Dopo un episodio depressivo maggiore
Articolo a cura di A. Rossi, S. Righini e F. Turchi
Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) come il Disturbo Bipolare (DB) possono coinvolgere e comportare alterazioni sia della sfera affettiva/emozionale sia di quella cognitiva in modo grave ed invalidante, influendo negativamente sulla vita sociale e lavorativa dell’individuo.
Ciò che li caratterizza è un quadro emotivo intenso dovuto ad un’alterazione patologica del tono dell’umore, ma anche una forte compromissione sul piano personale e sociale causata da sintomi affettivi, somatici, comportamentali e cognitivi, sui quali ci preme una riflessione clinica.
I deficit cognitivi sono considerati un elemento costitutivo e fondamentale nel quadro clinico di questi disturbi ed in letteratura, tanto che numerosi studi hanno evidenziato come spesso l’impairment cognitivo non scompare completamente con la remissione della sintomatologia depressiva.
Infatti, circa il 30% dei pazienti precedentemente trattati per depressione va incontro ad una remissione parziale: pur non soddisfacendo più i criteri per il disturbo, continuano ad esperire un quantitativo di sintomi cognitivi (a carico di attenzione, memoria e funzioni esecutive) o depressivi (deficit legati alla sfera del piacere, del sonno, diminuzione di energia, del desiderio sessuale, del peso/appetito, agitazione o rallentamento psicomotorio, distorsione dei processi interpretativi e ideazione suicidaria) i quali incrementano la probabilità di una ricaduta e quindi ricomparsa del disturbo conclamato, causano una compromissione funzionale e riducono la qualità della vita (Di Sciascio et. al., 2015; Vita e Barlati, 2016; McInerney et. al., 2016).
I sintomi cognitivi nei disturbi dell’umore
Le funzioni cognitive sono definibili come abilità strutturate del cervello in grado di controllare e moderare la relazione con il contesto circostante e riguardano, in maniera gerarchica strutturale, un po’ come se partissimo dalle fondamenta di una casa per andare poi al primo e secondo piano, attenzione, memoria e funzioni esecutive. Deficit nel dominio dell’attenzione, e quindi nelle fondamenta della nostra casa, causano, a cascata, compromissioni sulla memoria e sulle funzioni esecutive.
Solitamente si è inclini ad intendere con il termine “remissione” una completa risoluzione dei sintomi ed un ritorno al pieno funzionamento, ma questa assunzione non risulta corretta. La definizione di remissione, in accordo con l’APA – Practice Guidelines for the Treatment of patients with Major Depressive Disorder – implica che il paziente abbia trascorso 3 o più settimane senza umore triste o riduzione del piacere/interesse nelle attività e non abbia esperito più di 3 tra i sintomi del Disturbo Depressivo Maggiore. La definizione stessa di remissione, posta in questi termini, ammette la presenza dei sintomi residui, sia in termini cognitivi che di sintomatologia clinica, motivo per il quale, negli ultimi anni, i clinici hanno diffuso il concetto di full recovery.
I sintomi cognitivi residui dopo un episodio depressivo maggiore
I sintomi cognitivi residui causano una notevole disabilità, poiché condizionano il funzionamento socio-relazionale e lavorativo, hanno un impatto sulla qualità di vita, riducendola e limitando il recupero funzionale del paziente; tali conseguenze, a loro volta, causano una flessione del tono dell’umore favorendo, quindi, in interazione con la vulnerabilità biologica, sia in termini epigenetici che ontogenetici, la ricaduta. Inoltre, tale sintomatologia residua, alquanto comune nei soggetti che hanno esperito almeno un episodio depressivo maggiore, implica una crescente difficoltà della persona nel mantenere la concentrazione su un determinato compito o prendere delle decisioni semplici (Rakofsky e Rapaport, 2018). La letteratura recente, attraverso l’assessment longitudinale delle funzioni cognitive, ha evidenziato come i deficit di memoria, di attenzione e delle funzioni esecutive siano presenti non solo nelle fasi depressive, ma anche in quelle di remissione. Una recente meta-analisi sui deficit cognitivi nei pazienti con disturbo depressivo maggiore in fase eutimica (ovvero di equilibrio dello stato affettivo che non risulta depresso, né euforico), che ha incluso 27 studi (n. DDM: 895; n. controlli: 997), ha dimostrato come le funzioni cognitive analizzate (attenzione, memoria e funzioni esecutive) fossero deficitarie nei pazienti rispetto ai soggetti sani; l’entità dei deficit era ridotta ma non annullata (Vita e Barlati, 2016).
In uno studio su 215 pazienti con Depressione Maggiore, Nieremberg et. al. hanno evidenziato come dei 108 pazienti in remissione il 26% ha presentato un sintomo residuo cognitivo, il 57% due o più sintomi residui, mentre solo il 20% era in full recovery. L’ 83% del campione in remissione ha continuato a presentare almeno un sintomo residuo tra cui difficoltà collegate alla sfera del sonno (44%), affaticamento (38%), senso di colpa, perdita di interesse e deficit di concentrazione (Nieremberg et. al., 2011).
Un’ulteriore ricerca di Fava et al. (2000) ha accertato la presenza di sintomi cognitivi e fisici in 117 pazienti, in accordo con i dati precedenti più del 30% del campione ha riportato sintomi cognitivi quali apatia, deficit attentivi, vuoti di memoria e difficoltà nella fluenza verbale (49%), il 51% invece ha riportato sintomi di sonnolenza e sedazione.
Una metanalisi del 2009 condotta da Bora et. al. si è occupata di indagare 45 studi diversi riuscendo a confrontare in tutto 1423 pazienti bipolari eutimici con 1524 controlli sani. I risultati evidenziano alterazioni nelle funzioni esecutive: di inibizione della risposta, riduzione di memoria visiva e verbale, fluenza verbale, velocità di elaborazione e diminuzione della capacità di set shifting.
Ancora, uno studio longitudinale di 3 anni condotto da Conradi et al. (2011) su 267 pazienti con DDM ha riscontrato la presenza in media di 2 sintomi residui, inoltre sono stati riscontrati deficit cognitivi quali mancanza di energia e problemi legati alla sfera del sonno con un range in percentuale di 39%-44%.
I sintomi più frequentemente riscontrati nello studio condotto da McClintock et al. (2011) sul 15% dei pazienti che hanno risposto alla somministrazione di farmaci SSRI per due settimane, ma senza raggiungere la remissione, hanno riguardato insonnia (82%), tristezza (71%), diminuzione della concentrazione e della capacità di prendere decisioni (71%).
Infine, nello studio di Bolling et al. (2004) su 161 pazienti, 30 hanno riportato apatia (18,6%), 28 hanno riportato incapacità di concentrarsi (17,4%) e 21 hanno riportato perdita di memoria (13%).
In conclusione si evidenzia l’importanza, anzi la necessità, di valutare la presenza di sintomi residui, clinici e cognitivi, prima di dimettere i pazienti in remissione da un episodio depressivo maggiore, poiché questi hanno un impatto a medio e lungo termine sul funzionamento globale del paziente, con conseguente demoralizzazione secondaria, anche alla luce del fatto che molti pazienti hanno difficoltà a riconoscere il collegamento fra tali deficit cognitivi e la condizione clinica pregressa, attribuendosene di fatto, invece, la responsabilità. Inoltre, come è facilmente intuibile, la compromissione del funzionamento del paziente, in termini anche socio-relazionali e lavorativi, ne limita il residuo recupero funzionale a livello globale, indipendentemente dalla gravità della sintomatologia in corso e dalla fase di malattia ed indipendentemente anche dal numero di episodi depressivi maggiori esperiti.
Tale valutazione, dicevamo, dovrebbe quindi essere inclusa nel progetto terapeutico e nella implementazione delle strategie di intervento, che ne dovranno tenere conto, fino alla loro completa remissione, ad esempio attraverso tecniche di Cognitive Remediation Therapy, la quale ha ottenuto prove di efficacia proprio in questo senso, al punto da disporre in letteratura di una batteria di strumenti da somministrare ai nostri pazienti, tradotta in moltissime lingue ed il cui outcome è di semplicissima comprensione. Come utilizzare, dunque, in ambito clinico questi outcome? La direzione sembra essere unica: una terapia, psicoterapia e farmacoterapia, mirata e personalizzata, al servizio della quale dobbiamo mettere in campo competenze specifiche nel trattamento di questi pazienti, e non fermarci, quando ancora è possibile, fino al raggiungimento di una completa remissione, sotto tutti i profili. Questo permetterebbe un impatto virtuoso, a catena, sulla prevenzione delle ricadute, sul senso di autoefficacia, sulla stabilizzazione neurofunzionale, modificando di fatto in un’ottica connettomica (Seung, 2013) l’espressione neurale dei nostri pazienti.