Le emozioni ci impediscono di essere di aiuto?
La scena politica internazionale presenta a tutti noi, attraverso molteplici canali mediatici, il triste conto derivante da mesi (o anni) di conflitti armati in Ucraina, Israele e Palestina.
Nonostante possiamo conoscere in tempo reale, grazie ai social network, il dettaglio dei bombardamenti effettuati, il numero delle vittime mietute e i diritti umani violati, tali informazioni sembrano instillare nell’opinione pubblica un generale atteggiamento di indifferenza e impassibilità. È sempre più facile ignorare un articolo di giornale o evitare un post, se parlano di guerra.
Come spiegare questo diffuso atteggiamento di indifferenza verso la sofferenza umana e di inazione collettiva e individuale (Grant, 2024)? La psicologia ci viene in aiuto.
Empatia e disagio empatico
Secondo Tania Singer e Olga Klimecki (2014), psicologhe e neuroscienziate, indifferenza e inazione possono nascere paradossalmente dall’empatia, in particolare da una reazione empatica chiamata disagio empatico.
Ricordiamo il costrutto di empatia. Essa è la capacità di condividere i sentimenti degli altri; ci permette di entrare in risonanza con i sentimenti positivi e negativi di chi ci circonda, sentendoci felici o sofferenti quando entriamo in empatia con qualcuno che, a sua volta, gioisce o sta soffrendo (Hein & Singer, 2008; Hoffman, 1998). Nell’empatia ci si sente come l’altro, ma si è consapevoli che l’emozione con cui si entra in risonanza è l’emozione di qualcun altro.
Una risposta empatica alla sofferenza può provocare due tipi di reazioni: la prima è il disagioempatico, detto anche disagio personale. Il disagio empatico è una forte risposta di avversione alla sofferenza altrui; è auto-orientato, in quanto ci rende più turbati dal dolore di chi ci è accanto che preoccupati per lui; inoltre, è accompagnato da una minore tendenza ad agire in modo prosociale e dal desiderio di fuggire da una situazione penosa, per proteggerci da intense emozioni negative (Batson, 2009; Singer & Klimecki, 2014). In altri termini, soffrire per gli altri può immobilizzarci e renderci incapaci di aiutare.
La dilagante tendenza all’inazione e all’indifferenza verso il dolore degli altri potrebbe, dunque, non essere frutto dell’apatia. Il disagio empatico potrebbe spiegare perché molte persone abbiano fatto “un passo indietro” a seguito di queste tragedie, disimpegnandosi a livello emotivo e sociale. Quando la sofferenza rischia di diventare troppo stressante o traumatica da affrontare, il disagio empatico può “filtrare” la nostra emotività, facilitando l’assunzione di un punto di vista da spettatore disimpegnato rispetto alla realtà (Global Compassion Coalition, 2023).
Compassione e motivazione all’aiuto
Come si è detto, una risposta empatica alla sofferenza può provocare due tipi di reazioni: la prima è il disagio empatico, mentre la seconda è la compassione. Qual è la differenza tra empatia e compassione? L’empatia implica il sentire l’esperienza emotiva dell’altro come se fosse la propria, assumerne la prospettiva e provarne le emozioni (“Sto soffrendo per te”). La compassione è un sentimento di preoccupazione per la sofferenza di un’altra persona, che si accompagna alla motivazione ad aiutarla (“Vedo la tua sofferenza e sono qui per aiutarti”) (Singer & Klimecki, 2014). È orientata verso gli altri, e questo spinge all’azione anziché alla fuga dalle situazioni dolorose (come nel disagio empatico).
La ricerca suggerisce come la compassione possa rappresentare un valido antidoto a un’eccessiva condivisione delle emozioni e al disagio empatico, una risorsa personale (e per la collettività) in grado di promuovere comportamenti prosociali e maggiori livelli di benessere individuale (Singer & Klimecki, 2014).
Empatia e compassione a livello cerebrale
Studi di neuroimaging hanno mostrato che empatizzare con le emozioni di un’altra persona attiva reti neurali che supportano anche l’elaborazione in prima persona di tali emozioni. I ricercatori hanno ipotizzato l’esistenza di reti neurali condivise, in grado di “accendersi” sia quando, ad esempio, si riceve una stimolazione dolorosa, sia quando si assiste, anche in modo indiretto (guardando una foto), alla sofferenza di un altro individuo. Tali reti condivise sono state osservate nella corteccia somatosensoriale, nella corteccia orbitofrontale, nello striato ventrale e nell’insula anteriore (Lamm et al., 2011).
Empatizzare, dunque, fa male, come se stessimo sperimentando noi stessi il dolore degli altri. E quando non è possibile ridurre la sofferenza degli altri – e di conseguenza la propria – il disagio empatico ci spinge a scappare.
Ulteriori studi hanno sottoposto i partecipanti a un allenamento a breve termine alla compassione basato su pratiche meditative, rilevando un’attivazione di reti neurali solitamente collegate a emozioni positive (corteccia orbitofrontale mediale e striato). Al contrario, ricevere sessioni di formazione sull’empatia era associato a un’attivazione dell’insula e della corteccia cingolata media anteriore, con emozioni negative auto-riferite (Klimecki et al., 2013; 2014).
La compassione può essere allenata?
Come abbiamo visto negli studi di neuroimaging, la compassione non è una qualità stabile di un individuo, ma una capacità che può essere influenzata dall’allenamento. Per allenare la compassione, la ricerca psicologica si è rivolta a tecniche legate alla meditazione, come quella chiamata “allenamento alla gentilezza amorevole” (Fredrickson et al., 2008). Tale pratica punta a sviluppare sentimenti di amicizia, gentilezza e benevolenza verso alcune persone immaginate, familiari o estranee. I risultati della meditazione compassionevole?
Emozioni positive auto-riferite, sensazione di benessere durante le attività giornaliere, maggiori comportamenti di aiuto verso estranei e maggiore motivazione prosociale (Leiberg et al., 2011; Lutz et al., 2008).
Tali riflessioni sottolineano l’importanza di distinguere empatia e compassione, a un livello neurologico e psicologico. Considerando gli effetti potenzialmente dannosi del disagio empatico, scoprire il ruolo della compassione rispetto alla motivazione e messa in atto di comportamenti altruistici, apre nuovi orizzonti di studio nel campo delle emozioni. Inoltre, appare sempre più evidente quanto, se “l’indifferenza è complice dei misfatti peggiori dell’umanità” – come ci insegna la senatrice Liliana Segre – la compassione non potrà riportare la pace nel mondo, ma potrà comunque alleviare la sofferenza delle persone più vicine a noi, facendole sentire finalmente “viste”.