma;
- colore;
- quantità;
- rituali attorno al cibo;
- odore.
La selettività alimentare include 3 domini: rifiuto del cibo, repertorio limitato di cibi e alta frequenza di un unico apporto di cibo (Bandini et al., 2010).
Selettività alimentare: problematica medica o comportamentale?
Diverse sono state le teorie e soprattutto le ipotesi scientifiche per spiegare la selettività alimentare. Tra queste, ampiamente discussa è «l’ipotesi che problemi gastrointestinali possano essere una ragione del rifiuto del cibo, almeno in una parte di questi pazienti. In realtà gli studi che sostengono tale ipotesi hanno ottenuto sinora risultati contrastanti, con una variabilità molto ampia e dati scarsamente replicabili» (Nikolov et al., 2009; Ibrahim et al., 2009, in Mazzone, 2018). Attualmente non è quindi ipotizzabile sostenere che disturbi gastrointestinali o intolleranze, quali la celiachia, siano la causa dei problemi o delle morbilità legate al disturbo dello spettro autistico o all’autismo stesso. La selettività alimentare può essere dovuta ad una percezione sensoriale alterata, tipicamente presente nei soggetti con autismo. Spesso l’esposizione a cibi di consistenze particolari (es. viscido o croccante) o temperature diverse dallo standard può provocare un’iperattivazione ed evocare risposte di evitamento di determinati stimoli, che non vengono esperiti e riproposti e che finiscono per diventare stimoli avversivi. Si innesca in questo modo un meccanismo che porta alla creazione di un vero e proprio “effetto imbuto”, che porta alla riduzione progressiva e sistematica dei cibi consumati e alla creazione di un repertorio comportamentale di fuga nei confronti delle esperienze alimentari (ad esempio il bambino non vuole avvicinarsi a tavola, non si siede, non partecipa alla routine dei pasti o emette comportamenti disfunzionali in quei momenti).
Come intervenire?
Trattare la selettività alimentare nell’autismo è un processo di indagine e di modificazione comportamentale molto complesso, strutturato in diverse fasi di intervento. Innanzitutto occorre richiedere informazioni specifiche e dettagliate sulla storia medica al paziente stesso o ai suoi caregivers, oltre a raccogliere informazioni sull’anamnesi fisiologica (notizie mediche su gravidanza, fase peri e post-natale, acquisizione delle prime tappe dello sviluppo, ritmo sonno/veglia, allattamento, svezzamento e alimentazione in generale) e su quella patologica remota (eventuali ospedalizzazioni, ritardi nell’acquisizione delle funzioni psicofisiche, regressioni dello sviluppo) (Mazzone, 2018).
Successivamente bisogna valutare lo stato di nutrizione del bambino, attraverso il supporto dell’equipe medica di riferimento. «Lo stato nutrizionale si valuta analizzando i marker biochimici (dosaggio di vitamine e minerali nei liquidi biologici), le abitudini alimentari e misurando i parametri antropometrici, ossia peso, altezza, circonferenze e pliche, che vengono poi confrontati con dei valori di riferimento della popolazione sana, contenuti nelle curve di crescita e da cui viene formulato l’indice di massa corporea» (Mazzone, 2018).
Dalla valutazione nutrizionale iniziale emerge un dato relativo al soddisfacimento totale, parziale o nullo del fabbisogno alimentare, inteso come quantità di energia e macronutrienti che servono al corpo per funzionare in modo corretto. In questa fase occorre tenere presente quale sia la gamma di cibi consumati e quale quella di cibi rifiutati e con quali altri cibi vi è stato un processo di sostituzione.
«È importante, inoltre, sempre valutare se i deficit nutrizionali sono causati o associati a problematiche mediche specifiche, operando una diagnosi differenziale con la selettività alimentare che ha, invece, un’origine multifattoriale, in cui le componenti comportamentali e sensoriali incidono significativamente» (Mazzone, 2018). Solo in seguito ad un’accurata valutazione di questo tipo si può passare ad un approfondimento valutativo di matrice comportamentale, che prevede una valutazione tramite diversi strumenti di assessment:
- una scheda di assessment generale;
- un diario alimentare per la valutazione della selettività alimentare;
- un’analisi funzionale per la valutazione dei comportamenti disfunzionali legati al pasto.
Esistono diverse tipologie di trattamento per la selettività alimentare. Occorre innanzitutto partire da un’analisi funzionale del comportamento alimentare per identificare antecedenti e conseguenze che mantengono i comportamenti di rifiuto del cibo e definire quale tipologia di selettività alimentare si va a trattare (se ad esempio si tratta del rifiuto sistematico di cibi dalla consistenza viscida come pasta, latticini, uova probabilmente si tratta di una selettività per consistenza; se invece ad esempio il bambino tende a scartare verdure e ortaggi probabilmente si tratta di una selettività alimentare per colore o per gusto).
Il trattamento può includere un’esposizione graduale a cibi di consistenze, colori, gusti gradualmente diversi, ma anche un’esposizione graduale a comportamenti funzionali legati al pasto (avvicinarsi al tavolo, stare seduti per pochi minuti ecc). Per strutturare un intervento, è fondamentale in questo processo il coinvolgimento della famiglia, attraverso il parent training e il Behavioral Skills Training (BST).
Il training sulle abilità comportamentali
Il BST è una strategia di insegnamento che insegna competenze specifiche attraverso istruzioni e pratica dirette. Consiste in quattro fasi sequenziali: istruzione, in cui viene descritto allo studente il comportamento che si desidera incentivare; modellamento, che consiste nel mostrare in vivo o attraverso un video il comportamento target; simulazione, durante la quale lo studente praticherà in modo ripetuto il comportamento che ha osservato; feedback, che prevede il riconoscimento dei successi e la correzione degli errori (Miltenberger, 2014) e talvolta viene utilizzato in combinazione con la formazione in contesto ecologico. Il BST fa parte di un processo più ampio di parent training.
Il parent training
Parent Training, o Coaching Genitoriale, rappresenta un programma strutturato che fornisce ai genitori le strategie per comprendere e gestire in modo funzionale i comportamenti dei loro figli. «È efficace in situazioni in cui i bambini sono affetti da condizioni particolari quali, ad esempio, disturbi del neurosviluppo, disturbi dello spettro autistico o gravi disturbi del sonno» (Aragona, 1975).
«Il Parent Training coinvolge attivamente i genitori, guidandoli nello sviluppo delle loro competenze educative e nell’adattamento ai bisogni specifici dei loro figli» (Boutain, 2020).
Mediante la comprensione dei comportamenti disfunzionali e il ricorso a strategie di gestione ad hoc, il parent training costituisce un “alleato” per le famiglie, consentendo loro di affrontare comportamenti problematici e sfide quotidiane, e fronteggiando le situazioni familiari complesse con maggiore consapevolezza.
Il contratto comportamentale
Le ricerche hanno dimostrato che il contratto comportamentale, sotto forma di contingenze comportamentali, può aiutare a promuovere un range di comportamenti funzionali e socialmente adeguati (Edgemon et al., 2020).
Il contratto comportamentale si basa su alcuni principi standard:
- Stabilire chiaramente i confini comportamentali
- Documentare i comportamenti scorretti per promuovere la discussione
- Si concentra su comportamenti positivi
- Costruire relazioni positive tra le parti coinvolte
- Premiare e motivare.
Uno studio su un bambino con autismo
E’ stato condotto uno studio per investigare l’efficacia dell’utilizzo del behavioral skills training e del contratto comportamentale per aumentare i comportamenti positivi legati alla routine dei pasti e per aumentare la varietà di cibi consumati. All’interno di questo studio, è stato chiesto ai genitori di Michele di compilare un diario alimentare per tracciare la varietà e la quantità di cibi consumati (tabella 1 pre training in appendice).
Successivamente è stato impostato con la mamma e con Michele un contratto comportamentale che prevedeva diversi step di compliance alimentare (tabella 2 post training in appendice) (assaggiare cibi diversi in quantità sempre crescente), per ottenere una piccola somma in denaro da mettere in salvadanaio e comprare un premio scelto (Nintendo Switch). E’ stata poi condotta una fase di post training (rehearsal) sotto forma di colloquio con Michele e la mamma, per verificare l’efficacia del training. E’ stato ottenuto un aumento della varietà dei cibi consumati abitualmente da Michele e un miglioramento delle sue preferenze alimentari (tabella 3 in appendice).
Appendice
Tabella 1 pre training
Tabella 2 post training
Dai grafici a torta soprastanti emerge come sia aumentata la varietà in termini di macronutrienti assunti nel post training rispetto al pre training. E’ inoltre aumentato il valore preferenziale di alcuni cibi, di cui alcuni (pesce e formaggi) che nel pre training avevano valore 0 e provocavano disgusto al soggetto alla sola vista.