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Il ruolo degli antiscopi nel mantenimento della sofferenza psicologica: “So quello che non voglio! Trascuro quello che vorrei”.

Spesso anziché focalizzarci su quello che ci piacerebbe raggiungere, diamo attenzione a quello che non vorremmo accadesse, gli antigoal

Di Giuseppe Femia, Isabella Federico

Pubblicato il 21 Lug. 2023

Introduzione

Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
(Seneca)

Gli antiscopi fanno parte di una sorta di psicologia dei desideri al contrario, ovvero quando tendiamo a formulare i nostri scopi di vita, i nostri bisogni ed obiettivi al negativo.

Lucia soffre a causa del suo perfezionismo, deve fare tutto in modo impeccabile secondo standard molto elevati. La sua mente sembra essere governata da un antiscopo supremo: “Non posso sbagliare, non posso essere imperfetta”. Questo perfezionismo si declina in diversi modi, generando ansia, paura del fallimento, demoralizzazione, inibizione e rabbia. Dall’antiscopo rappresentato nella mente di Lucia discendono credenze e regole assolutistiche che sostengono, mantengono e aggravano la sofferenza, rendendola oltremodo patologica, pervasiva e persistente, e creandole problemi emotivi e interpersonali. Il padre controlla sempre tutto e la madre ha sempre investito molto sulla professione, trascurandola. Le ha insegnato che non bisogna fallire e che non bisogna essere superficiali. Quando Lucia riusciva a fare le cose in modo perfetto, allora riceveva risarcimento, apprezzamento e amore. Viceversa meritava disprezzo e umiliazione.

Per antigoal si intende lo “stato temuto” da “evitare ad ogni costo” che non si limita ad essere l’opposto di uno stato desiderato, ma si differenzia da quest’ultimo per una serie di ragioni: “non è graduabile, non può dirsi mai raggiunto definitivamente ed è sempre attivo” (Lorenzini, Sassaroli 2000; Coratti, Lorenzini 2008). Infatti, l’antigoal assume una priorità assoluta nella mente del paziente (in quanto scenario catastrofico da cui fuggire e che dunque impegnerà il paziente nell’evitare che lo scenario temuto si realizzi, impedendogli di concentrarsi nel perseguire ciò che invece desidera) e non graduabile (ovvero, il paziente non si sentirà mai del tutto al sicuro, in quanto come è possibile raggiungere una zona di sicurezza se è costantemente presente e incombente nella sua mente la situazione di pericolo da cui fuggire?) e sempre attivo. Non solo, i costi nel cercare di evitare lo scenario temuto sono pressochè illimitati, in quanto rispetto all’antiscopo il paziente tenderà a formulare valutazioni di precarietà correlate ad emozioni di allarme, monopolizzando tutte le risorse del sistema trasformando in casi estremi un sistema a scopi terminali multipli e positivi in un sistema guidato da un solo antiscopo negativo (Lorenzini, 2013), mentre uno scopo può anche dirsi raggiunto parzialmente.

Leggere gli antiscopi in psicoterapia

Nella formulazione del caso e nella pianificazione del trattamento in una prospettiva cognitivo comportamentale, il ruolo patogeno delle credenze disfunzionali è centrale (Beck 1976; Ellis 1962). Il paziente soffre perché crede di non valere niente, o che nessuno lo ami, o che sia moralmente disprezzabile, e così via. La mente degli esseri umani, tuttavia, non si limita a credere e sapere, ma crea rappresentazioni di ciò che vuole – gli scenari desiderati o scopi – e ciò che non vuole – gli scenari temuti o antiscopi (Saliani et al., 2020).

Se ci fermassimo a considerare soltanto le credenze disfunzionali del paziente e non considerassimo cosa desidera o al contrario cosa teme, come potremmo capire il motivo per cui una credenza gli provoca stati emotivi dolorosi e ostacola il suo benessere?

Infatti, senza considerare le motivazioni più profonde del paziente, le sue credenze disfunzionali giocherebbero un ruolo puramente epistemico (Castelfranchi e Miceli 2004).

Più specificamente, se consideriamo il campo della psicopatologia, diventa necessario sottolineare il ruolo fondamentale svolto da un particolare tipo di obiettivo: gli antigoal iperinvestiti, ovvero gli scenari vissuti dal paziente come catastrofici, terribili, inaccettabili in assoluto (Saliani et al., 2022).

Un esempio potrebbe essere: “Non posso fallire” anziché dire che ci piacerebbe raggiungere un livello di approvazione e affermazione. Questa modalità di anteporre il negativo prima del desiderio sembra innescare una psicologia connotata da emozioni negative di ansia, tristezza, rabbia, generando uno stile comportamentale di evitamento e inibizione.

Dagli antiscopi al perseguimento dei valori

In buona sostanza quando ci prefiguriamo uno scenario temuto e cerchiamo di evitarlo, ci comportiamo mossi dalla paura e non dal desiderio. Anziché focalizzarci su quello che ci piacerebbe raggiungere o avere, diamo attenzione a quello che non vorremmo accadesse, dunque sugli antigoal e non sui goal che vorremmo segnare nella nostra corsa esistenziale. Questa postura psicologica implica sofferenza e tensione. Spesso nella pratica clinica gli psicoterapeuti osservano un iperinvestimento sugli antiscopi con rigidità e, soprattutto l’assenza di una regola di stop che possa modulare le aspettative ed i relativi stati emotivi correlati.

Immaginiamo Aurora che teme il giudizio degli altri e per questa ragione evita situazioni sociali, si sente goffa e diversa dagli altri, meno capace di essere espansiva e socialmente appetibile. Ecco, molto probabilmente nella sua mente Aurora evita le situazioni rischiose in cui potrebbe interagire con gli altri pensando “Non voglio fare una brutta figura e non posso essere giudicata male”. Non riesce a formulari un desiderio o una volontà, ad esempio: “Vorrei sentirmi appartenente e parlare con gli altri in modo piacevole”. Se lei riuscisse a farsi guidare dal desiderio, allora non eviterebbe tutte le situazioni in cui potrebbe soddisfare il suo bisogno. Dunque a causare il disagio e, soprattutto a mantenerlo, sembra proprio la formulazione del desiderio al contrario, ovvero sull’antigoal, iper-vestito, rigido, che non consente ad Aurora a disconfermare la sua credenza patogena ovvero “sono goffa e inadeguata a livello sociale”.

Un esempio classico di questa mancanza di una regola di stop è il disturbo alimentare di tipo restrittivo: prendiamo, ad esempio, Carolina che teme di ingrassare e di essere così considerata disgustosa e non amabile da parte degli altri e per questo controlla la sua dieta in maniera rigida ed estenuante, svolge attività fisica senza sosta, indossa maglioni larghi per nascondere le forme corporee, allo specchio si vede sempre come “non vorrebbe essere”, sminuzza il cibo nel piatto mentre i pensieri “Non devi mangiare, sei grassa!”, “Diventerai disgustosa e nessuno ti amerà”, continuano a tormentarla.

Le regole rigide rispetto a trovare una forma fisica “perfetta” sembrano strategie disfunzionali governate dall’antigoal di non voler ingrassare e di non voler perdere ulteriormente l’amore da parte degli altri.

Carolina non riesce a farsi guidare dal desiderio di essere amata e vista in quanto pensa di non meritarlo, e così tenta di rendersi invisibile, tenta di poter controllare quella fame d’amore.

Forse il ruolo centrale della psicoterapia è quello di aiutare il paziente a costruire orizzonti possibili, costituiti da obiettivi misurabili, flessibili e perseguibili che vadano ad ampliare il suo piano di vita nella direzione dei suoi valori: non più (o non solo) un iper-investimento su un antiscopo, ma un investimento flessibile su più domini costituiti da scenari desiderati (scopi) verso cui “andare incontro”, anziché da scenari temuti da cui “scappare”.

Tali obiettivi saranno tanto più efficaci quanto più personalizzati/specifici (Lindhiem et al., 2016) per ogni tipo di paziente che ci troviamo di fronte, basandoci sulla teoria evidence-based di riferimento senza dimenticare – al contempo – il caso specifico, i bisogni emotivi fondamentali di quel paziente, attorno ai quali ha costruito il suo mondo/la sua costellazione personale di significati.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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