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I chatbot non giudicano: quando preferiamo i chatbot all’interazione umana – Psicologia digitale

I chatbot sono utilizzati in molti settori e con molte funzioni. Cosa influenza il modo in cui le persone interagiscono con i chatbot?

Di Chiara Cilardo

Pubblicato il 19 Lug. 2024

Chatbot: di cosa si tratta?

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 57) I chatbot non giudicano: quando preferiamo i chatbot all’interazione umana

I chatbot e gli agenti conversazionali basati su tecnologie avanzate come l’elaborazione del linguaggio naturale (natural language processing, NLP) e l’intelligenza artificiale, simulano conversazioni umane sia testuali che vocali. Ad oggi sono utilizzati in molti settori e con molte funzioni: per esempio, molti servizi di e-commerce hanno assistenti virtuali con cui gestiscono la maggior parte delle richieste degli utenti; allo stesso modo nel settore sanitario sono utili per un primo screening dei pazienti; a livello globale si stima che il mercato sia in crescita con previsioni molto positive: da 17,17 miliardi di dollari nel 2020 a 102,29 miliardi di dollari entro il 2026 (Dinh & Park, 2023).

Ma come sono questi chatbot? Come ci appaiono? In alcuni casi hanno un aspetto antropomorfizzato, un nome proprio, una immagine profilo. E non per caso ma perché, come diversi studi dimostrano (ad esempio, Davis & Jin, 2024), design, aspetto e identità di genere dei chatbot influenzano la percezione degli utenti. Queste preferenze variano a seconda del compito: in molti casi, preferiamo i chatbot quando vogliamo acquistare prodotti considerati imbarazzanti o stigmatizzati, oppure in situazioni in cui vorremmo evitare di sentirci giudicati o osservati.

Ad esempio, gli adolescenti sono più inclini a parlare di sé con un chatbot che con un umano; ancora, molti provano meno imbarazzo nel parlare con loro di alcuni sintomi medici. Questo effetto però è mediato dal grado di antropomorfismo: se il chatbot viene percepito come troppo simile all’essere umano, diventa una presenza sociale che, seppur automatizzata, ci fa sentire come se stessimo parlando con una persona, generando disagio (Holthöwer & Van Doorn, 2023). Cosa influenza il modo in cui le persone interagiscono con i chatbot? Quanto incide il livello di antropomorfismo dei chatbot nelle intenzioni d’uso?

L’effetto della somiglianza umana nei chatbot

Cosa ci piace dei chatbot? In effetti, ci sono alcuni attributi che ci influenzano, primo fra tutti l’assenza di giudizio, che li rende interlocutori perfetti in contesti in cui ci sentiamo in imbarazzo. Ci sentiamo meno in imbarazzo nell’interagire con un chatbot rispetto ad un essere umano perché sappiamo che non hanno agency, che non pensano e non esprimono valutazioni e giudizi, che non hanno coscienza né capacità metacognitive (Jun et al., 2024). Questo effetto di riduzione del senso di vergogna è al suo massimo quando siamo sicuri di avere a che fare con un chatbot. Ma quando non ne siamo sicuri, quando non abbiamo la certezza di dialogare con un assistente virtuale e non abbiamo indizi a riguardo, tendiamo a dedurre automaticamente di star parlando con un umano.

Come mai?

E’ la scelta più sicura in caso di dubbio: se temiamo il giudizio e la vergogna, la temiamo se siamo al cospetto di un umano, non di una macchina; quindi in caso di incertezza attuiamo questa strategia anticipatoria di evitamento dell’imbarazzo, una forma di protezione psicologica anticipata.

E per questo rendere una tecnologia, in questo caso un chatbot, troppo simile ad un essere umano ha un effetto controproducente: quando è eccessivamente antropomorfizzato viene visto al pari di un umano, compreso l’avere capacità di mentalizzazione e giudizio. Attribuire caratteristiche umane a oggetti non umani, come suggerisce la teoria della Uncanny Valley, può quindi essere uno svantaggio: questa teoria afferma che, mentre una maggiore somiglianza di una tecnologia con un essere umano può inizialmente aumentare l’affinità e l’interazione positiva, superata una certa soglia di somiglianza, questa diventa eccessiva e provoca una sensazione di inquietudine e una diminuzione del piacere nell’interazione. In effetti, l’antropomorfizzazione può aumentare il ‘calore psicologico’ percepito ma solo fino a un certo punto, superato il quale genera disagio crescente (Holthöwer, & Van Doorn, 2023).

Conferiamo maggiore coscienza e capacità di provare emozioni agli oggetti inanimati quando sono antropomorfizzati. Di conseguenza, i chatbot con caratteristiche umane, come un linguaggio simile a quello umano e un’immagine del profilo antropomorfica, possono essere percepiti come umani, anche nel caso in cui sia esplicito per gli utenti che non hanno capacità di provare emozioni e non hanno coscienza; che sono appunto inanimati, strumenti con scopi specifici. 

Perché preferiamo parlare con un chatbot?

Quando ci rapportiamo ai chatbot utilizziamo alcune euristiche, alcune “scorciatoie di pensiero” che ci permettono di farci un’idea col minor sforzo cognitivo. Per esempio, teniamo conto dell’identità di genere: i chatbot a cui viene attribuita l’identità di genere femminile sono percepiti come più simili agli esseri umani e preferiti perché comunemente si ritiene che le donne siano più accoglienti e attente. Anche l’uso di umorismo e emojii aumenta la gradevolezza delle interazioni con chatbot. Quando parliamo con un commesso in un negozio o con un medico in ambulatorio, preferiamo un tono della conversazione rilassato e amichevole, un approccio cordiale e affabile, vero? Ecco, le emojii hanno la stessa funzione poiché compensano la mancanza di espressioni facciali e il tono di voce (Liu et al., 2023).

Scavando un po’ più a fondo, secondo Dinh e Park (2023), l’intenzione di utilizzare i chatbot è influenzata dall’intreccio di motivazione, che può essere edonica o utilitaristica, e percezione della presenza sociale, che si riferisce alla misura in cui un’interfaccia tecnologica fa sentire agli utenti che vi è una presenza umana dietro l’interazione. La motivazione edonica riguarda il piacere intrinseco dell’attività, mentre quella utilitaristica, invece, è orientata verso obiettivi esterni e benefici pratici, come ottenere informazioni e risolvere problemi. Gli utenti che hanno motivazioni edoniche cercano più spesso questa presenza sociale, desiderando interazioni più amichevoli, mentre quelli con motivazioni utilitaristiche si concentrano più sull’efficienza informativa.

La presenza sociale, reale o percepita, può far sentire giudicati e mettere in imbarazzo, per questo soprattutto in alcune circostanze (per esempio, l’acquisto di prodotti come preservativi) preferiamo lo shopping online o utilizzare casse self-service. E’ proprio in queste situazioni che preferiamo avere ben chiaro di interagire con una macchina, dato che una tecnologia più umana aumenterebbe la percezione di giudizio sociale e quindi la riluttanza ad acquistare il prodotto o a interagire con il servizio, anche quando il giudizio è solo immaginato (Holthöwer, & Van Doorn, 2023).

Insomma, tecnologia sì ma solo fino a un certo punto, il punto in cui ci somiglia troppo; perché in fondo è questo quello che ci aspettiamo da una macchina: che sia come noi ma non abbastanza da sembrare noi.

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